Za darmo

I Pirati della Malesia

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– Sia – disse Brooke dopo alcuni istanti di riflessione.

Allora Sandokan si avanzò e, gettando a terra la scimitarra e il kriss, disse:

– Sono vostro prigioniero.

Yanez, Tanauduriam e Sambigliong gettarono pure le loro armi.

Lord James, con gli occhi umidi, si gettò fra il rajah e Sandokan.

– Altezza – disse, – che cosa farete di mio nipote?

– Gli accordo ciò che mi ha chiesto.

– Cioè?

– Lo manderò in India. La Corte Suprema di Calcutta s’incaricherà di giudicarlo.

– E quando partirà?

– Fra quaranta giorni, col postale proveniente da Labuan.

– Altezza… è mio nipote, ed io ho cooperato alla sua cattura.

– Lo so milord.

– Ha salvato Ada Corishant, Altezza.

– Lo so, ma nulla può fare colui che si chiama lo sterminatore dei pirati.

– E se mio nipote vi promettesse di lasciare per sempre questi mari?… E se mio nipote vi giurasse di non rivedere più Mompracem?

– Fermatevi, zio – disse Sandokan. – Né io né i miei compagni abbiamo paura della giustizia umana. Quando l’ultima ora sarà suonata, le tigri di Mompracem sapranno morire da forti. -

S’avvicinò al vecchio lord che piangeva in silenzio e lo abbracciò, mentre Tremal-Naik abbracciava Ada.

– Addio, signora – disse poi, stringendo la mano alla giovanetta che singhiozzava. – Sperate!…

Si volse verso il rajah che lo attendeva presso la porta e, alzando fieramente il capo, gli disse:

– Sono ai vostri ordini, Altezza.

I quattro pirati e Tremal-Naik uscirono dal fortino e presero posto nelle imbarcazioni. Quando queste presero il largo dirigendosi verso il Realista, volsero gli sguardi verso l’isolotto.

Sulla porta del recinto stava il lord con Ada a destra e Kammamuri a sinistra. Tutti e tre piangevano.

– Povero zio, povera miss – esclamò Sandokan, sospirando. – Fatalità!… Fatalità!… Ma la separazione sarà breve, e tu, James Brooke, perderai il trono!…

15. Lo yacht di Lord James

La baia, dopo quel furioso cannoneggiamento e quella tremenda lotta che aveva distrutte le indomabili tigri della selvaggia Mompracem e vinti gli ultimi superstiti della formidabile banda, era ritornata silenziosa.

Il Realista si era allontanato assieme alla piccola flottiglia e le truppe del rajah avevano ripresa la via dei boschi per ritornare a Sarawak. Solo rimaneva lo yacht ancorato presso l’isolotto, in attesa di Lord James che ne era il proprietario.

Dinanzi al fortino, seduta su un pezzo di cinta che le palle dei cannoni avevano diroccato, singhiozzava Ada e presso di lei stavano il vecchio Lord e Kammamuri.

– Imbarchiamoci, nipote mia, – diceva il Lord. – Non è colle lagrime che noi potremmo salvarli.

– È vero, padrona, – diceva il maharatto. – Bisogna agire e presto. Pensate che fra quaranta giorni Sandokan verrà condotto in India e che se quell’uomo non è qui, forse nemmeno il mio padrone potrà essere libero.

– Ho l’anima infranta, zio. lo non so, ma si direbbe che su di me pesa la maledizione dell’orribile divinità dei thugs.

– Lascia andare simili ubbie, Ada, e partiamo.

– Ma per dove?

– Per Mompracem, – disse una voce dietro di loro.

Si volsero tutti e tre e si trovarono dinanzi ad un pirata col viso sfigurato e imbrattato di sangue.

– Chi siete? – chiese il Lord, indietreggiando.

– Aïer Duk, uno dei capi banda della Tigre della Malesia.

– Vivo ancora!… – esclamarono Ada e Kammamuri.

– Ho pensato che un uomo libero poteva essere più utile al capitano che un morto, e quando ho veduto che la battaglia era perduta, mi sono lasciato cadere fra i cadaveri.

