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I Pirati della Malesia

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17. La fuga del principe Hassin.

Sir Hunton, che non dubitava di aver invitato un’autentica principessa indiana e non aveva il minimo sospetto della trama così abilmente ordita dall’astuto maharatto, fece gli onori di casa con la più squisita cortesia e senza risparmi, poiché gli era stato donato un diamante di grande valore.

Il pranzo offerto alla principessa non poteva essere migliore. Il cuoco aveva saccheggiato la dispensa, i pollai dei dayachi e i vivai di pesce. Non mancavano nemmeno autentiche bottiglie di vino di Spagna che il governatore aveva ricevuto in dono da un suo amico delle Filippine e aveva serbato con cura per le grandi occasioni.

Quando i commensali ebbero terminato il tradizionale pudding, la notte incominciava a calare.

– Il principe Hassin si inquieterà non vedendoci – osservò Ada, dopo aver gettato uno sguardo all’esterno. – Le tenebre scendono rapidamente, signor governatore.

– È già stato avvertito che andremo a prendere il thè in casa sua, Altezza – rispose sir Hunton.

– Non facciamoci aspettare troppo.

– Se credete, alziamoci.

– Una passeggiata in riva al fiume ci farà bene.

Si era alzata, gettandosi sul capo una ricca mantiglia di seta per difendersi dall’umidità della notte, assai pericolosa in quelle regioni.

Kammamuri, che aveva preso parte al pranzo nella sua qualità di segretario dell’amabile principessa, era già uscito.

Due marinai dello yacht lo attendevano in riva al fiume.

– È tutto pronto? – chiese loro.

– Sì – risposero.

– Quanti cavalli avete acquistati?

– Otto.

– Dove ci attendono?

– Sul margine del bosco.

– Va bene: raggiungete i compagni.

Ada usciva in quel momento al braccio del governatore. Kammamuri la raggiunse e con un rapido gesto lo fece comprendere che tutto era pronto.

La notte era splendida. Ad oriente una nube rosea, che diventava rapidamente grigia, indicava il luogo dove era scomparso il sole. Il cielo si copriva rapidamente di stelle che si specchiavano nelle placide acque del fiume.

Per l’aria svolazzavano i pipistrelli giganti, e fra i cespugli e gli alberi erravano miriadi di lucertoline volanti, mentre le to-chi, altre lucertoline, ma simili alle tarantole, uscivano dalle screpolature delle case per cominciare le loro ardite evoluzioni sui soffitti delle stanze emettendo le loro lievi strida: to-chi!… to-chi!…

Sul fiume qualche battelliere cantava una monotona canzone, mentre le giunche cinesi, le sole navi che salgano fino a Sedang, accendevano le loro monumentali lanterne di carta oliata o di talco.

Mille profumi giungevano dalle vicine foreste: gli alberi della canfora, le noci moscate, gli alberi dei garofani e i mangostani esalavano i loro acuti aromi.

Ada non parlava, ma cercava invece di affrettare il passo; il governatore, che aveva bevuto un po’ troppo, la seguiva, facendo sforzi per mantenersi ritto.

Fortunatamente la via era breve. Pochi minuti dopo si trovavano dinanzi alla reggia dell’erede del sultano; una reggia molto modesta, poiché era una casetta a due piani, circondata da una veranda e guardata da quattro indiani armati incaricati di sorvegliare attentamente il prigioniero.

Il governatore, dopo essersi fatto annunziare, condusse la principessa in un salottino adorno di divani e di tappeti già in gran parte consunti, di alcuni specchi e d’un tavolo sul quale stavano ammucchiati, in completo disordine, gingilli cinesi, chicchere, teiere e palle d’avorio traforate.

Il nipote di Muda-Hassin li attendeva seduto su di una vecchia poltrona mezzo sgangherata, sormontata da un piccolo gaviale dorato, emblema dei sultani di Sarawak.

