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I Pirati della Malesia

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12. La resurrezione di Tremal-Naik

Il drappello sbucava dal folto del bosco. Era composto da Sambigliong, da un ufficiale della guardia del rajah, da dieci indiani disarmati e da Yanez che non aveva né le mani né le gambe legate.

Sandokan, nello scorgere l’amico, non fu capace di vincersi. Gli corse incontro e, allontanando violentemente gli indiani, se lo strinse al petto con frenesia. Eppure quell’uomo era la Tigre della Malesia, era il feroce capo dei pirati di Mompracem che da tanti anni insanguinavano i flutti del mare malese.

– Yanez!… Fratello mio! – esclamò con voce soffocata dalla gioia.

– Sandokan, amico mio, finalmente ti rivedo!.. – gridò il buon portoghese, che non era meno commosso. – Temevo di non abbracciarti mai più!

– Non ci lasceremo più, Yanez, te lo giuro.

– Lo credo, fratellino. Che bella idea hai avuto facendo prigioniero il rajah. L’ho sempre detto che tu sei un grand’uomo. E Tremal-Naik? Dov’è quel povero indiano?

– A pochi passi da noi.

– Vivo?

– Vivo, ma ancora addormentato.

– E la fidanzata?

– È ancora pazza, ma tornerà in sé.

– Signore – disse in quell’istante una voce.

Sandokan e Yanez si volsero. James Brooke stava loro dinanzi, calmo, ma un po’ pallido, con le braccia incrociate sul petto.

– Siete libero, James Brooke – disse Sandokan. – La Tigre della Malesia mantiene la sua parola.

Il rajah fece un leggero inchino e si allontanò di alcuni passi, poi tornando bruscamente indietro:

– Tigre della Malesia – disse, – quando ci rivedremo?

– Volete una rivincita? – chiese Sandokan con ironia.

– James Brooke non perdona.

Sandokan lo guardò per alcuni istanti in silenzio, quasi fosse sorpreso che quell’uomo osasse sfidarlo, poi, stendendo il braccio destro verso il mare, disse con un accento che faceva fremere:

– Laggiù c’è un’isola: Mompracem. Il mare che la circonda è ancora rosso di sangue e ingombro di navi colate a picco. Quando vi avvicinerete a quelle coste udrete il ruggito della Tigre e i suoi tigrotti vi muoveranno incontro. Ma non scordatevi, James Brooke, che la Tigre e i suoi tigrotti hanno sete di sangue.

– Verrò a trovarvi.

– Quando?

– L’anno venturo.

Un sorriso sfiorò le labbra del pirata.

– Sarà troppo tardi – disse.

– Perché? – chiese il rajah sorpreso.

– Perché allora non sarete più rajah di Sarawak. Allora la rivoluzione sarà scoppiata nel vostro Stato e il nipote del Sultano Muda-Hassin siederà al vostro posto.

Il rajah, nell’udire quelle parole, impallidì e fece un passo indietro.

– Perché inventate queste cose? – chiese con un tono di voce tutt’altro che calmo.

– Non invento nulla, milord – rispose Sandokan.

– Voi sapete qualche cosa, dunque?

– È probabile.

– Se vi pregassi di spiegarvi, mi…

– Non mi spiego di più – interruppe Sandokan.

– Non mi resta che ringraziarvi dell’avvertimento.

Fece nuovamente un leggero inchino, raggiunse le sue guardie e si allontanò a rapidi passi, dirigendosi verso Sarawak.

Sandokan con le braccia incrociate, cupo in volto, lo seguiva con lo sguardo. Quando non lo vide più, un sospiro gli uscì dal petto.

– Quell’uomo mi porterà sventura – mormorò. – Lo sento.

– Che cos’hai, Sandokan? – gli chiese Yanez avvicinandosi. – Mi sembri inquieto.

– Ho un triste presentimento, fratello – disse il pirata.

– Quale?

– Fra noi e il rajah non è tutto finito.

– Temi che ci assalga?

– Il cuore me lo dice.

– Non credere ai presentimenti, fratello mio. Fra due o tre giorni noi avremo abbandonato queste coste e più nulla avremo da temere da parte del rajah. Dove andiamo ora?

– Alla baia e subito. Qui non mi sento sicuro.

– Partiamo dunque. Ma… e Tremal-Naik!

– Prima di mezzogiorno non si sveglierà.

Sandokan diede il segnale della partenza e il drappello, coi feriti e con Tremal-Naik, malgrado la rapidissima marcia del mattino, si rimise in cammino seguendo un piccolo sentieruzzo aperto, chi sa quanti anni prima, dagli abitanti della foresta.

