Za darmo

I misteri della jungla nera

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– Ebbene, – chiese Aghur con ansietà, mirando con occhio atterrito il padrone. – Cosa gli è accaduto?

– L’hanno pugnalato.

– Ah!… E chi mai?

– Gli stessi che assassinarono Hurti.

– Quando?… Come?…

– Te lo dirò più tardi. Sbrigati, costruisci una barella e partiamo; siamo inseguiti.

Aghur non volle saperne di più. Snudò il coltellaccio, tagliò sei o sette rami, lì legò con solide corde e sopra quella rozza barella ammonticchiò alcune bracciate di foglie. Kammamuri sollevò lentamente il padrone che non era ancora tornato in sé, e ve lo stese sopra.

– Andiamo e silenzio, – comandò Kammamuri. – Hai il canotto?

– Sì, è arenato sulla sabbia, – rispose Aghur.

– Hai le pistole cariche?

– Tutt’e due.

– Avanti allora e tieni gli occhi aperti.

– Siamo forse spiati?

– Forse sì.

I due indiani sollevarono la barella e si misero in marcia preceduti dal cane, seguendo uno stretto sentiero aperto nel mezzo della jungla.

In quindici minuti giunsero al fiume, sul quale galleggiava il canotto. Nel momento che s’imbarcavano, Punthy abbaiò.

– Zitto, Punthy, – disse Kammamuri, prendendo i remi.

Il cane, anziché ubbidire, mise le zampe sul bordo del canotto e raddoppiò i suoi abbaiamenti. Pareva in preda ad una forte eccitazione.

I due indiani guardarono verso la jungla, ma non videro alcuno. Eppure Punthy doveva aver udito qualche rumore.

Misero le pistole sui banchi, afferrarono i remi e si spinsero al largo rimontando il fiume. Non avevano ancora percorso trecento braccia, che il cane ricominciò ad abbaiare rabbiosamente.

– Alto là! – gridò una voce imperiosa.

Kammamuri si volse indietro stringendo nella dritta una delle pistole.

Sulla riva, sul luogo da essi abbandonato, si teneva ritto un colossale indiano col laccio nella dritta e il pugnale nella sinistra.

– Alto là! – ripeté egli.

Kammamuri invece di ubbidire sparò. L’indiano si accasciò su se stesso agitando le braccia, indi scomparve fra i cespugli.

– Arranca! Arranca, Aghur! – gridò il maharatto.

Il canotto fendette rapidamente le acque dirigendosi verso il cimitero galleggiante, nel mentre che una voce tonante, ripiena di minaccia, gridava dalle coste dell’isola maledetta:

– Ci rivedremo!…

IX. Manciadi

Ad oriente cominciava ad albeggiare, quando il canotto giunse alle sponde della jungla nera.

Nulla di nuovo pareva che fosse accaduto. La capanna si rizzava ancora fra i canneti sormontata da una dozzina di giganteschi arghilah immobili sulle loro lunghe gambe giallastre, e la tigre, la fedele Darma, vi girava e rigirava attorno, senza mai allontanarsi.

– Buono, – mormorò Kammamuri. – I maledetti non hanno visitato questi luoghi. Darma!

La tigre a quella chiamata s’arrestò, alzò la testa, fissò sul canotto i suoi occhi verdastri e si slanciò verso la riva emettendo un sordo mugolìo.

Kammamuri e Aghur si affrettarono a sbarcare e portarono il padrone nella capanna, adagiandolo su di una comoda amaca. La tigre ed il cane si arrestarono al di fuori a vegliare.– Esamina la ferita, Aghur, – disse Kammamuri.

Il bengalese levò la fascia e guardò attentamente il petto del povero Tremal-Naik. Una ruga si disegnò sulla sua fronte.

– È grave, – disse. – Il pugnale è entrato assai, probabilmente fino all’impugnatura.

– Guarirà?

– Lo spero. Ma perché l’hanno pugnalato?

– È difficile il dirlo. Tu sai che il padrone voleva rivedere la visione.