Il rivale di James Brooke non aveva in quell’epoca che trent’anni. Era di alta statura, di portamento maestoso, con una bella testa coperta da lunghi e neri capelli, un viso leggermente abbronzato adorno d’una barba fuligginosa ma rada, e due occhi ardenti e intelligentissimi. Portava in capo il turbante verde dei sultani del Borneo e indossava una lunga zimarra di seta bianca, stretta alla cintola da una larga fascia di seta rossa, dalle cui pieghe uscivano le impugnature di due kriss, distintivo dei grandi capi, mentre al fianco gli pendeva un golok, pesante sciabola malese, lunga, affilatissima, di ferro battuto.

Vedendo entrare il governatore, s’alzò facendo un piccolo inchino, poi fissò i suoi occhi sulla giovanetta con viva curiosità, dicendo:

– Siate i benvenuti nella mia casa.

– La principessa Raibh aveva mostrato il desiderio di visitarvi e ve l’ho condotta nella speranza di farvi un piacere – rispose il governatore.

– Vi ringrazio della vostra cortesia, signore. Sono così rare le distrazioni in questa città e ancora più rare le visite!… Il rajah Brooke ha torto a lasciarmi in questo isolamento.

– Voi lo sapete che il rajah diffida di voi.

– Senza ragione, poiché io non ho più partigiani. La saggia amministrazione del rajah Brooke me li ha staccati tutti.

– I dayachi sì, ma i malesi…

– Anche quelli, sir Hunton… ma lasciamo la politica, e permettete che vi offra un buon thè.

– Si dice che voi ne abbiate di veramente eccellente – disse il governatore ridendo.

– Vero thè fiorito, ve lo assicuro: il mio amico Tai-Sin me ne regala sempre, quando approda a Sedang. Servite il thè – disse poi. Kammamuri fu lesto a passare in una stanza attigua dove si udiva un rumore di chicchere e poco dopo rientrava seguito da un piccolo malese, il quale recava un servizio completo su di un vassoio d’argento.

Il furbo maharatto versò la deliziosa bevanda e nella chicchera destinata al governatore lasciò cadere una pillola, che subito si sciolse.

Offrì la prima tazza alla sua padrona, la seconda a sir Hunton e la terza al nipote del sultano, poi ritornò nella stanza vicina. Riempì rapidamente quattro tazze, vi sciolse altrettante pillole, poi disse al piccolo malese:

– Seguimi col vassoio.

– Vi sono altri invitati, signore? – chiese il servo.

– Sì – rispose il maharatto con un misterioso sorriso. – Vi è un’altra uscita senza passare per il salotto?

– Sì.

– Precedimi.

Il malese lo fece passare in una terza stanzetta la cui porta metteva sulla via. A pochi passi vegliavano le quattro sentinelle.

– Giovanotti – disse il maharatto muovendo verso di loro. – La mia padrona, la principessa Raibh, vi offre il thè di Hassin. Giù tutto alla sua salute, ed ecco un pugno di rupie che vi prega di accettare.

I quattro indiani non si fecero pregare due volte. Intascarono sollecitamente le rupie e tracannarono d’un fiato il thè, alla salute della munifica principessa.

– Buona guardia, giovanotti – disse Kammamuri, ironicamente. Ritornò nel salotto del nipote del sultano. Proprio in quel momento il governatore, vinto dal potente narcotico, rotolava dalla sedia stramazzando pesantemente sui tappeti.

– Buon riposo— disse il maharatto. Ada e Hassin si erano alzati.

– Morto?…– chiese quest’ultimo con accento selvaggio.

– No, addormentato – rispose Ada.

– E non si sveglierà?…

– Sì, ma fra ventiquattro ore e noi allora saremo molto lontani.

– Dunque è vero che voi siete venuta qui per rendermi la libertà?…

– Sì.

– E per aiutarmi a riacquistare il trono dei miei avi?

– È vero!

– Ma per quale motivo?… Che cosa potrò fare io per voi, signora?…

– Lo saprete più tardi: ora si tratta di fuggire.

– Sono pronto a seguirvi: ordinate.

– Avete dei partigiani?

– Tutti i malesi sono con me!

– E i dayachi?…

– Si batteranno sotto le bandiere di Brooke.

– Conoscete un luogo sicuro dove possiate attendere i vostri partigiani?