Sandokan e Yanez con dieci dei più coraggiosi tigrotti aprivano la marcia con le carabine in mano: dietro venivano le barelle e poi tutti gli altri, due a due, con gli occhi volti ai due lati del sentiero e gli orecchi tesi per raccogliere il più piccolo rumore.

Avevano percorso mezzo miglio circa, quando Aïer-Duk, che si era spinto alcuni passi più innanzi per esplorare la via, improvvisamente si arrestava armando il fucile. Yanez e Sandokan s’affrettarono a raggiungerlo.

– Non muovetevi – disse il dayaco.

– Che cos’hai visto? – chiese Sandokan.

– Un’ombra attraversare rapidamente quelle macchie.

– Un uomo o un animale?

– Mi è parso un uomo.

– Può essere un povero dayaco – disse Yanez.

– E anche una spia del rajah – disse Sandokan.

– Lo credi?

– Ne sono quasi certo. Aïer-Duk, prendi quattro uomini e batti il bosco. Noi intanto andremo avanti.

Il dayaco chiamò quattro compagni e si cacciò nella fitta boscaglia, strisciando fra le radici, i rami d’albero ed i cespugli.

Poi la marcia fu ripresa attraverso filari di sontar, specie di palme che danno, incidendo il loro tronco, un succo zuccherino assai gradevole, e delle cui foglie anticamente si servivano i popoli della Malesia per scrivervi sopra.

Poco dopo il drappello veniva raggiunto da Aïer-Duk e dai suoi compagni. Avevano perlustrato la foresta in tutti i sensi, ma non avevano trovato nulla fuorché tracce recenti di piedi umani.

– Erano numerose? – chiese Sandokan che era ancora assai inquieto.

– Quattro – rispose il dayaco.

– Erano impronte di piedi nudi o calzati?

– Di piedi nudi.

– Forse quei due uomini erano dayachi. Affrettiamoci, tigrotti, qui non siamo troppo sicuri.

Per la terza volta il drappello si rimise in cammino sorvegliando attentamente gli alberi ed i cespugli e, dopo tre quarti d’ora, giungeva sulle rive di un ampio corso d’acqua che sfociava in una vasta baia semi-circolare.

Sandokan mostrò al portoghese un isolotto, alla distanza di trecentocinquanta metri circa, ombreggiato da bellissimi gruppi di alberi sagù, di durion, di mangostani e di arenghe saccarifere e difeso, verso la punta meridionale, da un vecchio ma ancor solido fortino dayaco, costruito con panconi e pali di teck, legno duro quanto il ferro, che resiste alle palle di un cannone di non piccolo calibro.

– È là che riposa la vergine della pagoda? – chiese Yanez.

– Sì, Ada è in quel fortino – rispose Sandokan.

– Non potevi trovarle un posto migliore. La baia è bella e l’isolotto ben difeso. Se James Brooke verrà ad assalirci, avrà un osso duro da rodere.

– Il mare è a cinquecento passi dall’isolotto, Yanez – disse Sandokan, – e una nave può bombardare il fortino.

– Ci difenderemo.

– Non abbiamo cannoni.

– Ma i nostri uomini sono coraggiosi.

– È vero, ma sono pochi e…

– Che cos’hai?

– Zitto!… Hai udito?…

– Io?… Nulla, Sandokan.

– Mi parVE che un ramo si sia spezzato.

– Dove?

– In mezzo a quel macchione.

– Che ci siano proprio delle spie?… Comincio ad essere inquieto, Sandokan.

– ED anch’io. Affrettiamoci: sospiro il momento di giungere all’isolotto. Aïer-Duk!…

Il dayaco s’avvicinò alla Tigre.

– Prendi otto uomini e accampati in questo luogo – disse Sandokan. – Se vedi degli uomini ronzare in questi dintorni verrai ad avvertirmi.

– Contate su di me, capitano, – rispose il dayaco. – Nessuno s’avvicinerà alla baia senza il mio permesso.

Sandokan, Yanez e gli altri scesero verso la baia, le cui sponde erano coperte da fitte boscaglie, e giunsero ad una piccola cala presso la quale stava nascosta, sotto un ammasso di canne e di rami d’alloro, una scialuppa.

La Tigre girò all’intorno un rapido sguardo, ma non vide alcuno. Una viva inquietudine si dipinse sul suo volto.

– Uno dei miei due uomini dovrebbe guardare la scialuppa, -disse.

