Za darmo

I misteri della jungla nera

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PARTE SECONDA

I. Il capitano Macpherson

Era una magnifica notte d’agosto, una vera notte tropicale.

L’aria era tiepida, dolce, elastica, imbalsamata dal soave profumo dei gelsomini, degli sciambaga, dei mussenda e dei nagatampo. Lassù, in un cielo purissimo, d’un azzurro d’indaco, punteggiato da miriadi di scintillanti stelle, l’astro delle notti serene seguiva il suo corso, illuminando fantasticamente la corrente dell’Hugly, la quale svolgevasi come un immenso nastro d’argento, fra le interminabili pianure del delta gangetico.

Schiere di marabù volteggiavano sopra la corrente, posandosi sull’una o sull’altra riva, ai piedi dei cocchi, degli artocarpi, dei banani e dei tamarindi, che curvavansi graziosamente sulle onde.

Un silenzio funebre, misterioso, regnava ovunque, rotto di quando in quando da una folata d’aria, che faceva stormire le fronde degli alberi, dall’urlo acutissimo, malinconico dello sciacallo, che vagava sulle rive del fiume, e dal gracidare dei corvi e dei marabù.

Quantunque l’ora fosse assai inoltrata, e quantunque mille pericoli s’aggirassero fra le ombre della notte, un uomo stava sdraiato ai piedi di un grande tamarindo.

Poteva avere trentacinque o trentasei anni e portava la divisa di capitano dei sipai, ricca d’ornamenti d’oro e d’argento. Era di statura alta, di complessione robusta, di carnagione bronzina ma assai meno carica di quella degli indiani. Si indovinava l’europeo, da lunghi anni esposto ai calori del sole tropicale.

Il suo volto era fiero, ornato d’una lunga barba nera, ma la sua fronte era solcata da precoci rughe. Gli occhi erano grandi, melanconici, ma che talvolta scintillavano d’ardire.

Non fiatava, ma di tanto in tanto alzava la testa, guardava fissamente la grande fiumana e faceva un moto d’impazienza.

Era già trascorsa mezz’ora, quando in lontananza rimbombò una detonazione. Il capitano allungò la destra ad una ricca carabina rabescata. incrostata di argento e di madreperla, s’alzò rapidamente in piedi e scese sulla riva aggrappandosi alle radici del tamarindo le quali uscivano, come serpenti, da terra. Al nord era apparso un punto nero che andava gradatamente avvicinandosi; attorno ad esso l’acqua scintillava come fosse percossa da dei remi.

– Eccoli, – mormorò.

Alzò la carabina al disopra della sua testa e sparò. Un lampo balenò sul punto nero e una terza detonazione echeggiò.

– Tutto va bene – ripigliò il capitano. – Spero questa volta di sapere qualche cosa.

Una commozione dolorosa scompose i suoi lineamenti, ma fu rapida come un lampo.

Tornò a guardare il punto nero. Era di già assai ingrandito ed aveva preso l’aspetto di una barca, la quale scendeva in fretta, sotto la spinta di una mezza dozzina di remi. A bordo si vedevano sette od otto uomini armati.

In capo a dieci minuti la barca, uno svelto e bellissimo mur-punky, condotto da sei indiani muniti di lunghe pagaie e guidata da un sergente dei sipai, giunse a poche braccia dalla riva. Con pochi colpi di remo s’incagliò profondamente fra le erbe. Il sergente balzò lestamente a terra, salutando militarmente.

– Conducete il mur-punky nel piccolo seno, – disse il capitano agli indiani. – E tu Bhârata, vieni con me.

Il mur-punky prese il largo. Il capitano condusse l’indiano sotto il tamarindo e si sdraiarono entrambi fra le erbe.

– Siamo soli, capitano Macpherson? – chiese il sergente.

– Assolutamente soli, – rispose il capitano. – Puoi narrare ogni cosa, senza temere che altri possano udirci.

– Fra un’ora Negapatnan sarà qui.

Un flusso di sangue imporporò il viso del capitano.

– L’hanno preso adunque? – esclamò con viva emozione. – Credeva che mi avessero ingannato.

– È proprio vero, capitano. Il miserabile era rinchiuso da una settimana nei sotterranei del forte William.

– Sono certi che sia uno strangolatore?