– Sì, il kampong del mio amico Orango-Tuah.

– È lontano?

– Presso la foce del fiume.

– Andiamo: i cavalli sono pronti.

– Ma le guardie?

– Dormono al pari del governatore – disse Kammamuri.

– Andiamo – ripeté Ada.

Il giovane principe raccolse le gioie racchiuse in un piccolo forziere, staccò da una parete un fucile e seguì Ada e Kammamuri, dopo aver lanciato un ultimo sguardo sul governatore, il quale russava sonoramente.

Dinanzi alla porta giacevano i quattro indiani, l’uno sull’altro, profondamente addormentati. Kammamuri prese loro le carabine e le cartucce, poi emise un fischio. Dal bosco vicino uscirono i quattro marinai dello yacht e Bangawadi. Essi conducevano otto cavalli. Kammamuri aiutò la sua padrona a salire su uno dei migliori, poi balzò agilmente in groppa a un altro dicendo: – Al galoppo!…

Il drappello, guidato dal principe che conosceva la via meglio di Bagawadi, si mise al galoppo seguendo il margine della grande foresta che si estendeva lungo la sponda destra del fiume.

I cavalieri erano giunti di fronte alla città, quando sulla riva opposta si udì una voce gridare:

– Chi passa?…

– Che nessuno risponda – disse il principe.

– Chi passa? – ripeté la voce con accento minaccioso.

Non ricevendo risposta, la sentinella che doveva aver scorto quel gruppo di cavalieri, quantunque la notte fosse oscura, fece fuoco gridando:

– All’armi!…

La palla passò fischiando sopra il drappello e si perdette nella vicina foresta.

– Sprona!… – gridò Kammamuri.

I cavalli partirono di carriera, mentre verso la città si udivano le guardie del palazzo del governatore gridare:

– All’armi!…

Il drappello percorse buon tratto della riva destra, poi guadò il fiume ad un miglio dalla città e passò sulla sponda sinistra per percorrere la via che conduce alla costa.

– Credete che c’inseguiranno? – chiese Ada al principe.

– Lo temo, signora – rispose il pretendente. – A quest’ora avranno già trovato il governatore e, accorgendosi della mia fuga, si lanceranno tutti sulle nostre tracce.

 

– Ma sono solamente venti.

– Sedici, signora, poiché quattro dormono.

– Tanto meglio. Potremo respingerli facilmente.

– Ma andranno a cercare soccorsi nei villaggi dei dayachi e prima di dodici ore avremo ai talloni due o trecento armati.

– Giungeremo prima al kampong?

– Fra due ore ci saremo, e se verranno ad assalirci troveranno un osso duro da rodere. Fra due giorni spero di radunare cinque o sei mila malesi e un centinaio di prahos.

– Armati di cannoni, i prahos?

– Alcuni solamente, e saranno sufficienti per assalire la flotta di Brooke.

– Fortunatamente fra quattro o cinque giorni giungeranno molte artiglierie.

– Delle artiglierie, avete detto?… – esclamò il principe, al colmo dello stupore.

– Sì, servite dai più formidabili pirati del Borneo.

– Da quali?

– Da quelli di Mompracem.

– Di Mompracem?… Sandokan, la invincibile Tigre della Malesia, viene dunque in mio soccorso?…

– Lui no, ma le sue bande forse a quest’ora navigano verso la baia di Sarawak.

– Ma dov’è Sandokan?

– Nelle mani del rajah.

– Lui prigioniero?… È impossibile!…

– È stato vinto da forze venti volte superiori alle sue, dopo un terribile combattimento, e fatto prigioniero assieme con il suo luogotenente e il mio fidanzato. È per salvare loro che io vi ho fatto fuggire.

– Ma dove sono ora?

– A Sarawak.

– Li libereremo, signora, ve lo giuro. Quando i malesi sapranno che le bande di Mompracem prendono parte alla lotta insorgeranno tutti. James Brooke non ha che pochi giorni di potere.

– Alt! – gridò in quell’istante una voce.

Il principe rattenne violentemente il proprio cavallo e si pose davanti alla giovanetta snudando il golok.

– Chi vive? – gridò.