– Saranno tutti e due al fortino – disse Yanez.

– E hanno lasciato qui la scialuppa!… Yanez… ho il cuore che mi batte forte… temo una disgrazia.

– Quale?

– Che abbiano rapito Ada.

– Sarebbe un colpo terribile!

– Taci!

– Ancora un rumore?…

– Sì, capitano Yanez – confermarono i pirati impugnando le armi. Si vedevano i rami di un macchione di cespugli agitarsi a cento passi dalla spiaggia.

– Chi vive? – gridò Sandokan.

– Mompracem – rispose una voce.

Poco dopo un pirata usciva dai cespugli. Era ansante e sudato, come se avesse fatto una lunga corsa, e stringeva un fucile.

– Viva la Tigre! – esclamò scorgendo il capo.

– Da dove vieni? – chiese Sandokan.

– Dalla foresta, capitano.

– Dov’è la Vergine?

– Nel fortino.

– Sei certo?…

– L’ho lasciata due ore or sono sotto la guardia di Koty. Sandokan respirò liberamente.

– Cominciavo a temere – disse. – Come sta?

– Benissimo.

– Che cosa faceva?

– Quando la lasciai dormiva.

– Hai veduto qualcuno nei boschi?

– Io no, ma Koty stamane ha visto un uomo passare lungo la sponda e guardare con viva curiosità il fortino. Vedendosi osservato si affrettò a scomparire.

– E l’hai veduto quell’uomo?

– L’ho cercato, ma non sono riuscito a scoprirlo.

– Che sia una spia del rajah? – chiese Yanez.

– È probabile – rispose Sandokan che pareva preoccupato.

– Che vengano ad assalirci qui?…

– Chi può dirlo?

– Che cosa conti di fare?…

– Lasciare questo posto al più presto. Imbarchiamoci.

I due capi e i loro uomini salirono nella scialuppa, attraversarono il braccio di mare che era largo due o trecento metri e sbarcarono ai piedi della fortezza ove li attendeva Koty.

 

– Dorme ancora la vergine? – gli chiese Sandokan.

– Sì, capitano.

– È accaduto nulla di straordinario?

– No.

– Andiamo a vederla – disse Yanez.

Sandokan gli additò Tremal-Naik che era stato deposto su di uno strato di erbe e di foglie verdi.

– Mancano pochi minuti a mezzodì – disse. – Aspetta che si svegli.

Ordinò ai suoi uomini di entrare nel fortino e si sedette accanto all’indiano che non dava ancora segno di vita. Yanez si accese una sigaretta e si sdraiò vicino a lui.

– Ci vorrà molto, prima che apra gli occhi? – chiese dopo alcune fumate a Sandokan che guardava attentamente il viso dell’indiano.

– No, Yanez. Vedo che la sua pelle a poco a poco riacquista il colore naturale. È segno che il suo sangue ricomincia a circolare.

– Gli farai subito vedere la sua Ada?

– Subito no, ma prima di questa sera sì.

– E se non lo riconoscesse? Se ella non riacquistasse la ragione?

– La riacquisterà.

– Io dubito, fratello mio.

– Ebbene, tenteremo una prova.

– E quale?

– A suo tempo te lo dirò.

– E perché?…

– Taci!…

Un debole respiro aveva improvvisamente sollevato l’ampio petto di Tremal-Naik e aveva mosso leggermente le sue labbra.

– Si sveglia, – mormorò Yanez.

Sandokan si curvò sull’indiano e gli posò una mano sulla fronte.

– Si sveglia – disse.

– Subito?

– Subito.

– Senza fargli alcuna puntura?

– Non ce n’è bisogno, Yanez.

Un secondo respiro, più forte del primo, sollevò nuovamente il petto di Tremal-Naik e le sue labbra tornarono a muoversi. Poi le sue mani, che erano aperte, lentamente si chiusero, le sue gambe pure lentamente si piegarono e infine i suoi occhi si aprirono dilatandosi assai e si arrestarono su Sandokan.

Rimase così alcuni istanti, come se fosse sorpreso di trovarsi tuttora in vita, poi, con uno sforzo violento, si alzò a sedere esclamando:

– Vivo!… Ancora vivo!

– E libero – disse Yanez.

L’indiano guardò il portoghese. Lo riconobbe subito.

– Voi!… Voi!… – esclamò. – Ma che cosa è successo? Come mi trovo qui? Ho dormito io?

– Per Bacco! – esclamò Yanez ridendo. – Non vi ricordate di quella pillola che vi diedi nel fortino?