– Certissimi, anzi è uno dei capi più potenti.

– Ha confessato nulla?

– Nulla, capitano; eppure gli fecero patire la fame e la sete.

– Come fu preso?

– Il birbone s’era nascosto nei dintorni del forte William e là attendeva la sua preda. Sei soldati erano di già caduti sotto il suo infallibile laccio, ed i loro cadaveri erano stati trovati nudi e col misterioso tatuaggio sul petto. Il capitano Hall, sette giorni or sono, si metteva in campagna con alcuni sipai, risoluto a scovare l’assassino. Dopo due ore d’infruttuose ricerche, si fermava sotto la fresca ombra di un borasso per riposarsi un po’. D’improvviso senti un laccio piombargli sulla testa e stringergli il collo. Balzò in piedi afferrando strettamente la corda e si scagliò sullo strangolatore chiamando aiuto. I sipai erano poco discosti. Piombarono sull’indiano che si dibatteva furiosamente, ruggendo come un leone, e lo atterrarono.

– E fra un’ora quell’uomo sarà qui? – chiese il capitano Macpherson.

– Sì, capitano, – rispose Bhârata.

– Finalmente!

– Volete sapere qualche cosa da lui?

– Sì, esclamò il capitano, diventando assai triste.

– Voi avete qualche gran dolore che cercate di nascondermi, capitano Macpherson, – disse il sergente.

– È vero, Bhârata, – rispose Macpherson con voce sorda.

– Perché non raccontarmi tutto? Forse potrei esservi più utile.

Il capitano non rispose. Era divenuto assai cupo e il suo sguardo era diventato umido.

Si capiva che un atroce dolore, in quel momento aveva accasciato il suo forte animo.

– Capitano, – disse il sergente, commosso da quell’improvviso cambiamento. – Ho forse risvegliati nella vostra mente dei dolorosi ricordi? Perdonatemi, non lo sapeva.

– Non ho nulla da perdonarti, mio buon Bhârata, rispose Macpherson, stringendogli fortemente la mano. – È giusto che tu sappi tutto.

S’alzò, fece tre o quattro passi colla testa china sul petto e le braccia strettamente incrociate, poi tornò a sedersi accanto al sergente. Una lagrima gli rotolò silenziosamente dalle abbronzate gote.

– Correva l’anno 1853, – diss’egli con voce che invano sforzavasi di rendere ferma. – Mia moglie era morta da parecchi anni, uccisa dal cholera e m’aveva lasciato una fanciulla, bella quanto un bottoncino di rosa, coi capelli neri, gli occhi grandi, dolci e scintillanti come diamanti. Mi ricordo ancora quando saltellava per gli ombrosi viali del parco, inseguendo le farfalle; ricordo ancora quelle sere, quand’ella, assisa a me d’accanto, all’ombra di un grande tamarindo, mi suonava il sitar e mi cantava le canzoni della mia lontana Scozia. Oh! come ero felice a quei tempi… Ada, mia povera Ada!…

Uno scoppio di pianto soffocò la sua voce. Si nascose il capo fra le mani e per qualche minuto Bhârata lo udi singhiozzare come un fanciullo.

– Capitano, coraggio, – disse il sergente.

– Sì, coraggio, – mormorò il capitano tergendosi, quasi con rabbia, le lagrime. – Era tanto tempo che non piangeva. Ciò mi fa bene, qualche volta.

– Continuate, se non vi dispiace.

– Hai ragione, – disse Macpherson, con voce rotta.

Stette alcuni istanti in silenzio, come penasse a riaversi da quel fiero colpo, poi continuò:

– Una mattina la popolazione di Calcutta era in preda ad un vivo sgomento. I thugs, o strangolatori che dir si voglia, avevano affisso su pei muri e sui tronchi d’albero dei manifesti, coi quali avvertivano gli abitanti che la loro dea chiedeva una ragazza per la sua pagoda. Senza sapere il perché, fui preso da un grande tremito; presagii che una disgrazia mi stava vicina.

Feci imbarcare, la sera stessa, mia figlia e la rinchiusi entro le mura del forte William, sicuro che i thugs non sarebbero giunti fino a lei. Tre giorni dopo, non lo crederai, la mia Ada si svegliava col tatuaggio degli strangolatori sulle braccia.

– Ah! – esclamò Bhârata, impallidendo. – E chi fu a tatuarla?