– Guerrieri di Orango-Tuah.

– Va’ a dire al tuo capo che il nipote di Muda-Hassin viene a visitarlo.

Poi volgendosi verso la giovanetta e indicandole una massa oscura che s’ergeva sull’orlo d’una grande foresta, le disse:

– Ecco il kampong!… Ora possiamo sfidare le guardie del governatore.

18. La sconfitta di James Brooke

Il kampong di Orango-Tuah era un grosso villaggio malese, fortificato come lo sono in generale tutti quelli del Borneo per difendersi dalle scorrerie dei popoli dell’interno, e specialmente dei dayachi, coi quali sono sempre in guerra.

Si componeva di trecento capanne di legno con i tetti coperti di foglie di nipa, difese da alte e solide palizzate e da fitti macchioni di bambù spinosi, ostacoli quasi insuperabili per i piedi e le membra nude degli indigeni.

Gli abitanti potevano inoltre contare su una mezza dozzina di prahos armati da spingarde che stazionavano in un piccolo lago comunicante col mare per mezzo d’un canale.

Orango-Tuah, un malese robustissimo, dalla tinta fosca, cogli occhi obliqui e gli zigomi assai sporgenti, scorridore del mare prima delle sanguinose repressioni di James Brooke, prontamente avvertito, s’affrettò a recarsi incontro al suo principe, seguito da grande numero di sudditi che recavano rami resinosi accesi.

L’accoglienza fu festosa. Tutta la popolazione, svegliata dai tam tam, accorse in massa a felicitare il futuro signore di Sarawak. Orango-Tuah condusse gli ospiti nella migliore capanna del villaggio, poi, avendo appreso che le guardie del governatore li inseguivano, fece appostare una cinquantina d’uomini armati di fucili nei vicini boschi per respingerle.

Prese quelle misure, fece radunare i suoi sottocapi a consiglio per promuovere rapidamente l’insurrezione nei villaggi malesi e raccogliere un corpo considerevole, prima che la notizia della fuga del principe giungesse a Sarawak.

La stessa notte quaranta emissari partivano per l’interno e tre prahos uscivano in mare per avvisare i malesi della costa della grande lotta che si preparava, mentre due altri venivano mandati ad incrociare al capo Siriki per far poggiare le bande di Mompracem verso il kampong.

Ada invece inviò uno dei marinai dello yacht alla foce del fiume per avvertire lord James di ciò che si preparava.

L’indomani i primi rinforzi cominciarono ad affluire nel kampong. Erano bande di malesi, per lo più armate di fucili, che accorrevano da tutte le parti per combattere sotto le bandiere del loro principe. Anche dal mare giungevano ad ogni istante prahos montati da numerosi equipaggi e armati di qualche pezzo d’artiglieria.

Tre giorni dopo, settemila malesi erano accampati intorno al kampong. Non attendevano che le bande di Mompracem per mettersi in marcia verso Sarawak e piombare improvvisamente sulla città.

Già tutte le vie dell’interno erano state occupate per impedire ai dayachi di recare notizie sull’estendersi dell’insurrezione al rajah, il quale doveva ancora ignorare la fuga del suo avversario. Il quinto giorno la flottiglia di Mompracem si ancorava davanti alla spiaggia del kampong. Era composta di ventiquattro grossi prahos, armati di quaranta cannoni e di sessanta spingarde, e montata da duecento combattenti che per coraggio e abilità guerresca valevano mille malesi.

Appena sbarcato, Aïer-Duk si recò da Ada che era stata alloggiata nella stessa abitazione di Orango-Tuah.

– Signora – le disse, – le tigri di Mompracem sono pronte a piombare su Sarawak. Hanno giurato di liberare Sandokan e i suoi amici o di farsi uccidere tutti.

– I malesi non aspettavano che voi – rispose la giovanetta. – Giuratemi però, innanzi tutto, che non farete alcun male a James Brooke e che, se lo vincerete, lo lascerete libero.