– Ah!… Sì, sì… ora ricordo… voi eravate venuto a trovarmi… Signore, signore, quanto vi ringrazio di avermi liberato!…

Così dicendo Tremal-Naik si era precipitato ai piedi di Yanez. Questi lo rialzò e lo strinse affettuosamente al petto.

– Come siete buono, signore! – esclamò l’indiano che pareva avesse subito ricuperato le sue forze, e che era fuori di sé dalla gioia. – Libero! Sono libero!… Vi ringrazio, signore, vi ringrazio!…

– Ringraziate quest’uomo, Tremal-Naik – disse Yanez additandogli Sandokan che, con le braccia incrociate sul petto, guardava con occhio commosso l’indiano. – È a quest’uomo, alla Tigre della Malesia, che voi dovete la vostra libertà.

Tremal-Naik si precipitò verso Sandokan che lo accolse fra le sue braccia dicendo:

– Sei mio amico!

In quell’istante un urlo di gioia risuonò alle loro spalle. Kammamuri, che era allora uscito dal forte, correva loro incontro urlando:

– Padrone! mio buon padrone!…

Tremal-Naik si slanciò verso il fedele maharatto che pareva fosse diventato pazzo.

I due indiani si abbracciarono a più riprese, senz’essere capaci di scambiarsi una sola parola.

– Kammamuri, mio buon Kammamuri! – esclamò finalmente Tremal-Naik. – Credevo di non rivederti mai più su questa terra. Ma come sei qui? Non ti hanno ucciso i thugs, dunque?

– No, padrone, no. Io sono fuggito per cercare te.

– Per cercare me! Ma sapevi che ero in questo luogo?

– Sì, padrone, l’avevo saputo. Ah! padrone! quanto ti ho pianto dopo quella notte fatale. Io ti stringo fra le braccia, ti sento, eppure stento a credere che tu sia ancora vivo e libero. Non ci lasceremo più, è vero?

– No, Kammamuri, mai più.

– Vivremo assieme al signor Yanez e alla Tigre della Malesia. Quali nobili uomini, padrone! Se tu sapessi quanto hanno fatto per te, se tu sapessi quante lotte…

– Alto là, Kammamuri – disse Yanez. – Altri uomini avrebbero fatto quello che abbiamo fatto noi.

– Non è vero, padrone. Nessun uomo potrà mai fare ciò che hanno fatto la Tigre della Malesia e il signor Yanez.

– Ma perché interessarsi tanto di me? – chiese Tremal-Naik. – Eppure non vi ho mai veduti, signori.

– Perché foste un giorno il fidanzato di Ada Corishant – disse Sandokan, e mia moglie era cugina di Ada Corishant.

A quel nome l’indiano aveva fatto un passo indietro, barcollando come se avesse ricevuto una pugnalata in mezzo al petto. Poi si coprì con le mani il viso, mormorando con voce straziante:

– Ada!… o mia adorata Ada!…

Un singhiozzo sollevò il suo petto e due lacrime, forse le prime che stillavano da quegli occhi, gli rotolarono più per le gote abbronzate. Sandokan gli si avvicinò e, abbassandogli le mani, disse con dolcezza:

– Perché piangete, mio povero Tremal-Naik? Questo è un giorno di gioia.

– Ah, signore!… – mormorò l’indiano. – Se voi sapeste quanto ho amato quella donna!… Ada!… oh mia Ada!…

Un secondo singhiozzo lacerò il petto dell’indiano e nuove lacrime gli spuntarono sulle ciglia.

– Calmatevi, Tremal-Naik – disse Sandokan. – La vostra Ada non è perduta.

L’indiano risollevò il capo che teneva curvo sul petto. Un lampo di speranza balenava nei suoi occhi neri.

– Ella è salva?

– Salva!… – disse Sandokan. – Ed è qui, in quest’isolotto.

Un urlo inumano irruppe dalle labbra di Tremal-Naik.

– Ella è qui… qui!… – gridò gettando all’intorno sguardi smarriti.

– Dov’è?… Io voglio vederla, io voglio vederla!… Ada!… Ada!… Oh mia adorata Ada!…

Fece l’atto di slanciarsi verso il fortino, ma Sandokan lo afferrò per i polsi e con tale forza da fargli crocchiare i polsi.

– Calmatevi – gli disse. – Ella è pazza.

– Pazza!… la mia Ada pazza!… – gridò l’indiano. – Ah!… Ma io voglio vederla, signore, io voglio vederla fosse pure per un solo momento.

– La vedrete, ve lo prometto.

– Quando?

