Za darmo

I minatori dell' Alaska

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XI – LE PIANTE DANZANTI

Nulla essendo accaduto durante la notte che potesse giustificare i timori di Bennie, l’indomani i due cow-boy, decisero di fare una galoppata nella grande prateria per ritirare la cassa dello scotennato e tentare di ricuperare qualcuno degli oggetti lasciati nel carro. Raccomandarono ad Armando di vegliare attentamente sullo scotennato durante la loro assenza e salirono sui mustani, slanciandosi attraverso il bosco che volevano perlustrare, temendo che vi si nascondesse l’indiano che aveva tagliate le briglie.

L’esplorazione non diede alcun risultato. Convinti che nessuna spia ronzasse nei dintorni del loro nascondiglio, s’affrettarono a raggiungere la grande prateria ormai deserta, dopo la ritirata dei guerrieri di Nube Rossa e di Coda Screziata.

Fu cosa facile ritrovare la traccia lasciata durante la corsa notturna, poiché le alte erbe, dopo essere state calpestate dai cavalli lanciati a galoppo sfrenato, avevano ripreso la posizione primitiva. La presenza poi di numerosi lupi là radunatisi per spolpare indistintamente gli uomini e i cavalli caduti durante il furioso inseguimento, indicava chiaramente che erano sulla buona via. D’altronde il grande carro non doveva tardare ad apparire. Infatti mezz’ora dopo, verso il sud, scorsero la coperta bianca che il sole faceva spiccare fra la tinta verde cupa delle graminacee giganti e del buffalo-grass.

– Temevo che gli indiani, disponendo di tanti animali, lo avessero portato via – disse Back.

– Si sono più occupati delle bistecche che degli oggetti contenuti nel carro – rispose Bennie.

– Allora troveremo ancora la cassa.

– E qualche cosa d’altro. Back, almeno lo spero.

Affrettarono la corsa, e poco dopo, giunsero dinanzi al carro, che si trovava ancora nello stesso posto ove era stato abbandonato. Gli indiani, come era prevedibile, l’avevano frugato, forse con la speranza di trovare delle armi, delle munizioni e del whisky. Le casse erano state gettate a terra e aperte, i barili contenenti le provviste sfondati e vuotati, la tela era stata in parte strappata. Bennie e Back trovarono però la cassa dello scotennato intatta. Gli indiani avevano certo tentato di forzarla, però le grosse tavole di quercia, guarnite di larghi chiodi, avevano resistito ai tomahawk dei guerrieri rossi.

– Ecco una vera fortuna. – disse Bennie. – Mi sarebbe molto spiaciuto che l’avessero portata via.

– E come faremo a portarla fino al rifugio?… È pesante.

– La trascineremo, poi divideremo gli oggetti in due o quattro cassette, per poterle caricare sui due cavalli di riserva. Fortunatamente possediamo ancora sei vigorosi animali.

– E le nostre munizioni?… Che le abbiano trovate?…

– Non lo credo.

Il cow-boy entrò nel carro, sollevò una tavola che si trovava nella parte posteriore e che nascondeva un ripostiglio situato fra le due ruote, e mandò un grido di gioia.

– Non sono stati furbi – disse.

– Ci sono ancora le munizioni?

– Sì, Back. Abbiamo qui cinquecento cartucce per fucile, e duecento per le rivoltelle, oltre a quelle che portiamo. Raccogliamo tutto ciò che può esserci utile, poi affrettiamoci a ritornare al pino.