– Proteggeremo la sua fuga, giacché lo volete. Voi parlate in nome del nostro capitano e noi vi obbediremo. -

Due ore dopo l’esercito malese, guidato dal futuro sultano, lasciava il kampong percorrendo la via costiera, mentre la flottiglia di Mompracem sulla quale si erano imbarcati Ada e Kammamuri, prendeva il largo seguita da altri cento prahos accorsi da tutti i villaggi della vasta baia di Sarawak.

Tutte le misure erano state prese per attaccare di sorpresa la capitale del rajah ed era stato fissato il giorno per assalirla contemporaneamente dalla parte di terra e dalla parte del fiume.

La flottiglia che navigava lentamente per lasciar tempo alle truppe di ordinarsi e di avanzare, ogni sera si radunava sotto la costa per attendere i corrieri di Hassin.

Per non restare inoperosi , davano la caccia ai velieri che si dirigevano verso Sarawak, per impedire al raja di ricevere notizie sull’avanzarsi di quella squadra sospetta.

Aïer-Duk però doveva faticare assai per calmare l’impazienza dei tigrotti di Mompracem, i quali ardevano dal desiderio di vendicare la sconfitta toccata al loro capo.

Quattro giorni dopo, verso il tramonto, la flottiglia giungeva alla foce del fiume. Quella stessa notte le truppe di Hassin dovevano piombare sulla capitale.

Aïer-Duk ordinò al praho che era montato da Ada di tenersi celato in una piccola cala della foce, per non esporre la giovanetta agli orrori della battaglia; ma Kammamuri passò sul legno del capo, non volendo rimanere inoperoso in quel supremo momento.

– Riconducimi Tremal-Naik – gli disse Ada prima che si separassero.

– Mi farò storpiare ma il padrone sarà salvo – rispose il bravo maharatto. – Appena sbarcato andrò a circondare il palazzo del rajah, poiché sono certo che i prigionieri sono tenuti là dentro.

– Va’, mio valoroso, e che Iddio ti protegga!

Aïer-Duk aveva dato gli ultimi ordini pel combattimento. Aveva messo alla testa della squadra i prahos più grossi, armati di cannoni e montati dai più intrepidi pirati di Mompracem.

Questi dovevano sostenere il primo urto e gli altri fare massa contro la flotta per l’abbordaggio.

Alle 10i sera la flottiglia si mise in moto risalendo rapidamente il fiume. Tutte le vele erano state ammainate per tenere i ponti sgombri, e le piccole navi avanzarono a forza di remi.

Il fiume pareva deserto: nessuna nave nemica appariva presso le rive, e perfino le foreste, facili a difendersi, erano prive di soldati.

Quel silenzio però non rassicurava Aïer-Duk. Gli pareva impossibile che nulla fosse trapelato della insurrezione che da cinque giorni dilagava attraverso il reame, e che il rajah, uomo astuto, audace, fedelmente servito dai dayachi e dalla guardia indiana, si lasciasse sorprendere. Temeva invece un agguato presso la città e aguzzava gli sguardi e tendeva gli orecchi.

A mezzanotte la flottiglia non era che a mezzo miglio da Sarawak. Si cominciava a distinguere le prime case sulla oscura linea dell’orizzonte.

– Odi nulla? – chiese Aïer-Duk a Kammamuri che gli stava a fianco.

– Nulla – rispose il maharatto.

– Questo silenzio m’inquieta. Hassin dovrebbe già essere giunto e avrebbe dovuto cominciare l’attacco.

– Forse aspetterà di udire i nostri cannoni.

– Ah!…

– Che cos’hai?

– La flotta!…

Ad una svolta del fiume erano apparse le navi del rajah in linea di battaglia, pronte a respingere l’attacco.

D’improvviso quindici o venti lampi ruppero le tenebre, seguiti da un orribile rimbombo. La flotta di Brooke aveva cominciato un fuoco infernale contro la squadra degli assalitori.

Un urlo immenso echeggiò sul fiume:

– Viva Mompracem!…

– Viva Hassin!…

Quasi nello stesso momento al nord della città, si udirono furiose scariche di moschetteria. Le truppe di Hassin piombavano sulla capitale.

– All’abbordaggio, tigrotti di Mompracem!… – tuonò Aïer-Duk. Viva la Tigre della Malesia!