– Almeno così ha detto.

– Egli, giunto all’isola, si fissò in testa di scoprire quella creatura. Pare che sapesse ove si celava, poiché mi comandò di ritornare alla capanna e partì solo. Ventiquattro ore dopo lo trovava nella jungla immerso in un lago di sangue: lo avevano pugnalato.

– Ma chi?

– Gli uomini che abitano l’isola e che forse vegliano su quella donna.

– Ma a quale scopo?

– Certamente per ucciderlo.

– Hai veduto tu quegli esseri?

– Coi miei propri occhi.

– Sono uomini o spiriti?

– Credo che siano uomini. Anzi mi gettarono un laccio al collo per strangolarmi, e ne uccisi due o tre. Se fossero spiriti, non sarebbero morti.

– È strano, – mormorò Aghur, diventato pensieroso. – E cosa fanno quegli uomini? Perché ammazzano le persone che sbarcano sulla loro isola?

– L’ignoro, Aghur. So che sono uomini terribili e che adorano una divinità la quale esige molte vittime.

– Hai paura, Kammamuri?

– Ho le mie buone ragioni per averne.

– Credi tu che si mostreranno nella nostra jungla?

– Lo temo, Aghur: quell’uomo ci ha gridato: «ci rivedremo».

– Mal per loro. La tigre è un animale da non lasciarli avvicinare.

– Lo so, ma vegliamo attentamente. Ci sono nell’aria delle nubi che minacciano tempesta.

– Lascia fare a me, Kammamuri. Tu pensa a guarire il padrone e io m’incarico di loro.

Kammamuri ritornò presso il padrone per applicare sulla ferita un nuovo cataplasma di erbe, ed Aghur si sedette dinanzi alla capanna, colla tigre ed il cane accovacciati.

La giornata passò senza incidenti. Tremal-Naik ebbe ancora qualche accesso di delirio, durante il quale gli usci più volte dalle labbra straziate il nome di Ada, la sventurata giovane che aveva lasciato senza difesa, nelle mani di quei terribili fanatici.

Però tornò a cadere in una specie di assopimento, che si prolungò fino al calare del sole. I due indiani, quantunque ardessero dal desiderio d’interrogarlo per sapere qualche cosa su coloro che lo avevano pugnalato, credettero bene di astenersene per non affaticarlo.

Allorché le tenebre stesero il loro nero velo sulla silenziosa jungla, Aghur montò pel primo la guardia, al di fuori della capanna, armato fino ai denti. Il cane si era accovacciato ai suoi piedi cogli occhi fissi al sud. A mezzanotte nessun indiano era comparso, né sul fiume, né sulla jungla. Però il cane s’era più volte alzato fiutando l’aria, dando segni evidenti d’inquietudine. Forse presentiva qualche cosa d’insolito; chissà, forse la vicinanza di qualche persona e forse anche di qualche animale selvaggio. Aghur stava per svegliare Kammamuri onde lo surrogasse, quando Punthy s’alzò abbaiando.

– To’! – esclamò l’indiano, sorpreso. – Cosa vuol dir ciò?

Il cane abbaiava colla testa volta al fiume, segno evidente che colà succedeva qualche cosa. Contemporaneamente la tigre apparve sulla soglia della capanna, facendo udire un sordo miagolio.

– Kammamuri! – chiamò Aghur, preparando le armi.

Il maharatto, che dormiva con un sol occhio, lo raggiunse.

– Cosa succede? – chiese egli.

– I nostri animali hanno udito qualche cosa e sono inquieti.

– Hai udito qualche rumore?

– Assolutamente nulla.

– Tieni il cane ed ascoltiamo.

Aghur s’affrettò a ubbidire.

D’improvviso verso il fiume s’udi a gridare:

– Aiuto! Aiuto!…

Il cane si mise ad abbaiare furiosamente.

– Aiuto!…– ripeté la medesima voce.

– Kammamuri! – esclamò Aghur. – Qualcuno si annega.

– Certamente.