Frugando in mezzo alle casse e ai barili sfondati, trovarono parecchi oggetti che erano sfuggiti alla rapacità degli indiani: due pentole di ferro, un po’ di gallette che erano state disperse tra le erbe, alcune scatole di conserve alimentari, un po’ di lardo, del thè, e alcuni indumenti molto preziosi per loro, delle giacche, delle scarpe e alcune coperte. Raccolsero tutto con gran cura, levarono anche la tela del carro che poteva servire da tenda, essendo formata di un tessuto resistente e impenetrabile all’acqua, misero ogni cosa in alcune casse che sospesero alle selle dei cavalli, poi legarono con una solida fune la cassa dello scotennato per trascinarla fino al rifugio. Carichi dei loro preziosi oggetti, lasciarono non senza un po’ di rammarico il grande carro che, per tanto tempo li aveva ricoverati, e si misero in marcia, per raggiungere le rive del lago. Il ritorno si compì senza cattivi incontri, ma richiese non meno di due ore a causa della pesante cassa che i cavalli erano costretti a trascinare, e gli uomini a sollevare di frequente, specialmente nella traversata della foresta. Durante la loro assenza, Armando, che aveva costantemente vegliato sulla riva dell’isolotto, non aveva visto nulla di sospetto, placando in tal modo i timori di Bennie, il quale temeva ancora che qualche indiano ronzasse nei dintorni per scoprire il rifugio. Durante la giornata, però, i cow-boys fecero una nuova escursione, spingendosi fino al prato dei castori, e sempre con esito negativo. Pareva che gli indiani si fossero definitivamente ritirati nei loro villaggi, situati sulle rive occidentali del lago, e avessero rinunciato alle loro idee di vendetta, persuasi forse che il Gran Cacciatore avesse abbandonata la prateria, ripassando l’Athabasca. L’indomani e nei giorni seguenti, i due cow-boy, e Armando si occuparono dei preparativi della partenza, essendo ansiosi di arrivare nei favolosi placers dell’Alaska. Lo scotennato guariva a vista d’occhio, favorito dalla bella stagione e da un riposo assoluto. L’enorme piaga del capo cominciava a cicatrizzarsi, e la pelle, brutalmente strappata dal coltello degli indiani, si rinnovava, non più liscia come prima, e purtroppo non più ricoperta dai capelli, i quali non dovevano ormai più spuntare sul cranio mutilato. In pochi giorni poteva essere in grado di affrontare i disagi di quella lunga corsa, attraverso i deserti territori dei possedimenti inglesi del Nord-Ovest. La grande cassa era stata sfondata, non potendo venire trasportata a dorso di cavallo, a causa delle sue dimensioni e del suo peso. I due cow-boy ne avevano tolto i picconi, le zappe, i badili, lo sluice e la provvista di mercurio, e avevano diviso il tutto in quattro cassette; avevano quindi, con la coperta del carro, tagliata una comoda tenda per ripararsi durante la notte; inoltre avevano fatto seccare una certa quantità di carne, avendo avuto la fortuna di abbattere un altro raccoon, alcuni castori e un grosso cigno del peso di trentacinque libbre. Il 18 aprile, ossia quattordici giorni dopo la perdita del bestiame, i due cow-boys, Armando e lo scotennato, ormai quasi completamente guarito, di buon mattino lasciavano il pino gigante, decisi a raggiungere i lontani placers del Klondyke. La giornata prometteva di essere bellissima, senza essere troppo calda, e i cavalli ben pasciuti e ben riposati facevano sperare una lunga e tranquilla marcia. Bennie e Armando, diventati ormai compagni indivisibili, e che si erano assunti l’incarico di provvedere la piccola carovana di carne fresca, aprivano la marcia: dietro venivano i due cavalli carichi delle casse, dei viveri, delle munizioni, e ultimi Back e lo scotennato. Lasciato il rifugio, si misero a costeggiare le rive orientali del lago, per piegare più tardi verso nord-ovest per accostarsi alla grande catena delle Montagne Rocciose, che doveva guidarli fino alla frontiera dell’Alaska. Erano tutti di umore allegro, i due cow-boys soprattutto, i quali contavano già di raccogliere a piene mani nelle terre del Klondyke. Degli indiani non si occupavano ormai più, essendo convinti che Nube Rossa e i suoi guerrieri non pensassero più a loro, e che Coda Screziata fosse già stato divorato dai lupi. Disgraziatamente un avvenimento inatteso fece loro comprendere che tutto non era ancora terminato con i rossi guerrieri di Nube Rossa. Avevano appena percorse due miglia e si preparavano a girare l’ultimo angolo del lago per piegare poi verso occidente, quando Bennie che cavalcava sempre con Armando, vide sventolare, al margine del bosco, una specie di bandiera, che pareva fatta con un pezzo di pelle.

