Za darmo

I misteri della jungla nera

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VI. La limonata che scioglie la lingua

Tremal-Naik a quel grido s’era alzato sulle ginocchia, in preda ad una viva inquietudine. Al colpo di fucile aveva fatto seguito un’altra detonazione, poi una terza ed infine una quarta. Nel bengalow s’alzò un gran gridìo che fece fremere il cacciatore di serpenti. – Guarda verso la jungla! gridava una voce.

– All’armi! – gridava un’altra.

– All’elefante! all’elefante!

– Fuori tutti!

S’udirono nitriti di cavalli, uno scalpitare precipitato, un calpestìo e un barrito formidabile che coperse tutti quei diversi rumori.

Tremal-Naik colla fronte irrigata da grosse goccie di sudore, ascoltava rattenendo il respiro.

– Corri, Negapatnan! corri! – mormorò come se il fuggiasco fosse lì vicino ad udirlo. – Se ti riprendono, siamo tutti due perduti.

Con uno sforzo disperato s’alzò in piedi e si mise a saltellare, per quanto gli permettevano le corde, verso la feritoia. Un calpestìo affrettato che veniva dalla scala lo arrestò.

– Scendono, – mormorò, gettandosi prontamente per terra. – Qui occorre sangue freddo e audacia. Chi sa, forse Negapatnan riuscirà a raggiungere Kougli.

Si mise a dibattersi, fingendo di liberarsi dai legami e cacciando grida strozzate. Era tempo.

Bhârata scendeva i gradini a quattro a quattro. Egli si precipitò nella cantina gettando un urlo terribile.

– Fuggito?… fuggito?… – gridò egli, lacerandosi il petto colle unghie. Balzò come una tigre verso la feritoia. Un secondo urlo gli irruppe dalle frementi labbra.

– Ah! Miserabile!

Gettò all’interno uno sguardo smarrito. Vide Tremal-Naik che si contorceva per terra emettendo sorde imprecazioni. In un baleno gli fu vicino.

– Vivo!… – esclamò, strappandogli il bavaglio.

– Maledetti thugs! – urlò Tremal-Naik con voce strangolata. – Dov’è?… Dov’è quel cane? che gli strappi il cuore!

– Cos’è accaduto?… Come fuggì?… Come sei legato? Parla Saranguy, parla, – disse Bhârata fuori di sé.

– Siamo stati giuocati. Potente Brahma! sono caduto nell’agguato come uno stupido!

– Ma spiegati, di’ su, che non ho più sangue nelle vene. Come riuscì a evadere? Chi tagliò le sbarre della feritoia?

– Loro.

– Chi loro?

– I thugs.

– I thugs?

– Sì, tutto era preparato per farlo fuggire.

– Non capisco più. È impossibile che i thugs sieno venuti qui.

– Eppure ci sono venuti. Gli ho veduti io, coi miei propri occhi e per poco non mi strozzarono come quel povero sipai.

– Ci hanno strozzato un sipai?

– Sì quello che doveva surrogarmi nella guardia.

– Narra, spicciati, Saranguy, come accadde tutto ciò

– Il sole era tramontato, – disse Tremal-Naik, – io ero seduto dinanzi al prigioniero, il quale non istaccava i suoi occhi dai miei.

Passarono tre ore, senza che noi facessimo un movimento. D’improvviso sentii le mie palpebre diventare pesanti e un torpore, una sonnolenza irresistibile, impadronirsi di me.

Negapatnan subiva la medesima sonnolenza e sbadigliava in modo tale da far paura. Lottai a lungo, poi, senza sapere il come, caddi all’indietro e m’addormentai.

Quando riaprii gli occhi ero stato legato ed imbavagliato e le sbarre della feritoia giacevano per terra. Due thugs stavano strangolando il povero sipai.

Cercai di dibattermi, di urlare, ma mi fu impossibile. I thugs, compiuto l’assassinio, si arrampicarono fino alla feritoia e scomparvero.

– E Negapatnan?

– Era fuggito prima di tutti.

– E non sai la cagione di quella irresistibile sonnolenza?

– Non so nulla.

– Non fu introdotto qualche cosa nella cantina?

– Non vidi nulla.

– Essi ti hanno addormentato con dei fiori che sprigionano un potente narcotico.

– Così deve essere.

– Ma lo riprenderemo quel Negapatnan. Ho messo sulle sue traccie dei bravi uomini.