– Non possiamo lasciarlo annegare.

– Non sappiamo chi sia.

– Non importa: alla riva!

– Prepariamo le armi e stiamo attenti. Non si sa mai cosa può accadere. Tu, Darma, rimani qui e sbrana senza pietà quanti si presentano.

La tigre certamente lo comprese, poiché si raccolse su se stessa, cogli occhi fiammeggianti, pronta a scagliarsi sul primo venuto. I due indiani si slanciarono verso la riva, preceduti da Punthy che continuava ad abbaiare furiosamente, e guardarono sul fiume che pareva nero come se fosse d’inchiostro.

– Vedi nulla? – chiese Kammamuri ad Aghur, che si era curvato sulla corrente.

– Sì, mi pare di scorgere laggiù qualche cosa che va alla deriva.

– Un uomo forse?

– Si direbbe più il tronco di un albero.

– Olà! – gridò Kammamuri. – Chi chiama?

– Salvatemi! – rispose una fioca voce.

– È un naufrago, disse il maharatto.

– Potete giungere alla riva? – chiese Aghur.

Un gemito fu la risposta che ottenne. Non vi era da esitare, quel naufrago si trovava agli estremi e poteva da un momento all’altro annegarsi. I due indiani balzarono nel canotto e si diressero rapidamente verso di lui. Ben presto s’avvidero che l’oggetto nero che andava alla riva era il tronco di un albero, a cui era aggrappato un uomo. In pochi istanti lo raggiunsero allungando le mani al naufrago, che le afferrò colla forza della disperazione.

– Salvatemi!… – balbettò egli ancora una volta, lasciandosi deporre nel fondo del battello.

I due indiani si curvarono su di lui osservandolo con curiosità. Era un uomo della loro razza, bengalese al tipo, di statura inferiore alla media, di colorito assai oscuro, estremamente magro ma coi muscoli assai pronunciati, indizio sicuro d’una forza non comune. Aveva la faccia qua e là contusa e la gialla tunica, strettamente chiusa al corpo, macchiata di sangue.

– Sei ferito? – gli domandò Kammamuri.

Quell’uomo lo fissò attentamente con due occhi che avevano strani riflessi.

– Credo, – mormorò dipoi.

– Hai la veste insanguinata. Lasciami vedere

– Non è nulla, – diss’egli, mettendosi le mani sul petto, come se avesse paura di metterlo allo scoperto. – Ho battuto la testa su quel tronco d’albero e mi sanguinò il naso.

– Da dove vieni?

– Da Calcutta.

– Ti chiami?

– Manciadi.

– Ma come ti trovi qui?

Il bengalese tremò in tutte le membra, battendo i denti.

– Chi abita questi luoghi? – chiese egli, con terrore.

– Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti, – rispose Kammamuri.

Manciadi tornò a tremare.

– Feroce uomo, – balbettò.

 

Aghur ed il maharatto si guardarono l’un l’altro con sorpresa.

– Tu sei pazzo, – disse Aghur.

– Pazzo!… Non sai tu che i suoi uomini mi diedero la caccia, come se fossi una tigre?

– I suoi uomini ti diedero la caccia! Ma siamo noi i suoi compagni.

Il bengalese si raddrizzò, guardandoli con ispavento.

– Voi!… Voi!… – ripeté. – Sono perduto!

S’aggrappò all’orlo del canotto colla evidente intenzione di lanciarsi nel fiume, ma Kammamuri l’afferrò a mezzo corpo obbligandolo a sedersi.

– Spiegami la causa di questo spavento, – gli disse con accento minaccioso. – Noi non facciamo male ad alcuno, ma ti avverto che se tu non parli chiaro ti spacco il cranio col calcio della mia carabina.

– Volete assassinarmi! – piagnucolò Manciadi.

– Sì, se non ti spieghi. Cosa sei venuto a far qui?

– Sono un povero indiano e campo la vita cacciando. Un capitano dei sipai mi promise cento rupie per una pelle di tigre, e qui venni sperando di soddisfarlo.