– Che segnale sarà quello? – si chiese stupito. – Che qualche cacciatore abbia ucciso un animale e abbia messo la pelle a seccare all’estremità di quel ramo?…

– Vengono dei cacciatori qui? – chiese Armando.

– Sì, durante la buona stagione, ma ora è troppo presto.

– Ehi!… Bennie!… – gridò in quell’istante Back. – Sai a che cosa rassomiglia quella strana bandiera?…

– A che cosa?…

– Al totem degli indiani.

– Corna di bisonte!… Hai ragione, Back!

Spronò il mustano e si spinse verso quell’inesplicabile bandiera, che pendeva all’estremità di un ramo di quercia nera, ma collocata in modo da non sfuggire allo sguardo di uno che avesse costeggiato le rive settentrionali del Piccolo lago degli Schiavi. Bennie e Armando videro che si trattava di una pelle di castoro non ancora completamente seccata, e che sul rovescio portava dipinta una coda a vari colori.

– Per centomila orsi!… – esclamò il cow-boy, che era diventato pallido. – Sarebbe ancora vivo quel dannato briccone?…

– Chi?…

– Coda Screziata.

– Da che cosa lo arguite?…

– Perchè questo è il totem della sua piccola tribù, ossia la sua bandiera. Non vedete che vi è dipinta una coda screziata a più colori?

– È vero, signor Bennie.

– Caramba!… – esclamò Back, che li aveva raggiunti. – Non mi ero ingannato!… Vuol dire che il nostro nemico è ancora vivo e presto o tardi lo avremo alle spalle per scotennarci.

– Ecco un uomo che ci darà delle noie – disse Bennie.

– Credi che sia seguito da quelli della sua tribù?

– Chi può dirlo, Back?…

– Bennie, bisogna prendere il largo e presto.

– Si, e passare il Peace – disse lo scotennato. – Attraversato quel fiume, non avremo più nulla da temere da Coda Screziata.

– Così la penso anch’io, signore – rispose il vecchio scorridore. – Lasciamo le rive del lago e marciamo verso nord, per giungere più presto che possiamo al fiume. Al di là c’è il territorio delle Teste Piatte e i Grandi Ventri non possono violare, senza una dichiarazione di guerra, i territori di caccia delle altre tribù.

 

– Chi sono le Teste Piatte?… – chiese Armando.

– Indiani, non feroci però come i Grandi Ventri, e che ci faranno, lo spero, buona accoglienza. Sproniamo e cerchiamo di guadagnare strada.

Le coste del Piccolo lago degli Schiavi furono subito abbandonate e il drappello si spinse risolutamente verso il nord, riservandosi più tardi di piegare all’ovest, dopo oltrepassato il Peace. Il paese che allora attraversavano cambiava. Ai boschi che circondavano il lago e alla grande prateria che si stendeva verso oriente in direzione del lago del Buffalo, succedevano terreni assai ondulati che accennavano ad innalzarsi, ora coperti da alte erbe che potevano fare la fortuna di qualche allevatore di bestiame, e ora da boschetti minuscoli formati da macchie di pini bianchi, a volte grossissimi, misurando una circonferenza di due metri e mezzo e un’altezza di trentacinque metri; da salici dalle cui radici gli indiani estraggono una bella tinta rossa che adoperano nei loro costumi di guerra; di ciliegi selvatici, pruni e cespugli di ribes in fiore. Non pochi volatili si scorgevano, specialmente là dove si erano radunate le acque, formando stagni abbastanza vasti e probabilmente non privi di pesci. A mezzogiorno, dopo una marcia rapidissima e quasi continua, il drappello si accampò sulle pendici di una collina, sulla quale si vedevano crescere, fra le alte erbe, delle piante assai strane, specie di palloni grossissimi che avevano una circonferenza di oltre due metri, e si reggevano all’estremità di un fusto molto esile in proporzione alla loro massa.