– Ma, disgraziato, tu sei ferito!… – esclamò Ada.

– Bah!… – fe’ il pirata alzando le spalle. – La palla che mi ha colpito è solamente strisciata sul mio cranio.

– È una fortuna che tu sia vivo, – disse il Lord. – Sarai tu che andrai a Mompracem a levare le bande di Sandokan.

– Sono pronto a partire, milord. Ho udito tutto ciò che ha detto il capitano e basta che abbia un canotto qualunque per prendere subito il largo. Imbarcherò tutte le tigri di Mompracem e le condurrò dal nipote di Muda Hassin.

– Ti procurerò un canotto a vapore, – disse il Lord. – Io ne posseggo uno.

– Quando potrò partire?

– Appena saremo giunti a Sarawak. A bordo, amici miei, e ritorniamo in città.

– Andiamo, zio, – disse Ada. – Non sarò da meno di Tremal-Naik e dei suoi valorosi amici.

– Una parola, milord, – disse Kammamuri.

– Parla.

– Ritornando a Sarawak non metteremo in sospetto il rajah? Sarebbe meglio fargli credere di essere partiti per l’India.

– E’ vero, – disse Lord James, colpito da quella riflessione. – Potrebbe credere che noi tentassimo la liberazione di Sandokan e di Tremal Naik. Sei molto perspicace, Kammamuri.

– Sono maharatto – rispose l’indiano, con orgoglio.

– Milord, – disse Aïer Duk, – sapete dove si trova il nipote di Muda Hassin?

– A Sedang.

– Libero?

– Guardato a vista.

– Sedang è sul fiume omonimo, se non m’inganno.

– Sì.

– Andate ad ancorarvi alla foce di quel corso d’acqua, milord, ed io fra due settimane verrò a raggiungervi colla flottiglia di Mompracem. Intanto potrete cercare d’avvicinare il nipote di Muda Hassin e metterlo al corrente degli avvenimenti che si preparano.

– Credo che sia il progetto migliore, – disse il Lord. – In tal modo eviteremo le diffidenze del rajah. Imbarchiamoci, amici: ormai più nulla abbiamo da fare qui. -

Una scialuppa dello yacht, montata da sei marinai, li attendeva alla punta estrema dell’isolotto. Il Lord, Ada, Kammamuri ed il pirata così miracolosamente scampato alla morte, s’imbarcarono e raggiunsero la piccola nave.

Quello yacht era uno dei più belli e dei più eleganti che si fossero veduti in quei mari. Stazzava centocinquanta tonnellate tutt’al più; aveva la carena stretta, la prua tagliata ad angolo retto ma costruita a prova di scoglio ed era attrezzato a goletta, con certe rande che avevano uno sviluppo enorme per poter approfittare anche delle più deboli brezze.

Lord James, da vero gran signore, l’aveva fatto ammobiliare con ricercatezza. Le cabine ed il salotto del quadro non potevano essere più eleganti, né più comode e la cantina e la dispensa non potevano essere meglio fornite.

Lo montavano venti uomini, scelti per lo più fra i bughisi, valenti marinai che non la cedono ai malesi, che pur sono considerati come i più intrepidi lupi di mare di tutto il vasto arcipelago della Sonda.

Solamente il mastro ed il sotto capitano erano di razza diversa, poiché erano meticci anglo indiani, allievi senza dubbio della scuola marittima di Calcutta o di Bombay.

Appena il Lord mise i piedi sullo yacht, il sotto capitano, che era un bell’uomo di alta statura, colla pelle leggiermente abbronzata che tradiva l’incrocio del sangue indiano con quello europeo, gli occhi nerissimi ed assai intelligenti ed i lineamenti energici ma che avevano ancora un non so che di fierezza selvaggia, si fece innanzi dicendo:

– Devo mettere la prua verso la baia, milord?

– Sì, – rispose il vecchio capitano, – ma andiamo a Sedang e non a Sarawak.