– Anch’io sono un valente cercatore di orme.

– Lo so, e farai bene a metterti subito in campagna. Bisogna riprenderlo a qualsiasi costo o almeno riportare qualche altro thug.

– M’incarico io.

Bhârata l’aveva sciolto dai legami. Salirono la gradinata e uscirono dal bengalow.

– Quale via ha preso? chiese Tremal-Naik, che si era munito di un fucile a due colpi.

– Si è internato nella jungla. Cammina diritto su quel sentieruzzo e troverai le sue traccie. Va’ e corri, poiché il birbone deve essere molto lontano.

Tremal-Naik si gettò il fucile ad armacollo e partì di corsa dirigendosi verso la jungla. Bhârata lo seguiva collo sguardo, colla fronte aggrottata, come in preda ad un profondo pensiero.

– E se fosse vero? – si chiese egli d’un tratto. Una rapida contrazione sconvolse la sua faccia che aveva assunto un’aria tetra.

– Nysa! Nysa! – gridò.

Un indiano che stava presso alla feritoia, esaminando attentamente le traccie, accorse.

– Eccomi, sergente, gli disse.

– Hai esaminato bene le traccie? – gli domandò Bhârata.

– Sì, e molto attentamente.

– Ebbene, quanti uomini sono usciti dalla cantina?

– Uno solo.

Bhârata fece un gesto di sorpresa.

– Sei certo di non esserti ingannato?

– Certissimo, sergente. Negapatnan solo è uscito.

– Sta bene. Vedi tu quell’uomo che corre verso la jungla?

– Sì, è Saranguy.

– Seguilo: bisogna ch’io sappia dove si reca.

– Fidatevi di me, – rispose l’indiano.

Aspettò che Tremal-Naik fosse scomparso dietro gli alberi, indi partì rapido come un cervo, cercando di mantenersi nascosto dietro le macchie di bambù. Bhârata, soddisfatto, rientrò nel bengalow e raggiunse il capitano che camminava sulla terrazza con passo agitato, sfogando la sua collera con sorde imprecazioni.

– Dunque? – chiese, appena scorse il sergente.

– Siamo stati traditi, capitano.

– Traditi!… da chi?…

– Da Saranguy.

– Da Saranguy!… Da un uomo che mi salvò la vita!… È impossibile!…

– Ho le prove.

– Parla!

Bhârata in poche parole lo informò di ciò che era accaduto e di ci che aveva visto.

Il capitano Macpherson era al colmo della sorpresa.

– Saranguy traditore! – esclamò. – Ma perché non fuggì con Negapatnan?

– Non lo so, capitano, ma lo sapremo fra breve. Nysa ricondurrà il brigante.

– Se è vero ciò, lo faccio fucilare.

– Voi non farete nulla, capitano.

– Perché?

– Perché bisognerà farlo parlare. Quell’uomo ne saprà quanto Negapatnan.

– Hai ragione.

Il capitano si rimise a guardare verso la jungla. Bhârata volse i suoi sguardi verso il fiume, tendendo gli orecchi ai rumori del largo.

Passarono tre lunghe ore. Nessuno era ritornato, né erasi udito alcun grido, né alcuna detonazione.

Il capitano Macpherson, impazientito, stava per lasciare la terrazza per recarsi nella jungla, quando Bhârata gettò un grido di trionfo.

– Cosa c’è?

– Guardate laggiù, capitano,– disse il sergente.– Uno dei nostri che ritorna di corsa.

– È Nysa.

– Ma è solo. Che sia fuggito Saranguy?

– Non lo credo. Nysa non tornerebbe.

L’indiano veniva innanzi colla velocità di una freccia, volgendosi di frequente indietro, come temesse di essere seguito.

– Sali, Nysa! – gridò Bhârata.

– Affrettati, affrettati, – disse il capitano, che non istava più fermo. L’indiano infilò, senza arrestarsi, la scala ed arrivò ansante, trafelato, sulla terrazza. I suoi occhi brillavano di gioia.

– Ebbene? – chiesero ad un tempo il capitano e il sergente, correndogli incontro..

– Tutto è scoperto. Saranguy è un thug!

– Ah’… Non t’inganni? – chiese il capitano con voce sibilante.

– No, non m’inganno: ho le prove.

– Narra, Nysa, voglio saper tutto. Quel miserabile la pagherà anche per Negapatnan.