Essendosi levato un vento molto forte e freddo che veniva da nord, Bennie fece rizzare la tenda per mettere al coperto il signor Falcone, il quale soffriva ancora acuti dolori. Stavano per accendete le pipe, quando al di fuori si udirono i cavalli nitrire e scalpitale, come se fossero in preda a viva inquietudine.

– Senti, Back? – chiese Bennie. – Che i mustani abbiano scorto qualche orso grigio?… Questi animali sono ancora numerosi nella regione.

– Sarebbe il benvenuto, – disse Armando. – Si dice che la sua carne sia squisita.

– Sì, però sanno difenderla così bene da mettere in guardia i più arditi cacciatori. Se…

Stava per finire la frase, quando una massa pesante cadde con grande impeto addosso alla tenda, schiantandola di colpo, e mandando a gambe all’aria Armando e il messicano, che si erano già alzati per uscire.

– Corna di bisonte!… – urlò Bennie, che era stato rovesciato dal messicano. – Chi ci accoppa?…

– Carrai!… – strillò Back. Ci è piombato addosso un bisonte?.. I due cow-boys, sbarazzatisi prontamente della tenda che li aveva coperti, s’affrettarono a strisciare all’aperto portando con sè i fucili, seguiti da Armando e da suo zio. Uno spettacolo strano si offrì ai loro occhi.

Dalla collina scendevano, rotolando e rimbalzando disordinata mente, centinaia e centinaia di quelle palle vegetali che avevano scorte sulla cima dell’altura.

Quelle masse, che dovevano essere piuttosto pesanti, avendo una circonferenza di un metro e mezzo, e anche di due, capitombolavano in gran numero giù per la china e proseguivano, anche in pianura, la loro corsa indiavolata, sospinte dal vento che soffiava impetuoso. Una delle più grosse era caduta addosso alla tenda atterrandola di colpo, e altre seguendo la stessa direzione, stavano per irrompere contro i cow-boys e i loro compagni.

I quattro uomini si lasciarono cadere al suolo, imitati dai cavalli. Le palle arrivavano facendo balzi di sette piedi, specialmente quando trovavano qualche ostacolo. Passarono come un uragano sopra i cavalli, malmenando non poco quelle povere bestie, piombarono addosso agli uomini urtandoli, spingendoli, pestandoli malamente e minacciando di trascinarli nella loro corsa vertiginosa. Lo scotennato, colpito in pieno, era andato a finire in mezzo a un folto cespuglio, che fortunatamente lo aveva trattenuto; Bennie dentro un crepaccio e Back e Armando, trascinati giù per il pendio, erano stati spinti contro una macchia di piccole querce che crescevano a trecento passi dalla tenda. Quando poterono alzarsi, tutti più o meno contusi, videro quegli stravaganti vegetali correre sfrenatamente per la pianura danzando disordinatamente, e poi perdersi in mezzo ai boschetti che crescevano nelle bassure.

– Corna di cervo!… – esclamò Bennie che rideva a crepapelle, nonostante tosse tutto ammaccato. – Se durava ancora un po’, ci malmenavano per bene. Al diavolo anche le piante danzanti!…

– Piante danzanti?… – disse Armando. – Potete chiamarle bombe!… Che specie di piante sono?…

– Si chiamano cyclotoma phtyphylum – disse lo scotennato.

– Un nome che fa sternutire i cani – rispose Bennie. – Noi preferiamo chiamarle piante danzanti. Come avete visto, sono palle mostruose formate da un agglomerato di fili vegetali, che le fa rassomigliare a fasci di fieno abilmente legati e arrotondati. Se ne trovano molte in questa regione, e anche più a sud, specialmente nelle pianure dell’Arkansas.

– È stato il vento a staccarle dal loro gambo? – chiese Armando.

– Sì, giovanotto. Probabilmente un freddo repentino ha fatto morire i gambi che sono molto sottili e le palle, staccate facilmente dal ventaccio che soffia, sono rotolate via.