– Non lo seppi mai.

– Un thug era adunque penetrato nel forte?

– Così deve essere.

– Hanno degli affigliati fra i nostri sipai, forse?

– La loro setta è immensa, Bhârata, ed ha degli affigliati in tutta l’India, nella Malesia e persino in China.

– Avanti, capitano.

– Io che non aveva sino allora conosciuta la paura, quel giorno l’ebbi a provare. Compresi che mia figlia era stata scelta dalla mostruosa dea e raddoppiai la vigilanza. Mangiavamo assieme, dormivo nella stanza attigua, avevo sentinelle che vegliavano dì e notte dinanzi alla sua porta. Tutto fu inutile, una notte mia figlia scomparve.

– Vostra figlia scomparve! Ma come?

– Una finestra era stata sfondata, gli strangolatori erano entrati e l’avevano rapita. Gli affigliati avevano versato un potente narcotico nel nostro vino e nessuno udì nulla, né s’accorse di nulla.

Il capitano in preda a una indicibile emozione, si arrestò.

– La cercai per lunghi anni, – prosegui dopo qualche minuto di dolorosa tregua, – ma non riuscii a trovare nemmeno le sue traccie. Gli strangolatori l’avevano trascinata nel loro inaccessibile covo. Cangiai nome assumendo quello di Macpherson, per meglio agire ed intrapresi una campagna terribile, spietata contro di loro. Centinaia di quegli uomini caddero nelle mie mani e li feci morire fra i più atroci tormenti, sperando di strappare a loro una confessione che mi mettesse sulle traccie della mia povera Ada, ma tutto fu vano. Quattro lunghi anni sono scorsi e mia figlia è ancora nelle mani di quegli uomini…

Il capitano non si frenò più e per la seconda volta scoppiò in singhiozzi.

In lontananza s’udìuno squillo di tromba. Tutti e due s’alzarono precipitosamente, correndo verso il fiume.

– Eccoli! – gridò Bhârata.

Dalle labbra del capitano Macpherson uscì come un sordo ruggito e ne’ suoi occhi guizzò un lampo di feroce gioia.

Discese la riva e scorse, a cinque o seicento metri di distanza, un gran canotto che scendeva con grande rapidità la fiumana. A bordo si scorgevano alcuni sipai colle baionette inastate sulle carabine.

 

– Lo vedi? – chiese egli coi denti stretti.

– Sì, capitano, – rispose Bhârata.

– È seduto a poppa, fra due sipai e bene incatenato.

– Presto! presto! – gridò il capitano.

Il gran canotto raddoppiò di velocità e venne ad arenarsi presso il capitano. Sei sipai, coi volti abbronzati e fieri, col caschetto, il collare ed i polsini ricamati in oro e argento, sbarcarono.

Dietro a loro discesero altri due sipai, tenendo fortemente stretto per le braccia lo strangolatore Negapatnan.

Era questi un indiano alto quasi sei piedi, magro ed agile. La sua faccia era truce, barbuta, cuprea ed i suoi occhi piccoli brillavano come quelli di un serpente in collera.

In mezzo al petto aveva tatuato in azzurro, il serpente colla testa di donna, circondato da molti segni indecifrabili. Un piccolo dubgah di seta gialla cingevagli i fianchi e una specie di turbante pure di seta gialla, sormontato da un diamante grosso come una nocciola, coprivagli il capo perfettamente rasato e unto d’olio di cocco.

Nello scorgere il capitano Macpherson trasalì, ed una profonda ruga si disegnò sulla sua fronte.

– Mi conosci? – chiese il capitano, a cui non era sfuggito quel trasalimento per quanto fosse stato rapido.

– Tu sei il padre della vergine della pagoda sacra – rispose l’indiano.

Una vampa salì in volto al capitano.

– Ah! Tu sai questo! – esclamò.

– Sì, so che tu sei il capitano Harry Corishant.

– No, il capitano Harry Macpherson.

– Sì, giacché hai cambiato nome.

– Sai perché ti feci qui condurre?

– Suppongo che sia per farmi parlare, ma sarà un tentativo vano.

– Questo è affar mio. Alla villa, miei prodi, e state in guardia. I thugs possono esserci vicini.