– Sta bene, milord. Ha altri ordini da darmi?

– Assegnate due cabine a questi uomini, – continuò il Lord, indicando Kammamuri e Aïer Duk, – e fate medicare il ferito. -

Poi diede il braccio ad Ada e la condusse nel quadro di poppa, quindi in una elegantissima cabina, dicendole:

– Sei in casa tua, nipote mia.

– Grazie zio, – rispose ella. – Partiamo subito?

– Sull’istante.

– E quando giungeremo a Sedang?

– Fra tre giorni, se il vento si mantiene favorevole.

– Sono impaziente di vedere il nipote del sultano.

– Lo credo.

– Riusciremo, zio?

– Spalleggiati dai tigrottí di Mompracem, sì, nipote mia.

– Sono adunque uomini terribili costoro?

– L’hai veduto or ora come sanno battersi. Quando apprenderanno che il loro capo è prigioniero, accorreranno tutti e si faranno uccidere per salvarlo.

– Lo adorano quel valoroso uomo?

– Alla follia. lo li conosco quegli uomini, che un tempo furono miei nemici. Quando sì battono, sono più formidabili delle tigri, ed i cannoni non bastano per arrestarli.

– Ma avrà dei partigiani, il nipote di Muda Hassin?

– Sì, e molti. Brooke è temuto dai suoi soldati ma è odiato per le atrocità da luì commesse contro i pirati malesi. Perfino i nostri compatriotti hanno alzato più volte un grido d’indignazione contro di lui.

Ma è un uomo energico e si difenderà terribilmente.

È vero, ma non potrà resistere all’onda devastatrice che lo travolgerà.

– Potesse ciò avvenire presto, zio, – disse Ada, sospirando. -Povero Tremal Naik!… Vedersi ancora una volta separato da me, quando la felicità gli arrideva!… Ah… zio mio, siamo nati entrambi sotto una cattiva stella.

– Sarà l’ultima prova, Ada. Quando lo avremo liberato vi condurrò con me in India, ma lontani da Calcutta per mettervi al coperto dalle vendette dello spietato Suyodhana, od a Giava, e non ci lasceremo più.

– E verrà anche Sandokan?

– Lui!… È un uomo che non è fatto per la vita tranquilla, ma chissà… in India potrebbe forse seguirci, ma per intraprendere una tremenda lotta contro i thugs ed il loro capo. Basta: riposa tranquilla nella tua cabina, che ne hai tanto bisogno, Ada. lo risalgo sul ponte. -

Il Lord abbandonò il quadro e sali in coperta.

Lo yacht era già uscito dalla baia e veleggiava nell’ampia baia di Sarawak colla prua verso l’est.

Il mare era deserto. Il Realista e la piccola flottiglia, partiti un’ora prima, dovevano già essere giunti alla foce del fiume e forse stavano per approdare alla città, portando con loro i prigionieri.

Anche la costa, che si disegnava verso il sud, formando come un immenso arco, appariva disabitata. Si vedevano solamente delle cupe foreste che si estendevano fino al mare e più oltre giganteggiava l’alto cono di Matang.

 

Il vento, che si manteneva favorevolissimo, spingeva lo svelto yacht con una velocità di sei o sette nodi all’ora. Se quella corsa non scemava, fra due giorni, invece di tre, quel rapido veliero poteva giungere alla foce del Sedang.

Tre ore dopo, quando lo yacht si trovava quasi di fronte al Sarawak, la scialuppa a vapore che stava ormeggiata a poppa, veniva tratta sotto la scala di tribordo. La macchina era già sotto pressione e l’elica pronta a funzionare.

Aïer Duk, che era stato medicato della sua ferita, più dolorosa che pericolosa, comparve sul ponte, pronto a prendere il largo per Mompracem.

– Le vostre istruzioni, milord, – disse.

– Le conoscete: armare la flotta e venire alla foce del fiume. Quanti uomini sono rimasti a Mompracem?

– Duecento, ma valgono come mille.

– Avete prahos bastanti?

– Ve ne sono trenta armati di quaranta cannoni e di sessanta spingarde.