– È stata una vera valanga.

– Che poteva diventare pericolosa se fosse durata, amico mio. Degli uomini sorpresi da una simile valanga hanno lasciata la vita in fondo ai burroni. Si racconta anzi a questo proposito, una curiosa storia su alcuni cacciatori di bisonti.

– E quale, signor Bennie?…

– Un giorno, alcuni uomini percorrevano la prateria per cacciare i grossi buffali. Stavano salendo un’erta molto ripida, quando videro apparire, fra una nuvola di polvere, delle enormi masse che scendevano a precipizio. Credendo che fossero gli attesi bisonti, i cacciatori si disposero in catena ricevendo quelle masse con un vero fuoco di fila. Con loro grande sorpresa non videro cadere nessuno dei supposti animali, anzi scorsero la valanga continuare più che mai la corsa indiavolata, minacciando d’investirli.

Spaventati, tentarono di raggiungere i loro cavalli per non farsi sventrare dalle poderose corna dei ruminanti o schiacciare dai robusti zoccoli, ma ad un tratto si videro investiti dal polverone, poi vennero urtati, rotolati, pestati per bene. Invece di bisonti erano piante danzanti di dimensioni grossissime, che poi continuarono, sospinte dal vento, la loro corsa indiavolata, lasciando i poveri cacciatori contusi, storditi, e con tanto di naso.

– Per caso c’eri anche tu?… – chiese Back.

– Non me lo ricordo – rispose il cow-boy, ridendo. – Mi sono toccate tante avventure durante la mia vita errabonda, che può essere accaduto anche a me qualcosa di simile.

XII – BATTAGLIA DI VOLATILI

Il giorno seguente, verso il tramonto, dopo avere attraversata una lunga catena di colline boscose, il drappello giungeva sulle rive del Peace, uno dei più considerevoli fiumi della Columbia Britannica, che ha le sue sorgenti fra la grande catena delle Montagne Rocciose, e che dopo un lunghissimo e tortuoso percorso, attraverso le pianure del territorio dell’Athabasca, va a scaricarsi nel lago omonimo. Le acque erano ancora basse, non essendo ancora cominciato lo scioglimento delle nevi delle Montagne Rocciose. Così il piccolo drappello poté facilmente trovare un guado e raggiungere la riva opposta, accampandosi al margine di una foresta di pini rossi e di abeti. Trovandosi sul territorio di caccia dei Piedi Neri e delle Teste Piatte, tribù avversarie fra loro, e anche nemiche dei Grandi Ventri, fuori quindi dalle terre di Nube Rossa, decisero di fermarsi qualche giorno per accordare un po’ di riposo al signor Falcone, la cui ferita, non essendo del tutto rimarginata, lo faceva ancora soffrire non poco e anche per cacciare, non volendo consumare tutte le poche provviste che avevano con loro. Bennie, che conosceva la regione, era certo di poter fare delle belle battute, e di sorprendere dei daini, dei tacchini selvatici e forse anche qualche grossa alce e qualche wapiti. Avevano appena terminato di cenare, quando il vecchio scorridore, che aveva l’udito acuto, fece cenno ad Armando di prendere il fucile e di seguirlo.

– La luna si alza splendida – gli disse, – e i tetraoni si sono già fatti sentire. Questa notte terranno qualche meeting molto rumoroso con intervento di numerosi oratori, e quindi danza guerresca.

– Sono forse degli indiani? – chiese Armando.

– Sì, con gambe ed ali, – rispose il cow-boy, ridendo.

– Sono galli del collare, Armando, – disse lo scotennato.

– Come?… Dei galli che tengono delle sedute, che hanno degli oratori e fanno danze guerresche?…

– Sì, giovanotto, e se mi seguirete vi mostrerò uno spettacolo curioso. Ehiu!… Udite? Cominciano a salutare la luna che sta alzandosi dietro la cresta di quei monti e si chiamano per la seduta. In mezzo al fitto del bosco era echeggiato un grido acutissimo che rassomigliava al canto del gallo, ma infinitamente più potente, e altre grida simili, che partivano da diverse parti, gli avevano risposto.