– Ho seguito le sue traccie fino alla jungla, – disse Nysa. – Colà le smarrii, ma non tardai a trovarle cento metri più innanzi.

Affrettai il passo ed in breve tempo lo scorsi. Camminava rapidamente ma con precauzione, volgendosi frequentemente indietro e appoggiando talvolta l’orecchio a terra.

Venti minuti dopo lo udii mandare un grido e vidi uscire da un cespuglio un indiano. Era un thug, un vero strangolatore col petto tatuato e i fianchi stretti da un laccio.

Non potei udire il dialogo che tennero, ma Saranguy, prima di separarsi disse forte al compagno: «Avvertirai Kougli che io torno al bengalow e che fra pochi giorni avrà la testa».

Si separarono prendendo due diverse vie. Io ne sapevo abbastanza e qui venni. Saranguy non deve essere molto lontano.

– Cosa vi diceva io, capitano? – chiese Bhârata.

Macpherson non rispose. Colle braccia convulsivamente incrociate sul petto, la faccia cupa, lo sguardo fiammeggiante, pensava.

– Chi è questo Kougli? – chiese egli ad un tratto.

– L’ignoro, – rispose Nysa.

– Senza dubbio un capo dei thugs, – disse Bhârata.

– Di quale testa parlava il miserabile?

– Non lo saprei, capitano. Egli non si spiegò di più.

– Che alludesse a una delle nostre?

– È probabile, – disse il sergente.

Il capitano divenne più cupo.

– Ho uno strano presentimento, Bhârata, – mormorò egli. – Parlava della mia testa.

– Ma noi invece manderemo la sua al signor Kougli.

– Lo spero. Cosa faremo di Saranguy?

– Bisognerà farlo parlare.

– E parlerà?

– Col fuoco si riesce a tutto.

– Tu sai che sono più cocciuti dei muli.

– Si tratta di farlo parlare, capitano? – chiese Nysa. – M’incarico io.

– Tu?…

– Basterà dargli da bere una limonata.

– Una limonata!… Tu sei pazzo, Nysa.

– No, capitano! – esclamò Bhârata. – Nysa non è pazzo. Ho udito anch’io parlare di una limonata che fa sciogliere la lingua.

 

– È vero, – disse Nysa. – Con poche goccie di limone mescolate col succo della youma ed una pallottolina d’oppio, si fa parlare qualsiasi persona.

– Va’ a preparare questa limonata, – disse il capitano. – Se riesci ti regalo venti rupie.

L’indiano non se lo fece dire due volte. Pochi istanti dopo ritornava con tre grandi tazze di limonata poste sopra un bellissimo tondo di porcellana chinese. In una aveva di già fatto sciogliere la pallottolina d’oppio e il succo della youma.

Era tempo. Tremal-Naik era apparso sull’orlo della jungla, seguito da tre o quattro cercatori di piste.

Dal loro aspetto, il capitano comprese che Negapatnan non era stato né preso, né scoperto.

– Non monta, – mormorò egli, – Saranguy parlerà. Stiamo in guardia, Bhârata, onde il mariuolo non sospetti nulla, e tu, Nysa, fa’ mettere immediatamente delle spranghe alla feritoia della cantina. Ne avremo bisogno fra poco.

Tremal-Naik giungeva allora dinanzi al bengalow.

– Ehi! Saranguy! – gridò Bhârata, chinandosi sul parapetto. – Come va? Abbiamo scoperto il birbone?

Tremal-Naik lasciò cadere lungo il corpo le braccia, con un gesto di scoraggiamento.

– Nulla, sergente, diss’egli. – Abbiamo perduto le traccie.

– Sali da noi; bisogna saper tutto.

Tremal-Naik, che nulla sospettava, non si fece ripetere l’invito e si presentò al capitano Macpherson, che si era seduto presso ad un tavolino colle limonate dinanzi. – Ebbene, mio bravo cacciatore, – chiese questi con un sorriso bonario; – il mariuolo non fu dunque trovato?

– No, capitano. Eppure l’abbiamo cercato dappertutto.

– Non avete nemmeno scoperto le sue traccie?

– Sì, le abbiamo scoperte e seguite per un bel tratto; poi non fu possibile ritrovarle. Pare che quel dannato Negapatnan abbia attraversato la foresta, passando di albero in albero.

– E non rimase alcuno nel bosco?

– Sì, quattro sipai.

– Fin dove sei andato tu?

– Fino all’estremità opposta della foresta.