– Nel ritorno cercate di non farvi sorprendere dalla flotta del rajah.

– Se la incontriamo la distruggeremo, milord.

– E dareste l’allarme

– È vero. Agiremo con prudenza.

– Parti: i minuti sono preziosi. La scialuppa percorre dieci nodi all’ora ed in due giorni puoi essere a Mompracem.

– Arrivederci presto, milord. -

Aïer Duk discese nella scialuppa dove l’attendevano due fuochisti e diede il comando di prendere il largo. Un quarto d’ora dopo, la rapida imbarcazione non era che un punto nero appena visibile sull’azzurra superficie del mare.

Lo yacht aveva ripresa la corsa verso l’est, tenendosi al largo dalla foce del Sarawak per non venire scorto dai piccoli guardacoste del rajah, premendo al Lord di giungere a Sedang inosservato.

Durante la notte il rapido veliero oltrepassava la piccola baia racchiusa fra le due lunghe penisole che formano l’avamporto della città, e all’indomani poggiava verso la costa.

Alle sette di sera, essendosi il vento mantenuto fresco assai, giungeva alla foce del fiume, sulle cui rive sorge la piccola città di Sedang.

L’ancora fu calata a picco entro una piccola darsena semi-nascosta da altissimi durion e da splendide arenghe saccarifere le cui foglie piumate proìettavano sulle rive una cupa ombra.

– Si vede nessuno, zio? – chiese Ada che era salita in coperta.

– La foce è deserta, – rispose il Lord. – Sedang è una città poco frequentata.

– Quando ci recheremo dal nipote di Muda Hassin?

– Domani, ma bisogna cambiare pelle.

– Cosa volete dire?

– Degli uomini bianchi sarebbero subito notati ed il rajah non tarderebbe ad esserne informato.

– Cosa dobbiamo fare?

– Travestirci da indiani e lasciarci dipingere il viso.

– Purché possa salvare Tremal Naik ed i suoi valorosi amici, sono pronta a tutto, zio.

– A domani, Ada.

16. Il governatore di Sedang

Dodici ore dopo, una scialuppa montata da sei bughisi dell’equipaggio dello yacht, da lord Ada e Kammamuri, saliva il fiume per giungere a Sedang.

I marinai avevano indossato i loro costumi nazionali, consistenti in gonnellini variopinti e un piccolo turbante, e il lord e Ada, la cui pelle aveva assunto un bel color bronzeo, si erano avvolti in ricche vesti a tinte vivaci, strette alla cintola da larghe fasce di seta rossa, per farsi credere principi indiani in viaggio di piacere.

Solamente Kammamuri aveva conservato il suo costume maharatto, che non poteva far nascere alcun sospetto. Il fiume, angusto e dalle acque assai torbide, era quasi deserto. Solamente i tratto in tratto appariva sulle sue sponde qualcuna di quelle grandi capanne piantate sopra fitte file di pali, ad una altezza di quindici o venti piedii, di fabbricazione dayaca.

Invece vi erano grandi boscaglie di alberi gommiferi di giunta wan; piante di piper nigrum già coperte di bacche rossastre che danno un granello assai aromatico; di gluga dalla cui corteccia macerata si estrae una specie di carta; d’immensi alberi della canfora esalanti un acuto profumo e di banani, di areche e di rotang, piante sarmentose queste, che in quelle regioni tengono il luogo delle liane e raggiungono lunghezze straordinarie poiché toccano sovente i trecento metri.

In mezzo a quella ricca vegetazione si vedevano talora scimmie dal naso lungo dondolarsi sulle più alte cime degli alberi o svolazzare i calaos giganti, stravaganti volatili dai becchi enormi, grossi quanto l’intero corpo, il cui capo è sormontato da un bizzarro elmetto a forma di virgola. Apparivano pure stormi di splendidi argus, adorni di lunghissime penne, di cacatua nere, e anche qualcuno di quei pipistrelli enormi che gl’indigeni chiamano kulang, grossi come un piccolo cane, le cui ali misurano perfino un metro e trenta centimetri.