Il capitano Macpherson raccolse la carabina, l’armò e si mise alla testa della piccola colonna, prendendo un sentiero aperto fra una foresta di nagatampi, bellissimi alberi, dei cui fiori si ornano le eleganti del Bengala ed il cui legno è tanto duro che gli valse il nome di legno di ferro. Avevano già percorso un quarto di miglio, senza trovare alcuno, quando nel mezzo del bosco s’udì il lamentevole urlo dello sciacallo.

Lo strangolatore Negapatnan a quel grido alzò vivamente la testa e lanciò un rapido sguardo sotto le foreste. I sipai che camminavano ai suoi fianchi, fecero udire una sorda esclamazione.

– State in guardia, capitano, – disse Bhârata. – Il thug ha avvertito qualche cosa.

– Forse la presenza di amici?

– Può essere.

Il medesimo grido si fece udire, ma più forte di prima. Il capitano Macpherson si volse a destra del sentiero.

– Tuoni e fulmini! – esclamò. – Questo non è uno sciacallo.

– State in guardia, – ripeté il sergente. – È un segnale.

– Allunghiamo il passo.

Il drappello riprese le mosse, colle carabine rivolte ai due lati del sentiero.

Dieci minuti dopo giungeva, senz’altro, dinanzi alla fattoria del capitano Macpherson.

II. Negapatnan

La villa del capitano Harry Macpherson, sorgeva sulla riva sinistra dell’Hugly, dinanzi ad un piccolo seno nel quale galleggiavano parecchi gonga e qualche mur-punky.

Era una di quelle palazzine che chiamansi in India bengalow, elegante, comodissima, ad un solo piano, alzata sopra un basamento di mattoni e sormontata da un tetto piramidale. Una galleria sostenuta da colonne, chiamata varanga, e che terminava in un’ampia terrazza, le girava attorno riparata da fitte stuoie di coccottiero.

A destra ed a sinistra si estendevano bassi fabbricati e tettoie, destinate per le cucine, per le rimesse, per le scuderie e pei sipai, ombreggiate da tara, da latania e da non pochi pipal e nim, alberi dal tronco enorme e dal fogliame fitto e cupo, che oggi sono in gran parte scomparsi nelle grandi pianure del delta gangetico.

Il capitano Macpherson entrò nella palazzina lasciando i sipai alla porta, percorse una lunga fila di stanze ammobiliate semplicemente ma eleganti, con seggioloni immensi e tavole e tavolini di acajù e salì sulla terrazza riparata da una grande tenda. Bhârata non tardò a raggiungerlo trascinando a viva forza lo strangolatore Negapatnan.

– Siedi e discorriamo, – disse il capitano, indicando allo strangolatore un sedile di sottili bambù intrecciati.

Negapatnan ubbidì facendo stridere le catene che gli imprigionavano i polsi. Bhârata si collocò al suo fianco, mettendosi dinanzi un paio di pistole.

– Tu adunque hai detto di conoscermi, – disse il capitano Macpherson, fissando sull’indiano uno sguardo acuto come la punta d’uno spillo.

– Ti dissi che tu sei il capitano Harry Corishant, – rispose lo strangolatore, – il padre della vergine della pagoda sacra.

– Come mi conosci?

– Ti vidi parecchie volte a Calcutta. Una notte anzi ti seguii, sperando di strangolarti, ma il colpo non mi riuscì.

– Miserabile! – esclamò il capitano, pallido d’ira.

– Non irritarti per sì poco, – disse lo strangolatore, sorridendo.

– Ti ricordi tu, la notte che mia figlia fu rapita?

– Come fosse ieri. Era la notte del 24 agosto 1853. Negapatnan fu sempre alla testa di tutte le imprese dei thugs, – disse l’indiano con orgoglio. – Fui io a sfondare la finestra ed a rapire tua figlia.

– Ma non tremi tu, a narrare simili cose al padre di quell’infelice?

– Negapatnan giammai tremò.

– Ma io ti infrangerò come una canna.

– E i thugs infrangeranno te come un giovane bambù.

– È questo che io voglio vedere.

– Capitano Corishant, – disse gravemente lo strangolatore, – al disopra dei dominatori dell’India v’è una potenza occulta e terribile che nulla teme. Le teste coronate si curvano sotto il soffio della dea Kâlì, nostra signora. Trema!