– Tira avanti.

– Ieri sera approdai alla riva opposta del Mangal, e mi appiattai nella jungla, due ore dopo mi si slanciarono addosso alcuni uomini e mi sentii stringere il collo da un laccio…

– Ah! – esclamarono i due indiani. – Un laccio, hai detto?

– Sì – confermò il bengalese.

– Gii hai veduti quegli uomini? – chiese Aghur.

– Sì, come vedo voi.

– Cosa avevano sul petto?

– Mi pare d’aver visto un tatuaggio.

– Erano quelli di Raimangal, – disse Kammamuri. – Continua.

– Impugnai il mio coltello, – proseguì Manciadi, che fremeva ancora per lo spavento, – e tagliai la corda. Corsi a lungo inseguito dappresso e giunto al fiume mi vi gettai dentro a capofitto.

– Sappiamo il resto, – disse il maharatto. – Tu adunque sei cacciatore.

– Sì, e valente.

– Vuoi venire con noi?

– Un lampo strano brillò negli occhi del bengalese.

– Non domando di meglio, – s’affrettò a dire. – Sono solo al mondo.

– Sta bene, noi ti adottiamo. Domani mattina ti presenterò al padrone.

I due indiani rituffarono i remi nel fiume e ricondussero il canotto nel piccolo seno. Appena sbarcarono, Punthy si slanciò contro il bengalese, abbaiando rabbiosamente e mostrandogli i denti.

– Zitto, Punthy, – disse Kammamuri, trattenendolo.– È uno dei nostri.

Il cane, anziché obbedire, si mise a ringhiare minacciosamente.

– Questa bestia mi pare che non sia troppo cortese, – disse Manciadi, sforzandosi a sorridere.

– Non aver paura, ti diventerà amico, – disse il maharatto.

Legato il canotto, raggiunsero la capanna dinanzi alla quale vegliava la tigre. Cosa strana, anche questa si mise a brontolare in modo tutt’altro che amichevole, guardando di traverso il nuovo arrivato.

– Oh! – esclamò egli spaventato. – Una tigre!

– È addomesticata. Fermati qui che vado dal padrone.

– Dal padrone! È qui forse? – chiese il bengalese attonito.

– Sicuro.

– Ancora vivo!…

– To’! – esclamò il maharatto sorpreso. – Perché tale domanda?

Il bengalese trasalì e parve confuso.

– Come sai tu che è ferito, per farmi tale domanda? – replicò Kammamuri.

– Non m’hai detto tu che era stato ferito?

– Io!…

– Mi sembra.

– Non mi rammento.

– Eppure non posso averlo udito dire che da te o dal tuo compagno.

– Così deve essere.

Kammamuri ed Aghur rientrarono nella capanna. Tremal-Naik dormiva profondamente e sognava, poiché delle parole tronche uscivano dalle sue labbra.

– Non vale la pena di svegliarlo, – borbottò Kammamuri, volgendosi ad Aghur.

– Lo presenteremo domani, disse quest’ultimo. – Cosa ti sembra di quel Manciadi?

– Ha l’aspetto d’un buon uomo e ho tutte le ragioni per credere che ci aiuterà validamente.

– Lo credo anch’io.

– Lo faremo vegliare lui fino a domani.

Aghur prese una terrina di cangi, densa decozione di riso, e la recò a Manciadi il quale si mise a mangiare con una voracità da lupo.

Raccomandatogli di fare buona guardia e di dare l’allerta se scorgesse qualche pericolo, s’affrettò a rientrare, chiudendo, per precauzione, la porta.

Era appena scomparso che Manciadi s’alzò con una sveltezza sorprendente. I suoi occhi s’erano d’un subito accesi e sulle sue labbra errava un satanico sorriso.

– Ah! Ah! – esclamò egli, sogghignando.

S’accostò alla capanna e vi appoggiò l’orecchio, ascoltando con profondo raccoglimento. Stette così un lungo quarto d’ora, poi partì colla rapidità di una freccia arrestandosi mezzo miglio più lontano.