– Devi essere stanco. Bevi questa limonata, che ti farà bene.

Così dicendo gli porse la tazza. Tremal-Naik la vuotò tutta d’un fiato.

– Dimmi un po’, Saranguy, – ripigliò il capitano, – credi tu che ci sieno dei thugs nella foresta?

– Non lo credo, – rispose Tremal-Naik.

– Non conosci tu nessuno di quegli uomini?

– Io conoscere… di quegli uomini! – esclamò Tremal-Naik.

– E perché no? Tu hai vissuto molto tempo fra i boschi.

– Non è vero.

– Eppure mi dissero che ti hanno veduto parlare con un indiano sospetto.

Tremal-Naik lo guardò senza rispondere. I suoi occhi a poco a poco si erano accesi e risplendevano come due carboni infiammati; la sua faccia era divenuta d’una tinta più cupa e i lineamenti gli si erano alterati.

– Che hai da dire? – dimandò il capitano Macpherson, con accento lievemente beffardo.

– Thugs! – balbettò il cacciatore di serpenti, agitando pazzamente le braccia e rompendo in uno scroscio di risa. – Io parlare con un thug?

– Attento, – mormorò Bhârata, all’orecchio del capitano. – La limonata fa il suo effetto.

– Orsù, parla, – incalzò Macpherson.

– Sì, mi ricordo, ho parlato con un thug sull’orlo della foresta. Ah!… ah!… E credevano che io cercassi Negapatnan. Che stupidi… ah!… ah!… Io inseguire Negapatnan? Io che tanto ho lavorato per farlo scappare… ah!… ah!…

E Tremal-Naik, in preda ad una specie di allegria febbrile, irresistibile, rideva come un ebete, senza più sapere cosa dicesse.

– Avanti, capitano! – esclamò Bhârata. – Sapremo tutto.

– Il miserabile è perduto, – disse il capitano.

– Calma, capitano, e giacché è in vena di parlare, stuzzichiamolo.

– Hai ragione. Olà, Saranguy…

– Saranguy! – interruppe bruscamente il povero ebbro, sempre ridendo.

– Non sono Saranguy io… Che stupido che sei, amico mio, a credere che io porti il nome di Saranguy. Io sono Tremal-Naik… Tremal-Naik della jungla nera, il cacciatore di serpenti. Non sei stato mai tu nella jungla nera? Tanto peggio per te; non hai visto nulla di bello. Oh che stupido che sei, che stupido!

– Sono proprio uno stupido, – disse il capitano, frenandosi a gran pena. – Ah! tu sei Tremal-Naik? E perché hai cangiato nome?

– Per allontanare ogni sospetto. Non sai che io volevo entrare al tuo servizio?

– E perché?

– I thugs così volevano. M’hanno donato la vita e mi daranno anche la vergine della pagoda… La conosci tu la vergine della pagoda? No, tanto peggio per te. È bella sai, molto bella. Farebbe impazzire Brahma, Siva e anche Visnù.

– E dov’è questa vergine della pagoda?

– Lontana di qui, molto lontana.

– Ma dove?

– Non te lo dico. Tu potresti rubarmela.

– E chi la tiene?

– I thugs, ma me la daranno in isposa. Io sono forte, coraggioso. Farò tutto ciò che essi vorranno per averla. Negapatnan intanto è liberato.

– Devi forse compiere qualche…

– Compiere?… Ah!… ah!… Devo… capisci, portare una testa… ah!… ah!… Mi fai ridere come un pazzo.

– Perché? – chiese Macpherson, che cadeva di sorpresa in sorpresa, nell’udire quelle rivelazioni.

– Perché la testa che devo troncare… ah!… ah!… È la tua!…

– La mia! – esclamò il capitano, balzando in piedi. – La mia testa?

– Ma… sì… sì… A Suyodhana!

– Chi è questo Suyodhana?

– Come? non lo conosci tu? È il capo dei thugs.

– E sai dove ha il suo covo?

– Sì, che lo so.

– Dove?

– A… a…

– Parla, dimmelo, – urlò il capitano balzandogli addosso e stringendogli furiosamente i polsi.

– Tanto curioso sei tu?

– Sì, sono curioso di saperlo.

– E se non volessi dirlo? —

Il capitano, in preda ad una tremenda eccitazione, lo afferrò a mezzo corpo e lo alzò.

– Sotto c’è il fiume, – gli disse. – Se non me lo dici ti getto giù.