I prahos si gettano contro le navi del rajah, nonostante la mitraglia che spazza i ponti e le palle che massacrano le manovre. Nessuno resiste alla furia di quell’assalto.

In un baleno le navi sono circondate da quei numerosi legni montati dai più intrepidi scorridori del mare della Malesia!

Tigrotti e malesi s’inerpicano su pei fianchi delle navi, superano le murate, invadono i ponti, circondano gli equipaggi impotenti a resistere a tanta furia, li disarmano e li rinchiudono nelle stive e nelle batterie. Le bandiere del rajah vengono ammainate ed in loro vece si alzano quelle rosse di Mompracem adorne di una testa di tigre.

– A Sarawak!… – tuonano Kammamuri e Aïer-Duk.

I prahos riprendono il largo per piombare sulla città. La battaglia impegnata dalle truppe malesi ferve intanto accanita nelle vie della capitale.

In tutti i quartieri la moschetteria tuona e perfino sui canali. Si odono le urla dei malesi che avanzano verso la piazza dove sorge il palazzo del rajah.

Alcune case bruciano in diversi luoghi della città spandendo all’intorno una luce sanguigna, mentre in alto volteggiano nembi di scintille che il vento porta lontano attraverso le campagne.

Aïer-Duk e Kammamuri approdano sulla calata e alla testa di quattrocento uomini irrompono nel quartiere cinese i cui abitanti sono pure insorti.

Due drappelli di indiani della guardia, appostati allo sbocco del quartiere, cercano di respingerli con due scariche, ma le tigri di Mompracem li assaltano con le scimitarre in pugno e li mettono in fuga disordinata.

– Al Palazzo!… – urla Kammamuri.

E trascinandosi dietro quelle bande formidabili, giunge sulla grande piazza. Il palazzo del rajah non è difeso che da un pugno di guardie le quali, dopo una breve resistenza, si disperdono.

– Viva la Tigre della Malesia! – tuonano i pirati di Mompracem.

Una voce, squillante come una tromba, echeggia nell’interno del palazzo:

– Viva Mompracem!…

È la voce di Sandokan. I tigrotti l’hanno riconosciuta.

Irrompono su per le scale, abbattono le porte che erano state barricate, percorrono all’impazzata le stanze e finalmente, in una cella difesa da solide inferriate, trovano Sandokan, Yanez, Tremal— Naik, Tanauduriam e Sambigliong.

Non lasciano loro il tempo di parlare. Li sollevano fra le braccia e li portano in trionfo sulla piazza, fra urla assordanti.

Proprio in quel momento un’onda d’indiani fuggiaschi, respinti dalle truppe di Hassin, si riversa sulla piazza.

Sandokan strappa la scimitarra ad uno dei suoi fedeli e si lancia in mezzo ai fuggiaschi, seguito da Yanez, da Tremal-Naik e da una ventina dei suoi.

Gli indiani si disperdono, ma un uomo rimane: era James Brooke, con le vesti stracciate, la sciabola insanguinata ancora in pugno, gli occhi torvi.

– Siete mio!… – grida Sandokan afferrandogli la sciabola.

– Voi! – esclama il rajah con voce cupa. – Ancora voi!

– Mi dovevate questa rivincita, Altezza.

– Il mio regno è finito ed io non sono che un prigioniero, riservato alle vendette del nipote di colui ch’io difesi con la mia spada e che mi diede, in ricompensa, un così malfermo trono.

 

– Non un prigioniero, James Brooke: voi siete libero – disse Sandokan, facendogli largo fra i pirati. – Aïer-Duk!… Conduci S. A. alla foce del fiume e veglia sulla sua vita.

L’ex-rajah guardò Sandokan con stupore, poi, vedendo irrompere nella piazza i malesi di Hassin che emettevano grida di morte contro di lui, seguì rapidamente Aïer-Duk il quale ha radunato attorno a sé una trentina di uomini.

– Ecco un uomo che non ritornerà mai più su queste spiagge – soggiunge Sandokan. – La potenza del rajah James Brooke è tramontata per sempre!…