– Se Negapatnan giammai tremò, il capitano Macpherson giammai ebbe paura.

– Me lo dirai il giorno in cui il laccio di seta ti stringerà la gola.

– E tu me lo dirai il giorno in cui il ferro rovente calcinerà le tue carni.

– È per farmi morire fra le torture, che m’hai fatto qui condurre?

– Sì, se non tradisci il segreto dei thugs. Solo a questo patto puoi salvare la vita.

– Ah! tu vuoi farmi parlare? E su cosa?

– Sono il padre di Ada Corishant.

– Ebbene?

– Non ho perduta ancora la speranza di riaverla fra le mie braccia.

– Continua.

– Negapatnan, – disse il capitano con voce vivamente commossa. – Hai mai avuto una figlia tu?

– Oh! mai! – esclamò lo strangolatore.

– Hai mai amato almeno?

– Mai, fuorché la mia dea.

– Io l’amo quella mia povera figlia, al punto che darei tutto il mio sangue per la sua libertà. Negapatnan, dimmi dov’è, dimmi dove io possa trovarla.

L’indiano rimase impassibile come una statua di bronzo.

– Io ti donerò la vita, Negapatnan. – L’indiano ancora tacque.

– Io ti darò quanto oro tu vorrai, e ti condurrò in Europa onde sottrarti alla vendetta dei compagni. Ti farò dare un grado nell’esercito inglese, ti aprirò la strada per salire in alto, ma dimmi dov’è la mia Ada.

– Capitano Macpherson, – disse lo strangolatore, torvo in volto.– Il tuo reggimento non ha una bandiera?

– Si, e perché tale domanda?

– Non hai giurato fedeltà a quella bandiera?

– Sì.

– Saresti tu capace di tradirla?

– Oh mai!

– Ebbene, io ho giurato fedeltà alla mia dea, che è la mia bandiera. Né la libertà che tu mi prometti, né il tuo oro, né gli onori scrolleranno la mia fede. Io non parlerò!

Il capitano Macpherson s’era alzato raccogliendo da terra uno scudiscio. Era diventato rosso come una brace, ed i suoi occhi sfolgoravano di rabbia.

– Mostruoso rettile! – esclamò furente.

– Non toccarmi con quella frusta, ché discendo da un ragià, – gridò lo strangolatore torcendo le catene.

Il capitano Macpherson, per tutta risposta alzò lo scudiscio e tracciò sul volto del prigioniero un solco sanguinoso. Un ruggito di belva uscì dalle labbra dello strangolatore.

– Uccidimi, – disse con un tono di voce che più nulla aveva d’umano.– Uccidimi, perché se non lo fai ti strapperò le carni dalle ossa brano a brano.

– Sì, mostro, ti ucciderò, non aver timore, ma lentamente, goccia a goccia. Bhârata, trascinalo nel sotterraneo.

– Devo torturarlo? – chiese il sergente.

Il capitano Macpherson esitò.

– Non ancora, – disse poi. – Lo lascierai ventiquattro ore senz’acqua e senza cibo tanto per incominciare.

Bhârata afferrò lo strangolatore a mezzo corpo e lo trascinò via, senza che questi opponesse resistenza.

Il capitano Macpherson, gettando lungi da sé lo scudiscio, si era messo a passeggiare per la terrazza a passi concitati, cupo, meditabondo.

– Pazienza, – diss’egli coi denti stretti. – Quell’uomo tutto mi confesserà, dovessi strappargli ogni parola a colpi di ferro rovente.

D’un tratto s’arrestò alzando vivamente la testa. Da uno dei recinti era partito un formidabile barrito, proprio dell’elefante quando sente l’avvicinarsi d’un nemico.

– Oh! – esclamò egli. – Il barrito di Bhagavadi.

Si curvò sul parapetto della terrazza. I cani del bengalow fecero udire i loro latrati ed al di sopra di un recinto comparve la gigantesca tromba di un elefante, la quale emise un secondo barrito ancor più forte.

Quasi nello stesso tempo, a un trecento metri dal bengalow, si slanciò nell’aria una massa nera, dotata d’una straordinaria agilità, che subito ricadde nascondendosi fra le erbe.

Il capitano non riuscì, stante l’incerto chiarore, a distinguere che cosa fosse.

– Olà! – gridò egli.