Accostò le dita alle labbra ed emise un acuto fischio. Tosto al sud un punto rossastro si alzò fendendo le tenebre e scoppiò spandendo una luce vivida che subito si spense con una sorda detonazione.

Altre due volte il fischio risuonò, poi nella jungla tutto tornò silenzio e mistero.

X. Lo strangolatore

Erano trascorsi venti giorni. Tremal-Naik, mercé la sua robusta costituzione e le assidue cure dei suoi compagni, guariva rapidamente.

La ferita si era ormai richiusa e poteva alzarsi.

Però, mentre riacquistava le forze, l’indiano diventava ognor più cupo ed inquieto. I suoi compagni lo sorprendevano talvolta colla faccia nascosta fra le mani e le gote umide, come se avesse pianto. Non parlava che rade volte, non confessava a chicchessia il terribile dolore che struggevalo e talvolta veniva assalito da improvvisi accessi di rabbia, durante i quali si lacerava le carni colle unghie e tentava di gettarsi dall’amaca gridando:

– Ada!… Ada!…

Kammamuri ed Aghur indarno si sforzavano di farlo parlare; indarno cercavano la causa di quelle sfuriate che minacciavano di riaprire la non ancora cicatrizzata ferita e si chiedevano chi mai poteva essere colei che portava quel nome che egli pronunciava e nei suoi deliri e nei suoi sonni, quel nome che era il suo incubo, il suo tormento.

Manciadi il bengalese, qualche volta si associava a loro per venire a capo di qualche cosa, ma ciò accadeva assai di rado. Quest’uomo pareva anzi che sfuggisse la presenza del ferito, quasiché avesse da temere qualche cosa.

Non entrava nella di lui stanza se non quando lo vedeva dormire, ma quasi con ripugnanza. Amava meglio percorrere la jungla in cerca di selvaggina, di raccogliere legna e di attingere acqua. Strana cosa: ogni qual volta udiva il padrone invocare Ada, egli veniva assalito da un tremore straordinario e la sua faccia, di solito tranquilla, d’un subito s’alterava cangiando persino di colore.. Altro particolare misterioso è, che di mano in mano che Tremal-Naik migliorava, anziché gioire, diventava tetro e d’umore nero.

Si avrebbe detto che a quell’uomo spiaceva che il padrone guarisse. Perché? Nessuno avrebbe potuto dirlo.

Il mattino del ventunesimo giorno, nella capanna accadde un avvenimento che doveva avere funeste conseguenze.

Kammamuri s’era alzato al primo raggio di sole. Visto che Tremal-Naik dormiva d’un sonno tranquillo, si diresse verso la porta per svegliare Manciadi che riposava al di fuori, sotto una piccola tettoia di canne di bambù. Levò la spranga e spinse l’uscio ma con sua grande sorpresa questo non s’aprì: c’era al di fuori qualche cosa che gli faceva intoppo.– Manciadi!– gridò il maharatto.

Nessuno rispose alla chiamata.. Nella mente del maharatto balenò il sospetto che al poveretto fosse toccata qualche disgrazia, che i nemici lo avessero strangolato o che le tigri della jungla l’avessero sbranato.

Accostò un occhio alla fessura della porta e s’accorse che l’oggetto che le impediva d’aprirsi era un corpo umano. Guardando con maggiore attenzione, riconobbe in lui il bengalese Manciadi.

– Oh!… – esclamò egli con orrore. Aghur!

L’indiano fu lesto ad accorrere alla chiamata del compagno.

– Aghur, – disse il maharatto, sgomentato. – Hai udito nulla questa notte?

– Assolutamente nulla.

– Nemmeno un gemito?

– No, perché?

– Hanno ucciso Manciadi!

– È impossibile! – esclamò Aghur.

– È qui disteso dinanzi alla porta.

– Darma non ha dato alcun segnale e nemmeno Punthy.

– Eppure dev’esser morto. Non risponde, né si muove.

– Bisogna uscire: spingi forte.