– Tu vuoi burlarti di me. Ah!… ah!…

– Sì, è vero, voglio burlarmi di te. Dimmi dov’è Suyodhana.

– Che stupido che sei. Dove vuoi sia, se non è a Raimangal?

– Ah!… Ripetilo!… ripetilo!…

– A Raimangal t’ho detto.

Il capitano Macpherson gettò un grido, poi ricadde sulla sedia mormorando:

– Ada!… Oh! mia Ada! Sei salva finalmente!…

VII. I fiori che addormentano

Quando Tremal-Naik tornò in sé, si trovò rinchiuso in uno stretto sotterraneo illuminato da un piccolo spiraglio difeso da una doppia fila di grosse sbarre e solidamente legato a due anelli di ferro, infissi in una specie di colonna.

Dapprima si credette in preda ad un brutto sogno ma ben presto si convinse che era realmente prigioniero.

Una vaga paura s’impossessò allora di quell’uomo, che pur aveva dato tante prove di un coraggio sovrumano.

Cercò di riordinare le idee, ma nel suo cervello regnava una confusione che non riusciva a diradare. Si rammentava vagamente di

Negapatnan, della fuga di lui, della limonata, ma nulla di più.

– Chi può avermi tradito? – si chiese, rabbrividendo. – Cosa accadrà ora di me?

Cos’è questa nebbia che mi offusca il cervello?… Che mi abbiano ubbriacato con qualche bevanda a me sconosciuta?

Fece uno sforzo per alzarsi, ma subito ricadde; aveva udito aprirsi una porta.

– Chi scende qui? – chiese.

– Io, Bhârata, – rispose il sergente avanzandosi.

– Finalmente – esclamò Tremal-Naik. – Mi spiegherai ora per quale motivo lo mi trovo qui prigioniero.

– Perché ormai sappiamo che tu sei un thug.

– Io!… Un thug!…

– Sì, Saranguy.

– Tu menti!…

– No, hai parlato, hai tutto confessato.

– Quando?

– Poco fa.

– Tu sei pazzo, Bhârata.

– No, Saranguy, ti abbiamo dato da bere la youma e tu hai confessato ogni cosa.

Tremal-Naik lo guardò con ispavento. Si ricordava della limonata che il capitano gli aveva fatto bere.

– Miserabili! – esclamò con disperazione.

– Vuoi salvarti? – disse Bhârata, dopo un breve silenzio.

– Parla, – disse Tremal-Naik con voce rotta.

– Confessa tutto e forse il capitano ti farà grazia della vita.

– Non lo posso: ucciderebbero la donna che io amo.

– Chi?

– I thugs.

– Quale storia narri tu? Parla.

– È impossibile! – esclamò Tremal-Naik con accento selvaggio. – Sian tutti maledetti!

– Ascoltami, Saranguy. Ormai noi sappiamo che i thugs hanno la loro sede a Raimangal, ma ignoriamo e quanti siano e dove vivano. Se tu lo dici, chissà, forse non morrai.

– E cosa farete di tutti quei thugs? – chiese Tremal-Naik con voce strozzata.

– Li fucileremo tutti.

– Anche se fra essi vi fossero delle donne?

– Esse prima di tutti.

– Perché?… Quale colpa hanno?

– Sono più terribili degli uomini. Rappresentano la dea Kâlì.

– T’inganni, Bhârata! T’inganni!

– Tanto peggio. —

Tremal-Naik si prese la fronte fra le mani, conficcandosi le unghie nella pelle.

I suoi occhi erravano smarriti, il suo volto era pallidissimo, quasi cinereo, ed il petto gli si sollevava impetuosamente.

– Se si concedesse la vita ad una di quelle donne… forse parlerei.

– È impossibile, poiché prenderli vivi costerebbero torrenti di sangue. Li soffocheremo tutti, come bestie feroci, nei loro sotterranei.

– Ma ho una donna, una fidanzata! – esclamò Tremal-Naik con un accento disperato. – Vuoi tu, tigre, farla morire!… No, no, non parlerò. Uccidetemi, tormentatemi consegnatemi alle autorità inglesi, fate di me quello che volete, non parlerò.. I thugs sono numerosi e potenti, si difenderanno e forse salveranno colei che io tanto ho amato e che amo ancora.

– Una domanda ancora. Chi è questa donna?

– Non posso dirlo.

– Saranguy, – disse con voce alterata, – vuoi dirmi chi è quella donna?