– Sono vicini – disse Armando.

– Credo il contrario, – rispose Bennie. – Forse dovremo percorrere due o tre miglia prima di arrivare al loro scratking-place, ossia al loro «campo d’onore».

Il loro grido è così forte che lo si sente perfino a quattro miglia di distanza.

– Andiamo, signor Bennie. Sono curioso di assistere a questo spettacolo.

– Che ci fornirà una squisita colazione, – aggiunse il cow-boy. – La carne dei tetraoni vale quella dei tacchini selvatici.

Raccomandarono a Back e allo scotennato di fare buona guardia, presero i fucili e si cacciarono nel bosco, dirigendosi là dove udivano echeggiare le grida dei volatili. Il bosco era folto, formato da grandissimi pini e da betulle i cui tronchi mostruosi crescevano gli uni vicini agli altri, e da ammassi di cespugli; però brillando in cielo una luna splendidissima, i due cacciatori potevano marciare comodamente, trovando senza fatica i più comodi passaggi. Bennie precedeva il compagno, guardando di frequente a terra per timore di mettere i piedi su qualche serpente a sonagli, rettili che abbondano anche nell’Athabasca, e il cui morso è senza rimedio, uccidendo in pochi istanti l’uomo più robusto. Procedendo con passo rapido, il cow-boy e il suo compagno giunsero, dopo una mezz’ora, sulla cima di una collinetta boscosa, dove si udivano echeggiare più frequenti e più acute le grida dei tetraoni. Pareva che lassù i graziosi e battaglieri volatili si fossero radunati in buon numero.

– Avanziamo con precauzione e senza far rumore, – disse Bennie. – Fra poco giungeremo allo scratking-place dei galli.

– Sono diffidenti?…

– Assai, Armando, e non tengono le loro sedute che in luoghi assolutamente deserti.

Si misero a salire l’ultimo dorso della collina, passando fra pini, abeti, querce nere ed aceri, guidati dalle grida dei volatili che risuonavano sempre più vicine, poi Bennie si arrestò dietro un folto cespuglio di cornioli, dicendo:

– Ci siamo.

Erano giunti presso uno spazio scoperto e perfettamente piano, una bella radura vasta, circondata da alti pini, e che la luna illuminava. Armando, che si era spinto più avanti, scorse un grosso numero di volatili bellissimi, alti quasi due piedi, col collo fornito di una specie di tasca rilasciata e rugosa, di colore arancio, che si gonfiava quando quei galli emettevano le loro note potenti. Cosa davvero singolare: quei volatili avevano quattro ali invece di due, avendone un paio supplementare alla base del collo, più piccole, però, delle altre e formate da diciotto penne, metà brune e metà nere. Quei bellissimi galli, che dovevano pesare almeno un paio di chili, stavano correndo all’intorno starnazzando le ali e arruffando le loro penne rossicce.

Pareva che prima di cominciare la seduta notturna e poi la battaglia, volessero assicurarsi della buona qualità del terreno del loro «campo d’onore».

– Sono belli? – chiese ad Armando.

– Superbi, – rispose Armando. – Ce ne sono almeno duecento.

– Si sono radunati tutti quelli del distretto.

– Hanno un distretto anche i tetraoni?

– Pare.

– Strani volatili!

– Ecco che cominciano.

– La seduta?

– Sì, e vedrete con quanta serietà gli oratori pronunceranno i loro discorsi.

– Peccato che non possiamo comprenderli.

– Assaggeremo, però, la carne degli oratori e giudicheremo la loro valentia dalla loro squisitezza.