A mezzogiorno, la scialuppa, che risaliva il fiume col favore della marea, giungeva dinanzi a Sedang ancorandosi alla estremità della borgata.

Quantunque vanti il nome di città, Sedang non è che un villaggio al pari di Kutsching, la seconda cittadina per importanza del reame di Sarawak. A quell’epoca si componeva di un centinaio di capanne piantate su pali, quasi tutte abitate da dayachi-laut, ossia da dayachi costieri, di alcune casette coi tetti arcuati appartenenti a pochi cinesi, e di due edifici in legno, uno abitato dal nipote di Muda-Hassin, che veniva guardato come un prigioniero, non ignorandosi che egli aspirava alla riconquista del trono, e l’altro dal governatore, creatura devotissima al rajah, che aveva ai suoi ordini una ventina d’indiani armati.

Non essendovi a Sedang nemmeno la più modesta trattoria, il Lord acquistò una delle più belle casette cinesi situata presso il fiume, alla estremità settentrionale della cittadina; vi condusse Ada e Kammamuri, poi disse alla nipote:

– La mia missione finisce qui. Tutto quello che ho potuto fare per te, senza compromettere il mio onore di marinaio inglese e di compatriotta di James Brooke, io l’ho fatto. Alla guerra che tu e i pirati state per scatenare io non posso partecipare, quantunque lo Stato di Sarawak sia assolutamente indipendente, non abbia legami con l’Inghilterra e io abbia avuto a dolermi ultimamente della eccessiva rigorosità di Brooke nei riguardi di Tremal-Naik. Io rimango tuo zio e tuo protettore, ma come inglese devo serbarmi neutrale.

– Dunque voi ci lasciate già? – disse Ada con dolore.

– È necessario. Ritorno al mio yacht, ma non lascerò la foce del fiume prima che siano aperte le ostilità, per potere eventualmente proteggerti. Tu non hai dimenticato di essere una donna abbastanza energica per agire anche da sola.

– Oh sì, zio!… Sono decisa a tutto.

– Ti lascio quattro dei miei marinai con l’incarico di difenderti e di aiutarti. Ti obbediranno come a me stesso, e sono uomini d’un provato coraggio e d’una fedeltà sicura. Addio! Qualunque pericolo ti minacciasse, manda a me uno dei miei marinai. Il mio yacht è armato e ad ogni tua richiesta salirà prontamente il fiume.

Si abbracciarono a lungo, poi il lord tornò ad imbarcarsi e ridiscese il fiume. La giovinetta era rimasta sulla riva e lo guardava allontanarsi: non si accorse che una guardia del rajah si era avvicinata, osservandola con viva curiosità, non esente da una certa diffidenza.

Se ne avvide soltanto quando l’uomo fu al suo fianco.

– Chi siete voi? – chiese la guardia.

La giovinetta gettò su quell’indiano uno sguardo acuto ed altero.

– Cosa vuoi tu? – gli chiese.

– Sapere chi siete – rispose l’indiano.

– Ciò non ti riguarda.

– È l’ordine, poiché voi siete una straniera.

– L’ordine di chi?

– Del governatore.

– Non lo conosco.

– Ma egli deve sapere chi sbarca a Sedang.

– E il motivo?…

– Qui vi è il nipote di Muda-Hassin.

– Non so chi sia.

– Il nipote del sultano che prima regnava in Sarawak.

– Non conosco sultani.

– Non importa: io devo sapere chi siete.

– Sono una principessa indiana.

– Di quale regione?…

– Della grande tribù dei maharatti – disse Kammamuri che si era silenziosamente avvicinato a loro.

– Una principessa maharatta!… – esclamò l’indiano, trasalendo.– Ma anch’io sono maharatto.

– No, tu sei un rinnegato – disse Kammamuri. – Se tu fossi un vero maharatto saresti libero come me, e non schiavo o servo d’un uomo che appartiene alla razza dei nostri oppressori, d’un inglese.