Il maharatto appoggiò una spalla alla porta e fece forza respingendo Manciadi. Ottenuto un varco, i due indiani si slanciarono all’aperto. Il povero bengalese era coricato bocconi e pareva morto, quantunque non si vedesse sul suo corpo ferita alcuna.. Kammamuri gli accostò una mano sul petto e sentì che il cuore ancora batteva.

– È svenuto, – diss’egli.

Strappò una penna ad un punya che trovavasi lì vicino, vi diede fuoco e l’accostò alle nari dello svenuto. Tosto un sospiro sollevò il petto, poi le braccia e le gambe si mossero e infine s’aprirono gli occhi che si fissarono con smarrimento sui due indiani.

– Cosa ti è accaduto – gli chiese premurosamente Kammamuri.

– Siete voi! – esclamò affannosamente il bengalese. – Ah!… che paura!… Credevo di essere stato ammazzato sul colpo!

– Ma cos’hai veduto? Chi cercò d’ammazzarti? Degli uomini forse?

– Uomini?… Chi parla d’uomini?

– Di’ su.

– Ma non sono stati uomini, – disse il bengalese.

– Sì, sì, non m’inganno, era un elefante.

– Un elefante! esclamarono i due indiani. – Un elefante qui!

– Ma sì, era un elefante enorme, con una proboscide mostruosa, e due denti lunghissimi.

– E si è avvicinato a te? – chiese Aghur.

– Sì, e per poco non mi spezzò il cranio. Io dormiva saporitamente, quando fui svegliato da un potente soffio; aprii gli occhi e vidi sopra di me la gigantesca testa del mostro. Cercai di alzarmi per fuggire, ma la proboscide mi piombò sul cranio, inchiodandomi al suolo.

– E poi? – chiese Kammamuri con ansietà.

– Poi non ricordo più nulla. Il colpo era stato così forte che svenni.

– Che ora era?

– Non lo so, perché m’ero addormentato.

– È strano, – disse il maharatto. – E Punthy non s’accorse di nulla.

– Cosa facciamo, – chiese Aghur, lanciando uno sguardo ardente sulla jungla.

– Lasciamo il colosso in pace, rispose Kammamuri.

– Ritornerà, – s’affrettò a dire Manciadi, – e rovinerà la capanna..

– È vero, – disse Aghur. – Se lo inseguissimo?

– E perché no? Abbiamo delle buone carabine.

– Io sono pronto ad aiutarvi, – rispose Manciadi.

– Ma non possiamo lasciare solo il padrone, quantunque sia completamente guarito, – osservò Kammamuri. – Voi sapete che un pericolo ci minaccia sempre.

– Tu rimarrai e noi andremo alla caccia, – incalzò Aghur. – Con un vicino così pericoloso, non si può vivere tranquilli.

– Se avete coraggio bastante, vi lascio libero campo.

– Così va bene! – esclamò Aghur. – Lascia fare a noi, e vedrai che prima di mezzodì il colosso sarà morto.

Andò a prendere nella capanna due pesanti carabine di grosso calibro e ne porse una al bengalese che la caricò con grande attenzione, con una verga di piombo. Munitisi di pistoloni e d’un enorme coltellaccio, nonché di abbondanti munizioni, entrarono risolutamente nella jungla, percorrendo un largo sentiero tracciato fra i bambù. Aghur era allegro e discorreva; il bengalese, invece, era diventato cupo e spesso soffermavasi per guardare il compagno che lo precedeva di pochi passi.

Talvolta si chinava verso terra ed ascoltava, fingendo di cercare le traccie dell’elefante. Quel brusco cangiamento, quegli sguardi e quelle manovre, non sfuggirono ad Aghur, il quale credette che il bengalese avesse paura.

– Animo, Manciadi, diss’egli, allegramente. – Non credere che sia tanto difficile abbattere una bestia, anche se è munita di proboscide. Una palla in un occhio e tutto sarà finito.

– Non ho paura io, – rispose bruscamente il bengalese, sforzandosi, ma invano, di atteggiare le sue labbra ad un sorriso.