– Fra pochi minuti.

– Grazie, signore! grazie!

– Sambigliong! – gridò Yanez.

Il dayaco, che ronzava attorno al fortino esaminando attentamente le palizzate per assicurarsi se erano abbastanza solide per sostenere un assalto, alla chiamata del portoghese accorse.

– Dorme la vergine della pagoda? – chiese Sandokan.

– No, capitano – rispose il pirata. – È uscita alcuni minuti fa coi suoi guardiani.

– Dove si è diretta?

– Verso la costa.

– Venite, Tremal-Naik – disse Sandokan prendendogli una mano. Ma vi raccomando di essere calmo: ricordate che è pazza.

13. Le due prove

Erano le due del pomeriggio. Uno splendido sole fiammeggiava nel cielo facendo scintillare le acque azzurrognole della baia, e un fresco, leggero venticello spirava dal mare sussurrando misteriosamente fra le foglie degli alberi. Non si udiva né sull’isolotto né nella baia alcun rumore all’infuori del monotono gorgoglio dell’onda che si rompeva contro le coste e lo svolazzare incessante e il cicaleccio delle cacatua nere e degli argus giganteus, splendidi uccelli della famiglia dei fagiani.

Tremal-Naik, in preda ad una vivissima eccitazione, Sandokan, Yanez e Kammamuri camminavano a rapidi passi verso la punta settentrionale dell’isolotto, nascosta da una fitta cortina di alberi gommiferi e di piante rampicanti.

A quaranta passi dalla costa, uno dei guardiani della pazza, che stava sdraiato dietro un cespuglio, si alzò.

– La mia Ada? – chiese Tremal-Naik, precipitandosi incontro a lui.

– È sulla sponda – rispose il pirata.

– Che cosa fa? – chiese Sandokan.

– Guarda il mare.

– Dov’è l’altro tuo compagno?

– A pochi passi da qui.

– Ritiratevi tutti e due nel fortino.

Tremal-Naik, Sandokan, Yanez e il maharatto attraversarono rapidamente la fitta cortina d’alberi e si arrestarono sul margine della boscaglia. Un grido soffocato uscì dalle labbra dell’indiano.

– Ada!… – esclamò.

Spiccò un salto per slanciarsi verso la spiaggia, ma Sandokan fu pronto ad afferrarlo per i polsi.

– Calmatevi – gli disse. – Non dimenticate che quella donna è pazza.

– Sarò calmo.

– Lo promettete?

– Ve lo prometto.

– Andate dunque. Noi vi aspetteremo qui.

– Sandokan, Yanez e Kammamuri si sedettero sul tronco di un albero rovesciato e Tremal-Naik, in apparenza calmo, ma in realtà profondamente commosso, si diresse verso la spiaggia.

Là, a pochi passi dal mare, seduta all’ombra di un bellissimo albero di garofani, i cui fiori spandevano un inebbriante profumo, stava la vergine della pagoda con le mani incrociate sulla splendida corazza d’oro che scintillava per i riflessi dei numerosi diamanti, i neri capelli sciolti sulle spalle e gli occhi fissi sull’azzurra distesa d’acqua che si apriva dinanzi a lei: le onde venivano ad infrangersi con dolce mormorio ai suoi piedi. La si sarebbe presa per una statua messa lì per abbellire la spiaggia.

Non parlava, non si muoveva: sembrava la statua superba di una divinità misteriosa.

Tremal-Naik, col viso alterato, gli occhi fiammeggianti, ansante, s’avvicinava alla fidanzata con passo rapido e silenzioso. Si arrestò a due passi dalla giovinetta che pareva non l’avesse udito.

– Ada!… Ada!… – esclamò d’un tratto l’indiano con voce soffocata.

La pazza non si mosse. Forse non lo aveva ancora udito.

– Ada!… Oh mia diletta Ada!… – ripeté Tremal-Naik precipitandosi alle ginocchia di lei.

La vergine della pagoda, alla vista di quell’uomo che le tendeva le mani con gesto supplicante, s’alzò di scatto. Ella guardò fisso l’indiano, poi fece due passi indietro mormorando:

– I thugs!…

La pazza non aveva riconosciuto il fidanzato di un tempo

– Ada!… mia diletta Ada! – gridò Tremal-Naik in preda ad una terribile disperazione. – Non mi riconosci più, dunque?

– I thugs!… – ripeté ella, ma senza manifestare terrore.

Tremal-Naik mandò un grido di dolore e di rabbia.