– Mai.

– È bianca o abbronzata?

– Non te lo dirò.

– Sarà una fanatica come le altre.

Tremal-Naik non rispose.

– Sta bene, – ripeté il sergente. – Fra tre o quattro giorni ti condurremo a Calcutta.

Una viva commozione alterò i lineamenti del prigioniero, il quale guardò il sergente che usciva e la feritoia.

– Questa notte bisogna fuggire, – mormorò, – o tutto è perduto.

La giornata trascorse senza che qualche cosa di nuovo accadesse. A mezzodì e al tramonto fu portata al prigioniero un’ampia scodella di carri e una coppa di tody.

Appena il sole tramontò dietro le foreste e l’oscurità nella cantina divenne fitta, Tremal-Naik respirò. Stette cheto per tre lunghe ore, temendo che qualcuno improvvisamente entrasse, poi si mise alacremente all’opera per tentare l’evasione.

Gli indiani sono famosi nel legare le persone ed occorre una lunga pratica per sciogliere i loro nodi complicatissimi. Tremal-Naik per fortuna possedeva una forza prodigiosa e buoni denti.

Con una scossa allentò una corda che gl’impediva di curvare la testa poi, pazientemente, non badando al dolore, avvicinò uno dei polsi alla bocca e si mise a lavorare coi denti, tagliando, segando, sfilacciando.

Riuscito a tagliare la corda, sbarazzarsi degli altri legami fu per lui l’affare d’un sol momento.

S’alzò stiracchiandosi le membra indolenzite, s’avvicinò poscia alla feritoia e guardò fuori.

La luna non era ancora sorta, ma il cielo era splendidamente stellato.

Buffi d’aria fresca e imbalsamata dal profumo di mille diversi fiori, entravano per la feritoia.

Nessun rumore veniva dal di fuori, né persona umana scorgevasi sulla fosca linea dell’orizzonte.

Il prigioniero afferrò una delle sbarre e la scosse furiosamente; la curvò ma non la spezzò.

– La fuga per di qui è impossibile, – mormorò.

Si guardò attorno cercando un oggetto qualsiasi che potesse aiutarlo a svellere le spranghe, ma non ne trovò alcuno.

– Sono perduto, – mormorò, con ispavento. – Eppure non voglio morire, non voglio scendere nella tomba ora che la felicità è vicina.

S’avvicinò alla porta, ma s’arrestò di botto. Un sordo mugolìo, che veniva dal di fuori, era giunto improvvisamente fino a lui.

Volse la testa verso la feritoia e la vide occupata da una massa oscura in mezzo alla quale brillavano due punti luminosi, verdognoli.

Una speranza gli attraversò il cervello.

– Darma!… Darma!… – mormorò con voce tremante per l’emozione.

La tigre emise un secondo brontolìo, scuotendo le spranghe di ferro. Il prigioniero s’avventò verso la feritoia, afferrando le zampe della fedele bestia.

 

– Sono salvo! – esclamò egli. – Brava Darma, lo sapevo che tu saresti venuta a trovare il tuo padrone. Ora non temo più il capitano né il suo sergente.

Lasciò la feritoia e corse in un angolo dove aveva visto un brano di carta. Lo pulì accuratamente, si morse un dito facendo uscire alcune goccie di sangue e con una scheggia strappata al palo scrisse rapidamente e come lo permettevano le tenebre, le seguenti righe:

Sono stato tradito e rinchiuso nella prigione di Negapatnan.

Soccorretemi prontamente o tutto è perduto.

Tremal-Naik

Arrotolò la cartolina, tornò alla feritoia, la legò con una cordicella al collo della tigre.

– Corri, Darma, ritorna dai thugs, – le disse: – Il tuo padrone corre un gran pericolo.

La fiera scosse la testa e partì colla rapidità di una freccia.

– Va’, – diceva l’indiano, seguendola cogli occhi.– Essi comprenderanno quale pericolo io corro e verranno a salvarmi o mi daranno almeno un mezzo qualsiasi per evadere.

Passò una lunga ora. Tremal-Naik aggrappato convulsivarnente alle sbarre, attendeva ansiosamente il ritorno, in preda a mille timori.

D’un tratto nel fondo della pianura scorse la tigre che s’avvicinava con balzi giganteschi.

– Se la scoprissero? mormorò, tremando.