Il sipai che vegliava sotto la tettoia, uscì colla carabina sotto il braccio.

– Capitano, – diss’egli, volgendo all’insù la faccia.

– Hai visto nulla?

– Sì, capitano.

– Era uomo o bestia?

– Mi parve un animale. Si alzò a trecento metri da qui.

La massa nera di prima tornò a spiccare un salto. Il sipai mandò un grido di terrore.

– La tigre!…

Il capitano si slanciò verso la sua carabina, l’armò e sparò dietro all’animale che fuggiva, con salti giganteschi, verso la jungla.

– Maledizione! – esclamò con rabbia.

Il felino alla detonazione s’era arrestato, facendo udire un sordo mugolìo, poi s’internò fra i bambù con maggiore rapidità.

– Cosa succede? – chiese Bhârata, precipitandosi nella terrazza.

– Abbiamo una tigre nei dintorni, – rispose il capitano.

– Una tigre! È impossibile, capitano!

– L’ho vista coi miei propri occhi.

– Ma se le abbiamo tutte distrutte!

– Pare che una sia sfuggita alle nostre carabine.

– L’avete colpita almeno?

– Non lo credo.

– Quell’animale ci darà fastidio, capitano.

– Per poco, te lo prometto. Non amo simili vicini.

– La caccieremo adunque?

Il capitano guardò l’orologio.

– Sono le tre. Fra un’ora conto di salire su Bhagavadi e fra due d’avere la pelle della tigre.

III. Il salvatore

All’oriente cominciava ad albeggiare, quando il capitano Macpherson e Bhârata discesero nel cortile del bengalow.

Erano armati tutti e due con carabine di lunga portata e di grosso calibro, di pistole e di coltellacci colla lama larghissima ed a doppio taglio. Un sipai li seguiva, portando altre due carabine di ricambio ed alcune picche.

In pochi minuti raggiunsero il recinto sulla cui soglia barriva fragorosamente Bhagavadi, circondato da una mezza dozzina di mahuts, o conduttori d’elefanti.

Bhagavadi era uno dei più grandi e più belli coomareah che fosse dato d’incontrare sulle rive del Gange. Era meno alto d’un elefante merghee ma più vigoroso, dotato d’una potenza straordinaria, con un corpo massiccio, gambe corte e tozze, una tromba assai sviluppata e due magnifici denti aguzzi, arcuati all’insù.

Sul dorso gli era già stata accomodata l’hauda, specie di navicella nella quale prendono posto i cacciatori, solidamente assicurata con corde e catene.

– Siamo pronti? chiese il capitano Macpherson.

– Non manca che di partire, – rispose il capo dei mahuts.

– I battitori?

– Sono di già sul limitare della jungla, coi cani.

Uno dei più abili mahuts si collocò sul collo di Bhagavadi, armato di un grosso uncino e di una lunga picca.

Il capitano Macpherson, Bhârata ed il sipai, fattasi calare la scala, presero posto nell’hauda, portando con loro le armi.

 

Il segnale della partenza fu dato nel momento che il sole sorgeva dietro il bosco dei borassi, illuminando d’un sol colpo la fiumana e le sue sponde.

L’elefante camminava con passo spedito, eccitato dalla voce del mahut, fracassando, stritolando, sotto le enormi zampe le radici e gli arbusti, ed abbattendo con un vigoroso colpo di proboscide gli alberi o i bambù che gli sbarravano la via.

Il capitano Macpherson, sul dinanzi dell’hauda, con una carabina in mano, spiava attentamente i gruppi di piante e le alte erbe, in mezzo alle quali poteva celarsi la tigre.

Un quarto d’ora dopo essi giungevano sul margine della jungla, irta di bambù e di ammassi di cespugli spinosi. Sei sipai, muniti di lunghe pertiche ed armati di scuri e di fucili, li aspettavano con un branco di piccoli cani, miserabili botoli all’apparenza, ma molto coraggiosi in realtà, indispensabili per cacciare il terribile felino.

– Quali nuove? – chiese il capitano, curvandosi sull’hauda.

– Abbiamo scoperto le traccie della tigre, – rispose il capo dei battitori.

– Fresche?

– Freschissime; la tigre è passata di qui mezz’ora fa.

– Allora entriamo nella jungla. Lasciate i cani.