– Ma non mi riconosci più, Ada? – esclamò l’infelice cacciandosi le unghie nelle carni. – Non ti ricordi più del disgraziato Tremal-Naik, del cacciatore di tigri della jungla nera? Ritorna in te, Ada, ritorna in te. Non ricordi più i nostri incontri nella jungla? Non ricordi più la notte che io ti vidi nella pagoda sacra? Non ti ricordi più di quella notte fatale in cui i thugs ci fecero prigionieri?

Ada, o mia Ada, riconosci il tuo Tremal-Naik, riconoscilo!…

La pazza lo aveva ascoltato senza batter ciglio, senza fare il minimo gesto. Evidentemente non ricordava più nulla. La pazzia aveva tutto spento nel cuore della povera donna.

– Ada – riprese Tremal-Naik che non frenava le lacrime, guardami fisso, guardami, o mia Ada. Non è possibile che tu non riconosca il tuo Tremal-Naik.. Ma perché taci? Perché non guardi? Perché non ti getti fra le mie braccia? È forse perché hanno ucciso tuo padre?… Sì, ucciso… ucciso…

Il disgraziato indiano a quel terribile ricordo scoppiò in singhiozzi, nascondendo il viso fra le mani.

D’improvviso la pazza, che aveva assistito impassibile alla disperazione di quell’uomo che un tempo ella aveva adorato, fece un passo innanzi, curvandosi verso terra. Il suo viso aveva subito un rapido cambiamento: era diventata più pallida e un lampo balenava nei suoi occhioni neri.

– Dei singhiozzi – mormorò. – Perché qui si piange?

Tremal-Naik, udendo quelle parole, aveva rialzato il capo.

– Ada!… – gridò tendendo le braccia verso di lei. – Mi riconosci?

La pazza lo guardò per alcuni istanti in silenzio, aggrottando a più riprese le ciglia. Pareva che cercasse di rammentarsi dove aveva visto il viso dell’indiano e udita la voce di lui.

– Dei singhiozzi – ripeté. – Perché si piange qui?

– Perché tu non mi conosci più, Ada – disse Tremal-Naik. Guardami in viso, guardami.

Ella si curvò verso di lui, poi fece un passo indietro e diede in uno scoppio di risa.

– I thugs! I thugs! – esclamò.

Poi volse le spalle e si allontanò rapidamente, dirigendosi verso il fortino.

Tremal-Naik emise un urlo di disperazione.

– Gran Siva! – esclamò, scoppiando nuovamente in singhiozzi. – Tutto è perduto! Ella non mi riconosce più!

Ricadde in ginocchio, ma poi si alzò di scatto, lanciandosi verso la pazza che stava per scomparire sotto un boschetto.

Ma non aveva fatto cinque passi che due braccia di ferro l’arrestavano.

 

– Calmatevi, Tremal-Naik – disse una voce.

Era Sandokan che aveva lasciato il suo posto, seguito da Yanez e da Kammamuri.

– Ah! signore – balbettò l’indiano.

– Calmatevi – ripeté Sandokan. – Tutto non è ancora perduto.

– Non mi riconosce più. Ed io che credevo di stringerla ancora, dopo tanto tempo, tante angosce e tante torture, fra le mie braccia! Tutto è finito, tutto! – mormorò il povero indiano.

– C’è ancora speranza, Tremal-Naik.

– Perché illudermi, signore? Ella è pazza, né più mai guarirà più.

– Guarirà, e questa sera stessa: te lo dice la Tigre della Malesia.

Tremal-Naik guardò Sandokan con gli occhi pieni di lacrime.

– Non è una speranza del momento, dunque? – chiese. – È proprio vero quello che dite? Voi che vi siete mostrato tanto generoso verso di me, che tanto bene mi avete fatto, operate anche questo miracolo, e la mia vita sarà vostra.

– Questo miracolo lo compirò, ve lo prometto, Tremal-Naik – disse Sandokan con voce grave.

– E quando?…

– Questa sera, vi ho detto.

– In che modo?

– Lo saprete presto. Kammamuri!

Il maharatto si fece innanzi. Il buon giovanotto, come il suo padrone, aveva le lacrime agli occhi.

– Parlate, capitano – disse.

– La notte in cui il tuo padrone si presentò nella caverna di Suyodhana, c’eri nel tempio?

– Sì, capitano.

– Sapresti ripetermi ciò che dissero il capo dei thugs e il tuo padrone?

– Sì, parola per parola.

– Ebbene, vieni con me al forte.

– E noi che cosa dovremo fare? – chiese Yanez.