– Mi sembri inquieto.

– Infatti lo sono, ma non è l’elefante che mi preoccupa.

– E che cosa, adunque?

– Aghur, – disse Manciadi con accento strano. – Hai paura della morte?

– Se ho paura della morte?… Perché mi fai questa domanda? Non ho mai avuto paura di nulla… io!

– Meglio per te.

– Non ti capisco.

– Comprenderai fra qualche ora, silenzio ed avanti.

– È pazzo, – pensò Aghur, – o mezzo morto dalla paura. Sta bene, lo abbatterò io il colosso.

I due indiani affrettarono il passo, malgrado il sole che gli arrostiva e gli ostacoli che ingombravano il sentiero, e un’ora dopo giungevano in un boschetto di giacchieri alberi, le cui frutta, anziché pendere all’estremità dei rami, escono direttamente dal tronco, d’un bel colore giallo, d’una fragranza straordinaria e del peso di oltre trenta libbre.

 

Quivi giunti, Manciadi con grande sorpresa del compagno, si mise a fischiare un’arietta malinconica, giammai udita nella jungla nera.

– Cosa fai? – gli chiese Aghur.

– Fischio, – rispose Manciadi tranquillamente.

– Farai fuggire l’elefante.

– Anzi lo attiro. Gli elefanti amano la musica e, quando la odono, accorrono.

– To’! non l’ho mai saputo.

– Cammina, Aghur, e guardati ben d’attorno. Sai tu dove trovasi uno stagno?

– Qui vicino.

– Andiamo.

Aghur, quantunque tuttociò gli sembrasse assai strano, ubbidì.. Prese un sentieruccio appena visibile e condusse il compagno sulle rive di un piccolo stagno contornato da ammassi di pietre rozzamente scolpite rovine di un’antica pagoda.

– Tu rimarrai qui, – gli disse il bengalese. – Io batto il bosco e scovo l’elefante, poiché qui dev’essere nascosto.

Si mise sotto il braccio la carabina e si allontanò senza aggiungere sillaba. Appena fu certo di non essere né veduto, né udito, si mise a correre rapidamente e si arrestò ai piedi di un palmizio, sul cui tronco vedevasi rozzamente inciso l’emblema misterioso degl’indiani di Raimangal.

– A me ora, diss’egli. – Questo bosco sarà la sua tomba.

Si drizzò quanto era lungo ed emise un fischio. Un segnale eguale vi rispose e qualche minuto dopo, fra il varco di due cespugli appariva la sinistra figura di Suyodhana. Egli incrociò le braccia sul petto, fregiato del serpente dalla testa di donna, e fissò Manciadi con uno sguardo acuto come la punta d’una spilla.

– Figlio delle sacre acque del Gange, sii il benvenuto, – disse il bengalese, toccando la polvere colla fronte.

– Ebbene? – chiese brevemente Suyodhana.

– Siamo battuti.

– Che vuoi tu dire?

– Tremal-Naik è vivo.

Suyodhana divenne ancor più cupo e si conficcò le unghie nelle carni.

– Avrei mancato al colpo? – ringhiò egli. – Eppure il pugnale vendicatore gli squarciò il seno!

Chinò il capo sul petto e s’immerse in tetri pensieri.

– Manciadi, – disse dopo qualche tempo, – quell’uomo deve morire.

– Comanda, figlio delle sacre acque del Gange.

– La vergine della sacra pagoda fu profondamente ferita dal velenoso sguardo di quell’uomo. La sciagurata ancora l’ama, né cesserà d’amarlo finché egli vivrà.

– Crederà alla sua morte?

– Sì, perché io le darò le prove.

– Cosa devo fare? Devo avvelenarlo?

– No, il veleno non sempre uccide; vi sono degli antidoti.

– Devo strangolarlo? Ho il mio laccio.

– Andiamo adagio. Hai eseguito quanto ti ordinai?

– Sì, figlio delle sacre acque del Gange. Aghur m’attende presso lo stagno.