Il soldato del rajah ebbe negli occhi un lampo d’ira, che subito si spense, e chinò il capo, mormorando:

– È vero.

– Vattene – disse Kammamuri. – I liberi maharatti disprezzano i traditori.

L’indiano trasalì, poi, alzando gli occhi velati di lacrime, disse con voce triste:

– No, non ho dimenticato la mia patria, non ho dimenticato la mia tribù, non si è spento nel mio cuore l’odio verso gli oppressori dell’India: sono ancora maharatto.

– Tu!… – disse Kammamuri, con maggior disprezzo. – Dammene una prova!…

– Comanda.

– Ecco la mia padrona, principessa d’una delle nostre più valorose tribù. Giurale obbedienza come le giurarono tutti i liberi figli delle nostre montagne, se osi!…

L’indiano girò intorno un rapido sguardo per accertarsi di non essere osservato, poi cadde ai piedi di Ada con la fronte nella polvere, dicendo:

– Comanda: per Sivah, Visnù e Brahma, divinità protettrici dell’India, io giuro di obbedirti.

– Ora ti riconosco per un compatriota – disse Kammamuri. – Seguici!…

Entrarono nell’abitazione cinese guardata dai quattro marinai dello yacht, i quali tenevano alla cintura delle rivoltelle per proteggere la nipote del padrone contro qualunque attentato, e s’arrestarono in una stanzuccia con le pareti coperte di carta fiorita di Tung: leggerissime sedie di bambù e alcuni tavoli ingombri di teiere e di chicchere di porcellana color del cielo dopo la pioggia, la tinta favorita dai figli del Celeste Impero, ammobiliavano la camera.

– Comanda – ripeté l’indiano prostrandosi nuovamente dinanzi ad Ada.

Allora la giovinetta, fissando su di lui un lungo sguardo, come se volesse leggergli nell’animo, gli disse:

– Sai che io odio il rajah?

– Tu!… – esclamò l’indiano, rialzando il capo e guardandola con stupore.

– Sì – disse la giovinetta con energia.

– Hai forse da lagnarti di lui?

– No, ma lo odio perché è inglese, lo odio perché io sono maharatta e lui appartiene alla stirpe degli oppressori dell’India, e perché un giorno appartenne a quella compagnia che distrusse l’indipendenza dei nostri rajah. Noi popoli liberi abbiamo giurato odio eterno agli uomini della lontana Europa.

– Ma tu adunque sei potente? – chiese l’indiano con maggior stupore.

– Ho uomini valorosi, ho navi e cannoni.

– E vieni a portare la guerra qui?

– Sì, perché qui trovo un oppressore della nostra patria che ora cerca di opprimere altri uomini di colore al pari di noi.

– Ma chi ti aiuterà nell’impresa?…

– Chi?… Il nipote di Muda-Hassin.

– Lui!…

– Lui.

– Ma se è prigioniero!

– Noi lo libereremo.

– E lo sa lui che tu ti prepari a lottare in suo favore?…

– No, ma lo vedrò.

– Ti ho detto che è prigioniero.

– Deluderemo la vigilanza delle guardie.

– In che modo?…

– Lo troverai tu il modo.

– Io!…

– Ecco la prova che attendo da te, se sei veramente un maharatto.

– Ho giurato di obbedirti e Bangawadi non mancherà alla parola data – disse l’indiano con voce solenne.

– Sentiamo – disse Kammamuri che fino allora era rimasto silenzioso. – Quante guardie vegliano su Hassin?

– Quattro.

– Giorno e notte?

– Sempre.

– Senza mai lasciarlo?

– Non lo abbandonano mai.

– Vi è qualche maharatto fra quegli indiani?

– No, sono tutti del Guzerate.

– Fedeli al governatore?…

– Incorruttibili.

Il maharatto fece un gesto di stizza e parve immergersi in profondi pensieri. Poi frugò nell’ampia cintura che gli stringeva i fianchi e ne trasse un diamante grosso come una nocciuola.