– Per ora non abbiamo bisogno né di te né di Tremal-Naik – disse Sandokan. – Andate a passeggiare e non ritornate al forte prima di questa sera. Vi preparerò una sorpresa.

Sandokan e il maharatto si allontanarono in direzione del forte. Yanez passò un braccio in quello del povero Tremal-Naik e si misero a passeggiare lungo la costa discorrendo.

– Che cosa preparerà? – chiese Tremal-Naik al portoghese.

– Non lo so, Tremal-Naik; ma senza dubbio prepara qualcosa di straordinario.

– Per la mia Ada?

– Certamente.

– Riuscirà a farle riacquistare la ragione?

– Lo credo. La Tigre della Malesia sa mille cose che noi ignoriamo.

– Ah! potesse riuscire!

– Riuscirà, Tremal-Naik. Ditemi, è ancora vivo questo Suyodhana?

– Lo credo.

– È potente?

– Potentissimo, signor Yanez. Comanda a migliaia e migliaia di strangolatori.

– Sarà difficile colpirlo.

– Dite impossibile.

– Per tutti, ma non per la Tigre della Malesia. Chissà, forse un giorno la Tigre della Malesia e la Tigre dell’India potrebbero trovarsi l’una di fronte all’altra.

– Lo credete?

– Ho un presentimento. Ditemi, Tremal-Naik, credete che i thugs abbiano ancora la loro sede nell’isola di Raimangal?

– Non lo credo. Quando gli inglesi mi processarono, svelai il luogo ove abitavano i thugs e alcune navi furono mandate a Raimangal, ma tornarono senza avere trovato un solo strangolatore.

– Erano fuggiti?

– Senza dubbio.

– Ma dove?

– Non lo so.

– Sono ricchi i thugs?

– Ricchissimi, signor Yanez, perché essi non si accontentano di strangolare. Saccheggiano carovane e paesi interi.

– Che bel nemico da combattere! La Tigre della Malesia si divertirebbe. Chissà, un giorno forse, stanchi di Mompracem, potremmo andare in India a misurarci con Suyodhana e le sue genti.

– Avete intenzione di ritornare a Mompracem?

– Sì, Tremal-Naik – disse Yanez. – Domani manderemo alcuni uomini a Sarawak ad acquistare dei prahos e poi riguadagneremo la nostra isola.

– Ed io verrò con voi?

– Se voi veniste esporreste la vergine della pagoda ad un continuo pericolo. Voi sapete che noi siamo pirati e che ogni giorno dobbiamo combattere.

– Dove andrò dunque?

– Vi daremo una scorta di valorosi pirati che vi condurranno a Batavia. Là abbiamo una palazzina e l’abiterete con Ada.

– Questo è troppo, signor Yanez – disse Tremal-Naik con voce commossa. – Non vi basta aver esposto la vostra vita per salvarmi, volete ancora darmi una casa?

– E un gruzzolo di diamanti che varrà qualche milione, mio caro Tremal-Naik.

– Ma io non accetterò.

– Alla Tigre della Malesia nulla si deve rifiutare, Tremal-Naik. Un rifiuto la irriterebbe.

– Ma…

– State zitto, Tremal-Naik. Un milione per noi è nulla.

– Siete molto ricchi dunque?

– Forse più dei thugs indiani.

Mentre discorrevano, il sole era rapidamente tramontato e le tenebre erano calate. Yanez guardò l’orologio all’incerto chiarore delle stelle.

– Sono le nove – disse, – possiamo tornare al forte.

Lanciò un ultimo sguardo sull’ampia distesa d’acqua che appariva deserta fino agli estremi limiti dell’orizzonte, poi lasciò la costa entrando nel boschetto. Tremal-Naik, triste e pensieroso, col capo chino sul petto, lo seguiva.

Pochi minuti dopo i due compagni si trovarono dinanzi al fortino sull’entrata del quale stava Sandokan che fumava flemmaticamente la pipa.

– Vi aspettavo – diss’egli muovendo loro incontro. – Tutto è pronto.

– Che cosa è pronto? – chiese Tremal-Naik.

– Ciò che deve far riacquistare la ragione alla vergine della pagoda. —

Prese per mano i due amici e li condusse nell’interno di una vastissima capanna che occupava quasi l’intero recinto del forte, un tempo destinato a contenere una guarnigione e gran copia di viveri e di munizioni.

Tremal-Naik e Yanez mandarono un grido di sorpresa.