– Bene, tu lo ucciderai.

– E poi? chiese il fanatico con terribile calma.

– Poi tornerai alla capanna e narrerai a Kammamuri che Aghur fu assassinato. Ti crederà e correrà a cercarlo; comprendi il resto.

– Hai altro da dirmi?

– Più nulla.

– E strangolato che abbia Tremal-Naik, cosa dovrò fare?

– Raggiungermi a Raimangal: va’!

Manciadi toccò una seconda volta la polvere colla fronte e si allontanò colla dritta sul calcio d’una pistola.

– Decisamente, – disse il bengalese, – il figlio delle sacre acque del Gange è un grande uomo!

Il fanatico non pensò nemmeno al doppio assassinio che stava per commettere. Suyodhana così aveva ordinato, e Suyodhana parlava in nome della mostruosa divinità alla quale tutti loro avevano consacrato il loro braccio e la loro vita. Attraversò lentamente il bosco dei giacchieri e giunse allo stagno, presso il quale stava sdraiato, colla carabina sulle ginocchia, la futura vittima.

– Hai veduto l’elefante? – gli chiese Aghur.

– Non ancora, ma ho scoperto le sue traccie, – disse l’assassino guardandolo con due occhi che mandavano sinistri bagliori.

– Cos’hai che mi guardi così? – domandò Aghur.

Il bengalese non rispose e continuò a guardarlo.

– Hai scoperto qualche cosa di strano?

– Sì, – rispose Manciadi. – Aghur, ti ricordi cosa ti dissi un’ora fa?

– L’indiano parve sorpreso ed inquieto. Forse presentiva la catastrofe.

– Allorché mi parlasti della morte?

– Sì.

– Me lo ricordo, – rispose Aghur.

– Non ti sembra crudele morire a vent’anni, quando l’avvenire forse sorride? Non ti sembra atroce abbandonare questa terra indorata dal sole e profumata dall’olezzo di mille fiori, per scendere nella tomba, nell’oscurità, nel mistero?

– Sei pazzo? – domandò Aghur.

– No, Aghur, non sono pazzo, – disse l’assassino avvicinandoglisi fino a toccarlo. – Guarda! —

Aprì la tunica che coprivalo e mise allo scoperto il suo petto tatuato del serpente colla testa di donna.

– Cos’è? – chiese Aghur.

– L’emblema della morte.

– Non capisco.

– Tanto peggio per te.

Il bengalese sciolse il laccio che teneva nascosto sotto la tunica e lo fece fischiare attorno alla sua testa.

– Aghur! – gridò, – Suyodhana ti ha condannato e devi morire!

L’indiano comprese allora tutto. Balzò in piedi colla carabina in mano, ma gli mancò il tempo di puntarla sul traditore.

Un fischio tagliò l’aria e il poveretto, stretto alla gola dal laccio, la cui palla di piombo lo percosse fortemente alla nuca, stramazzò a terra.

– Assassino!… – urlò egli con voce strozzata.

– Aghur! – disse lo strangolatore con accento funebre. – Saluta un’ultima volta il sole che ti accarezza, respira un’ultima volta quest’aria che corre sulle Sunderbunds, invia l’estremo saluto ai tuoi compagni e scendi nella tomba.

– Kammamuri!… Padrone!… – balbettò Aghur, dibattendosi.

Il fanatico afferrò solidamente il laccio e soffocò la voce della vittima con una violenta strappata, poi gli si gettò sopra e col pugnale lo trafisse.

– Muori, ché la dea lo vuole! – gli gridò un’ultima volta Manciadi.

Aghur, col volto cinereo, gli occhi schizzanti dalle orbite cacciò fuori un rauco gemito e cercò di risollevarsi, ma ricadde.

– E uno, – disse il fanatico, lanciando un guardo feroce sull’assassinato. – Ora, pensiamo all’altro.

E s’allontanò a rapidi passi, mentre uno stormo di marabù calava sul cadavere ancor caldo dell’infelice Aghur.