I botolini, liberati dal guinzaglio, si slanciarono animosamente in mezzo ai bambù, dietro le traccie della tigre, abbaiando con furore. Bhagavadi, dopo di aver fiutato colla proboscide tre o quattro volte l’aria a diverse altezze, s’addentrò nella jungla, sfondando col suo petto la massa di verzura.

– Sta’ bene attento Bhârata, – disse Macpherson.

– Avete scorto qualche cosa, capitano? – chiese il sergente.

– No, ma la tigre può essere tornata sui propri passi ed essersi imboscata fra i bambù. Tu sai che quegli animali sono astuti, e che non temono di assalire l’elefante.

– In tal caso avrà da fare con Bhagavadi. Non è la prima tigre che egli calpesta sotto le sue zampaccie o che scaglia in aria a fracassarsi le membra contro qualche albero. L’avete veduto voi, l’animale?

– Sì, e posso dirti che era proprio gigantesco. Non mi ricordo d’aver visto una tigre così grossa né così agile; faceva balzi di dieci metri.

– Oh! – esclamò l’indiano. – Con un salto arriverà fino all’hauda.

– Se la lascieremo avvicinare.

– Tacete, capitano.

In lontananza s’udirono i cani ad abbaiare furiosamente e qualche guaito lamentevole. Bhârata si sentì correre un brivido per le ossa.

– I cani l’hanno scoperta, diss’egli.

– E qualcuno è stato sventrato, – aggiunse il sipai che aveva preso le carabine, pronto a passarle ai cacciatori.

Uno stormo di pavoni s’alzò a circa cinquecento metri e volò via mandando grida di terrore.

– Uszaka? – gridò il capitano, facendo una specie di portavoce colle mani.

– Attenzione, capitano! – rispose il capo dei battitori. – La tigre è alle prese coi cani.

– Fa’ suonare la ritirata.

Uszaka accostò al naso il bansy, sorta di flauto, e soffiò con forza emettendo una nota acuta.

Tosto si videro i sipai tornare precipitosamente e correre a rifugiarsi dietro all’elefante.

– Animo, – disse il capitano al mahut, – conduci l’elefante dove abbaiano i cani. E tu, Bhârata, guarda bene alla tua sinistra mentre io guardo alla dritta. Può darsi che dobbiamo combattere più di un avversario.

Gli abbaiamenti continuavano ognor più furiosi, segno infallibile che la tigre era stata scoperta. Bhagavadi affrettò il passo movendo intrepidamente verso una grande macchia di bambù tulda, in mezzo alla quale s’erano cacciati i botoli.

A cento passi di distanza fu trovato uno dei cani orrendamente sventrato da un poderoso colpo d’artiglio. L’elefante cominciò a dare segni d’inquietudine, agitando vivamente la proboscide dall’alto in basso.

– Bhagavadi la sente, – disse Macpherson. – Sta’ bene attento mahut e bada che l’elefante non dia indietro o che esponga troppo la sua tromba. La tigre gliela sbranerà come l’anno scorso. – Rispondo di tutto, padrone.

Fra i bambù s’alzò un formidabile ruggito a cui nessun grido è paragonabile. Bhagavadi s›arrestò fremendo ed emettendo sordi barriti.

– Avanti! – gridò il capitano Macpherson, le cui dita si raggrinzavano sul grilletto della carabina.

Il mahut lasciò andare un colpo di uncino sul pachiderma, il quale si mise a sbuffare in orribile modo, arrotolando la proboscide e presentando le due aguzze zanne. Fece ancora dieci o dodici passi poi tornò a fermarsi. Dai bambù si slanciò fuori, simile a un razzo, una gigantesca tigre emettendo un formidabile miagolìo.

Il capitano Macpherson lasciò partire la scarica.

– Tuoni e fulmini! – gridò irritato.

La tigre era ricaduta fra i bambù prima di essere stata toccata. Si slanciò altre due volte nell’aria, facendo balzi di dodici metri e scomparve.

Bhârata fece fuoco in mezzo al macchione, ma la palla andò a fracassare la testa di un botolino mezzo sbranato, che si trascinava penosamente fra le erbe.

– Ma ha il diavolo in corpo quella tigre, – disse il capitano, assai di cattivo umore. – È la seconda volta che sfugge alle mie palle.

Come va questa faccenda?