Fortunatamente Darma poté giungere fino alla feritoia senza essere stata scoperta dalle sentinelle. Al collo portava un grosso involto che Tremal-Naik, con gran pena, riuscì a far passare tra le sbarre.

L’aperse. Conteneva una lettera, una rivoltella, un pugnale, delle munizioni, un laccio e due mazzolini di fiori accuratamente rinchiusi in due vasi di cristallo.

– Cosa significano questi fiori? – si domandò, sorpreso.

Aprì la lettera, la espose ad un raggio di luna che penetrava per la feritoia e lesse:

Siamo circondati da alcune compagnie di sipai, ma uno dei nostri segue Darma.

Grandi pericoli ci minacciano e la tua evasione è necessaria.

Unisco alle armi due mazzi di fiori. I bianchi addormentano, i rossi combattono l’efficacia dei bianchi.

Addormenta le sentinelle e tieni ben appresso i rossi. Una volta libero, espugna l’abitazione e tronca la testa del capitano. Nagor segnalerà la sua presenza col noto fischio e ti presterà man forte. Affrettati.

Kougli

Forse qualche altro si sarebbe spaventato nel leggere quella lettera, ma non così Tremal-Naik. In quel momento supremo si sentiva tanto forte da espugnare la casa anche senza l’aiuto di Nagor.

– L’amore mi darà la forza e il coraggio per operare il miracolo, – aveva detto egli.

Nascose le armi e le munizioni sotto un mucchio di terra e tornò alla feritoia.

– Vattene, Darma, – le disse. – Tu corri un gran pericolo.

La tigre s’allontanò, ma non aveva fatto venti passi che s’udì una delle sentinelle gridare:

– La tigre!… La tigre!…

Vi tenne dietro un colpo di fucile.

Un’altra detonazione rimbombò, ma la brava bestia aveva raddoppiata corsa e in breve tempo fu fuori di vista.

S’udì un rumore di passi precipitati ed alcuni uomini s’arrestarono dinanzi alla feritoia.

– Ehi! – esclamò una voce che Tremal-Naik riconobbe per quella di Bhârata. – Dov’è la tigre?

– È scappata, – rispose la sentinella che stava nella veranda.

– Dov’era?

– Presso la feritoia.

– Scommetterei cento rupie contro una, che è un’amica di Saranguy.

Presto, due uomini nella cantina o il briccone ci sfugge.

Tremal-Naik aveva udito tutto. Prese i due vasi, li spezzò, gettò i fiori bianchi nell’angolo più oscuro, nascose i rossi in seno e si sdraiò addosso al palo, accomodandosi attorno al corpo le corde e stringendole meglio che poté.

Era tempo! Due sipai armati e muniti d’una torcia resinosa entrarono.

– Ah! – esclamò uno. – Ci sei ancora, Saranguy?

– Chiudi il becco che io voglio dormire, – disse Tremal-Naik fingendosi di cattivo umore.

– Puoi dormire, mio caro, e con tutta tranquillità poiché noi veglieremo.

Tremal-Naik alzò le spalle, s’appoggiò al palo e chiuse gli occhi. I due sipai, piantata la fiaccola in una spaccatura della parete, si sedettero per terra colle carabine fra le ginocchia.

Erano trascorsi appena pochi minuti quando Tremal-Naik avvertì un acuto profumo che davagli alla testa, malgrado i fiori rossi che tramandavano un profumo non meno acuto e affatto speciale.

Guardò i due sipai: sbadigliavano in modo tale da temere che si slogassero le mascelle.

– Provi nulla tu? – chiese il soldato più giovane, dopo qualche tempo.

– Sì, – rispose il compagno. – Mi pare d’essere…

– Ubbriaco, vuoi dire.

– Proprio così, e mi sento prendere da una voglia irresistibile di chiudere gli occhi.

– Da cosa provenga ciò?

– Non lo saprei.

– Che ci sia qualche manzanillo presso di noi?

– Non ne ho veduto nel parco.

La conversazione cadde lì. Tremal-Naik, che stava attento, li vide chiudere a poco a poco gli occhi, riaprirli tre o quattro volte, poi richiuderli. Lottarono ancora per qualche minuto, poi caddero pesantemente a terra, russando sonoramente.

Era il momento d’agire. Tremal-Naik si strappò di dosso i legami e silenziosamente s’alzò.

– La libertà…! esclamò.

Andò a prendere le armi, legò solidamente i due addormentati e slanciossi verso la scala.