L’ampia sala, in poche ore, era stata trasformata, per opera di Sandokan, di Kammamuri e dei pirati, in un’orribile caverna che a Tremal-Naik ricordava, in parte, il tempio dei thugs indiani, dove il truce Suyodhana aveva compiuto la sua spaventevole vendetta.

Una infinità di rami resinosi accesi spandevano all’intorno una luce azzurrognola, livida, spettrale. Qua e là erano stati accumulati massi enormi e rizzati tronchi d’alberi che potevano passare per colonne, adorni di mostri d’argilla rozzamente plasmati rappresentanti Visnù, il dio conservatore degli indiani, il quale ha la sua residenza nel Vaicondu o mare di latte del serpente Adissescien altri dèi cateri, giganteschi geni malvagi che, divisi in cinque tribù, vanno errando per il mondo dal quale non possono uscire né meritare la beatitudine promessa agli uomini, se non dopo aver raccolto un certo numero di preghiere.

Nel mezzo si ergeva una statua, pure d’argilla, orribile a vedersi.

Aveva quattro braccia, una lingua smisurata e i suoi piedi posavano sopra un cadavere. Dinanzi a quel mostro era collocata una vaschetta entro la quale nuotava un pesciolino.

– Dove siamo noi? – chiese Yanez, guardando con stupore quei mostri e quelle torce.

– In una pagoda dei thugs indiani – disse Sandokan.

– Chi ha fatto tutti questi brutti mostri?

– Noi, fratello.

– In così poche ore?

– Tutto si fa, quando si vuole.

– Chi è quella brutta figura che ha quattro braccia?

– Kalì, la dea dei thugs – rispose Tremal-Naik che l’aveva riconosciuta.

– Vi sembra, Tremal-Naik, che questa pagoda improvvisata somigli a quella dei thugs?

– Sì, Tigre della Malesia. Ma che cosa volete fare?

– Uditemi.

– Vi ascoltiamo.

– Io credo che solamente una straordinaria impressione possa far riacquistare la ragione a Ada.

– Anch’io sono del tuo parere, Sandokan – disse Yanez, – e comprendo il tuo piano. Tu vuoi ripetere la scena che accadde nella pagoda dei thugs quando Tremal-Naik si presentò a Suyodhana.

– Sì, Yanez, è proprio così. Io sarò il capo dei thugs e ripeterò le parole pronunciate dal terribile uomo in quella notte fatale.

– E i thugs? – chiese Tremal-Naik.

– I thugs saranno i miei uomini – disse Sandokan. – Sono stati istruiti da Kammamuri.

– Avanti dunque.

Sandokan accostò alle labbra il fischietto d’argento ed emise un suono acuto. Subito trenta dayachi seminudi coi fianchi stretti da un laccio di fibre di rotang e con un serpente dalla testa di donna dipinto in mezzo al petto entrarono nella grande capanna schierandosi ai lati della mostruosa divinità dei thugs.

– Perché hanno quel serpente sul petto? – chiese Yanez.

– Tutti i thugs hanno un tatuaggio simile – rispose Tremal-Naik.

– Kammamuri non ha dimenticato nulla a quanto pare.

– Siete pronti? – chiese Sandokan.

– Tutti – risposero i dayachi.

– Yanez – disse allora Sandokan, – ti affido una parte importante.

– Che cosa devo fare?

– Tu che sei un bianco, devi rappresentare il padre di Ada. Guiderai gli altri pirati che fingeranno di essere i sipai indiani e farai quanto ti dice Kammamuri.

– Sta bene.

– Quando io fingerò di assalirti fuori del forte, cadrai dinanzi a Ada come morto.

– Fidati di me, fratello. Ognuno al suo posto.

Tremal-Naik, Yanez e Kammamuri uscirono, mentre Sandokan si fermava dinanzi alla statua della dea Kalì e i dayachi, i finti thugs, si schieravano ai suoi lati.

Ad un cenno della Tigre, un pirata percosse dodici volte una specie di gong che era stato trovato in un angolo del fortino.

All’ultimo colpo la porta del capannone s’aprì e la vergine della pagoda entrò sorretta da due dayachi.

– Avanzati, vergine della pagoda – disse Sandokan con voce grave, – Suyodhana te lo comanda.

A quel nome di Suyodhana, la pazza si era arrestata, liberandosi dalle braccia dei due pirati. Il suo sguardo, improvvisamente acceso e dilatato, si fissò su Sandokan, che stava ritto in mezzo alla pagoda, poi sui dayachi che conservarono una immobilità assoluta e da ultimo sulla dea Kalì. Un fremito agitò il suo corpo e alcune rughe si disegnarono sulla nivea fronte.