Bhagavadi si rimise in marcia, con molta precauzione, facendosi prima largo colla proboscide, che si affrettava però a ritirare subito. Fece altri cento metri, preceduto dai cani che andavano e venivano cercando la pista del felino, poi fece alto piantandosi solidamente sulle gambe. Tornava a tremare ed a sbuffare fragorosamente.

Davanti a lui, a meno di venti metri, stava un gruppo di canne da zucchero. Un buffo d’aria impregnata d’un forte odore di selvatico, giunse fino ai cacciatori.

– Guarda! guarda! – gridò il capitano.

La tigre s’era slanciata fuori dalle canne movendo con rapidità fulminea verso il pachidermo il quale s’era affrettato a presentare le zanne.

Vi giunse quasi sotto, sfuggendo alle carabine dei cacciatori, si raccolse su se stessa e piombò in mezzo alla fronte dell’elefante cercando con un colpo d’artiglio d’afferrare il mahut, che s’era gettato all’indietro urlando di terrore.

Già stava per raggiungerlo, quando in lontananza echeggiarono alcune note acute emesse da un ramsinga.

Sia che si spaventasse o altro, la tigre fece un rapido voltafaccia e si precipitò giù, cercando di raggiungere la macchia.

– Fuoco! – urlò il capitano Macpherson, scaricando la carabina.

Il felino mandò un ruggito tremendo, cadde, si rialzò, varcò la macchia e ricadde dall’altra parte, rimanendo immobile come se fosse stato fulminato.

– Hurrà! hurrà! – urlò Bhârata.

– Bel colpo! – esclamò il capitano, deponendo l’arma ancor fumante.– Getta la scala. —

Il mahut ubbidì. Il capitano Macpherson impugnato il coltellaccio giunse a terra e si diresse verso la macchia.

La tigre giaceva inerte presso un cespuglio. Il capitano, con sua grande sorpresa, non iscorse su quel corpo alcuna ferita, né per terra macchie di sangue.

Ben sapendo che le tigri talvolta si fingono morte per gettarsi di sorpresa sul cacciatore, stava per tornare indietro, ma gli mancò il tempo.

Il misterioso suono del ramsinga tornò a echeggiare. La tigre a quella nota scattò in piedi, si scagliò sul capitano e lo atterrò. La sua enorme bocca, irta di denti, si spalancò sopra di lui pronta a stritolarlo.

Il capitano Macpherson, inchiodato al suolo, in maniera da non potersi muovere, né servirsi del coltellaccio, emise un grido d’angoscia.

– A me!… Sono perduto.

– Tenete fermo, ci sono! – urlò una voce tonante.

Un indiano si gettò fuori della macchia, afferrò la tigre per la coda e con un violento strappone la scaraventò da una parte.

S’udì un ruggito furioso. L’animale, pazzo di collera, s’era prontamente alzato per gettarsi sul nuovo nemico; ma, cosa strana, inaudita, appena che l’ebbe scorto fece un rapido voltafaccia e s’allontanò con fantastica rapidità, scomparendo fra l’inestricabile caos della jungla.

Il capitano Macpherson, sano e salvo, s’era prontamente levato in piedi. Un profondo stupore si dipinse tosto sui suoi lineamenti.

A cinque passi da lui stava un indiano di forme muscolose, grandemente sviluppate, con una testa superba, piantata su due larghe e robuste spalle.

Un piccolo turbante ricamato in argento copriva il suo capo ed ai fianchi portava un sottanino di seta gialla, stretto da un bellissimo scialle di cachemire. Quell’uomo, che aveva intrepidamente affrontato la tigre non aveva alcuna arma.

Colle braccia incrociate, lo sguardo sfavillante d’ardire, egli fissava con curiosità il capitano, conservando l’immobilità d’una statua di bronzo.

– Se non m’inganno, ti devo la vita, – disse il capitano.

– Forse, – rispose l’indiano.

– Senza il tuo coraggio a quest’ora sarei morto.

– Lo credo.

– Dammi la mano; tu sei un prode.

L’indiano strinse, con un tremito, la mano che Macpherson gli porgeva.

– Posso io conoscere il tuo nome, o mio salvatore?

– Saranguy, – rispose l’indiano.

– Non lo scorderò mai.

Fra loro due successe un breve silenzio.