– Recati dal governatore – disse rivolgendosi all’indiano, – e gli dirai che la principessa Raibh gli offre questo regalo e lo prega di accordarle una visita.

– Ma che cosa intendi fare, Kammamuri? – chiese Ada.

– Ve lo dirò, poi, padrona. Va’, Bangawadi: contiamo sul tuo giuramento.

L’indiano prese il diamante, si prostrò un’ultima volta dinanzi alla giovinetta e uscì a rapidi passi.

Kammamuri lo seguì con lo sguardo fino a che poté, poi, volgendosi verso Ada, le disse:

 

– Spero, padrona, che riusciremo.

– A fare che cosa?

– A rapire Muda-Hassin.

– Ma in che modo?…

Kammamuri, invece di rispondere, levò dalla cintura una scatoletta e mostrò alcune pillole piccolissime, che esalavano uno strano odore.

– Me le ha date il signor Yanez – disse – e so per esperienza quanto siano potenti. Basta lasciarne cadere una in un bicchiere di acqua o di vino o di caffè per addormentare istantaneamente la persona più robusta.

– E a che cosa possono servire? – chiese la giovanetta con maggior sorpresa.

– Per addormentare il governatore e le guardie che vegliano nella casa di Hassin.

– Non riesco a comprenderti.

– Col regalo che gli abbiamo mandato, il governatore c’inviterà a pranzo, o lo inviteremo noi. M’incarico io di fargli bere il narcotico, e quando lo vedremo addormentato andremo da Hassin, e là ripeteremo il giuoco con le guardie.

– Ma ci lasceranno entrare dal prigioniero, quegli indiani?…

– Penserà Bangawadi ad aprirci il passo, fingendo d’aver ricevuto l’ordine del governatore di farci visitare Hassin.

– Ma dove condurremo il prigioniero?…

– Dove vorrà lui, dove avrà i suoi partigiani. M’incarico io di far comprare dei cavalli dai nostri uomini.

Stava per uscire quando vide ritornare Bangawadi. L’indiano pareva contento perché aveva il sorriso sulle labbra.

– Il governatore vi attende – diss’egli, entrando.

– Ha gradito il dono?… – chiese Kammamuri.

– Non l’ho mai veduto così di buon umore come oggi.

– Andiamo, padrona – disse il maharatto.

Uscirono preceduti dalla guardia e seguiti dai quattro marinai dello yacht che avevano ricevuto dal lord l’ordine di non lasciare Ada un solo istante. Pochi minuti dopo giungevano alla sede del governatore di Sedang.

Quel fabbricato, chiamato pomposamente palazzo dagli abitanti, era una modesta casa di legno, a due piani, col tetto coperto di tegole azzurre come le abitazioni del quartiere cinese di Sarawak, cinta da una palizzata e difesa da due pezzi di cannone arrugginiti, tenuti là per spauracchio, poiché non avrebbero potuto sparare due colpi di seguito senza scoppiare. Una dozzina d’indiani, vestiti come i sipai del Bengala, con la giacca rossa, i calzoni bianchi, il turbante in capo, ma i piedi nudi, stavano schierati dinanzi alla cinta e presentarono le armi alla principessa dei maharatti. Il governatore attendeva la giovanetta ai piedi della scala, segno evidente che quel regalo di grande valore aveva fatto il suo effetto.

Sir Hunton, comandante di Sedang, era un anglo-indiano che aveva preso parte alla sanguinosa crociera del Realista contro i pirati del Borneo in qualità di mastro d’equipaggio.

Aveva quarant’anni, ma ne dimostrava di più perché il clima non era troppo propizio per gli stranieri. Era alto come tutti gli indiani, ma tarchiato; aveva la pelle leggermente abbronzata con sfumature dorate, gli occhi nerissimi, la barba più folta dei puri indostani e già brizzolata.

Poiché aveva dato prove di grande coraggio e di fedeltà era stato destinato al comando di Sedang coll’incarico di esercitare un’attiva vigilanza sul nipote di Muda-Hassin. James Brooke non ignorava di avere un potente e pericoloso rivale nel discendente del defunto sultano.

Sir Hunton, vedendo la principessa indiana, le mosse incontro tendendole la mano: si scoprì il capo, poi le offerse galantemente il braccio e la condusse in un salottino arredato con eleganti mobili europei.

– A quale evento fortunato devo l’onore della vostra visita, Altezza? – chiese egli, sedendosi di fronte alla giovanetta. È un caso raro veder giungere in questa sperduta cittadina alle frontiere del reame una persona distinta come voi.

– Compio un viaggio di piacere nelle isole della Sonda, sir, e ho voluto visitare anche Sedang, avendo solamente qui la possibilità di vedere quei formidabili tagliatori di teste che chiamasi dayachi.

– Siete venuta qui per pura curiosità? Credevo che lo scopo fosse un altro.

– E quale?…

– Per vedere il nipote di Muda-Hassin.

– Non so chi sia.

– Un rivale del rajah Brooke, che passa il suo tempo sognando continue cospirazioni.

– Un uomo interessante, dunque?

– Può essere.

– Col vostro permesso non mancherò di visitarlo.

– A qualunque altra persona non lo permetterei, ma a voi, Altezza, che venite dall’India e perciò non potete avere alcun interesse se non una certa curiosità, non negherò questo favore.

– Grazie, sir.

– Vi tratterrete molto qui?…

– Alcuni giorni, finché il mio yacht avrà riparato alcuni guasti.

– Siete giunta con uno yacht?…

– Sì, sir.

– E andrete poi a Sarawak?

– Certamente; voglio vedere il famoso sterminatore dei pirati. Io sono una delle sue più ardenti ammiratrici.

– È un valent’uomo il rajah!

– Lo credo.

– Ritornate allo yacht questa sera?…

– No, ho preso a pigione una piccola casa.

– Allora spero che mi farete l’onore di accettare l’ospitalità della mia abitazione.

– Ah!… Signore!…

– È la migliore di Sadang.

– Grazie, sir, ma amo meglio essere libera.

– Allora spero che vii tratterrete oggi presso di me.

– Non potrei rifiutare una simile cortesia.

– Farò il possibile perché non abbiate ad annoiarvi, Altezza.

– Intanto mi farete vedere il vostro regale prigioniero – disse Ada, ridendo.

– Dopo il pranzo, Altezza, andremo a bere il tè da Hassin.

– È un uomo gentile od un selvaggio?…

– Un uomo astuto ed educato che ci farà buona accoglienza.

– Conto su di voi, signore. Questa sera sarò vostra commensale.

Si era alzata ad un cenno di Kammamuri, il quale l’aveva seguita tenendosi in un angolo del salotto. Il governatore la imitò e la condusse fino alla porta, dove il drappello indiano le rese gli onori spettanti al suo grado di principessa indostana.

Ritornata alla propria abitazione, seguita sempre da Kammamuri e dai quattro indiani dello yacht, ritrovò l’indiano Bangawadi che l’attendeva sulla porta dimostrando una certa impazienza.

– Ancora tu? – chiese la giovanetta.

– Sì, padrona – rispose.

– Hai delle novità?…

– Ho parlato con Hassin.

– Quando?

– Pochi minuti or sono.

– E che cosa gli hai detto?…

– Che alcune persone s’interessano della sua sorte e cercano di farlo evadere.

– E che cosa ti ha risposto?

– Che è pronto a tutto.

– Sei un brav’uomo, Bangawadi.

– E lo sarai di più se tu tornerai da lui – aggiunse Kammamuri.

– Sono a vostra disposizione.

– Va’ allora, e gli dirai che questa sera la principessa Raibh andrà a visitarlo in compagnia del governatore, e che cerchi di essere solo, almeno nelle sue stanze. Dirai inoltre a lui che lasci a me la cura di preparare il thè per il governatore. -

Poi, levandosi dalla cintola un piccolo diamante, glielo porse aggiungendo:

– Questo è per te, e pagherai da bere alle sentinelle che vegliano sulla casa di Hassin. Questa sera poi offrirò io!…