 

I tetraoni, maschi e femmine, si erano disposti all’ingiro, formando un vasto circolo, e un profondo silenzio era subentrato alle strepitose grida di quei chiacchieroni incorreggibili. Il presidente esigeva senza dubbio che nessuno fiatasse, prima di aprire la seduta al chiaro di luna. Per alcuni istanti rimasero silenziosi e raccolti, poi un bellissimo maschio, alto quasi due piedi e mezzo, si fece avanti con comica gravità, ispezionando sospettosamente il terreno e guardando la luna con due occhietti neri circondati da una fascia color arancio, quindi si mise al centro del campo e cominciò a strepitare su tutti i toni gonfiando enormemente il sacco che gli pendeva sotto la gola e rompendo di frequente in veri scrosci di risa, che nulla avevano da invidiare a quelli d’un negro ubriaco. L’assemblea lo ascoltava senza interromperlo, conservando una immobilità assoluta. Era molto se qualcuno di quei gravi galli alzava la testa per fare probabilmente qualche accenno di approvazione.

– È ridicolo, – mormorò Armando, volgendosi verso Bennie. – Che cosa dirà quel chiacchierone?

– Probabilmente vanterà la robustezza del suo becco e dei suoi speroni e la bellezza delle sue penne.

– O la delicatezza delle sue carni, prevedendo la nostra vicinanza?

– Sì, burlone – rispose Bennie, ridendo.

Terminato il suo discorso, durato fortunatamente pochi minuti, un altro oratore si fece innanzi, poi un terzo, un quarto, tutti facendo sfoggio, di note, le une più acute delle altre. Quando tutti i maschi ebbero terminata la loro orazione, si divisero in due drappelli e si schierarono l’uno di fronte all’altro curvando il collo, gonfiando i loro gozzi e rizzando a ventaglio le penne delle loro code.

– Che cosa fanno ora? – chiese Armando.

– La danza di guerra – rispose Bennie.

– Assisteremo poi anche a qualche battaglia?

– Sì, giovanotto e sarà allora che noi entreremo in campo.

I galli intanto, incominciarono la loro danza: avanzavano dondolandosi comicamente, battendo forte le ali e gridando a piena gola, poi retrocedevano saltellando, tornando quindi a corrersi incontro, provocandosi. A un tratto le due falangi si scagliarono l’una contro l’altra, spiccando salti di tre piedi d’altezza, e prorompendo in veri scoppi di risa, s’azzuffarono ferocemente, colpendosi col becco e con gli speroni. Era il momento atteso da Bennie. Spezzati due rami e datone uno ad Armando, si precipitò in mezzo ai combattenti, bastonando senza misericordia a destra ed a sinistra, bravamente imitato dal compagno.

I galli erano talmente occupati nella battaglia, che subito non si accorsero della presenza di quei formidabili avversari. Quando però videro cadere parecchi compagni e sentirono grandinare le legnate, si dispersero rapidamente, fuggendo in tutte le direzioni, preceduti dagli spettatori. Sul campo d’onore erano però rimasti undici morti e sei storpiati che Bennie raccolse, aiutato da Armando, il quale s’affrettò a finire per timore che prendessero il largo.

– Che succulenta colazione ci forniranno, – disse il cow-boy. – Sono deliziosi, ve lo assicuro e anche molto ricercati; nelle città si pagano carissimi.

– Anche quelli? – chiese Armando, che aveva fatto un salto indietro, lasciando cadere bruscamente i volatili che teneva in mano.

– Chi?

– Guardate!…

– Corna di bisonte!… – esclamò Bennie retrocedendo. – Una famiglia di glèzè!… Armando, ai fucili!…

Sull’orlo della radura, fra due enormi pini, era comparso bruscamente un gruppo di orsi, composto probabilmente di un maschio, di una femmina e di due piccoli. I due primi erano di statura enorme, di poco inferiore a quella degli orsi grigi, che sono i più grandi della specie; gli altri due, invece, erano un po’ più grossi di un montone. Bennie non si era ingannato: era una vera famiglia di glèzè o, come vengono anche chiamati, orsi delle pianure, oppure orsi gialli, avendo la loro pelle delle sfumature giallastre; animali pericolosi, dotati di una forza muscolare prodigiosa e ben più temibili degli orsi neri, i quali sono di umore più tranquillo, spesso addirittura scherzevoli. Bennie e Armando, attraversata rapidamente la pianura, avevano raggiunta la loro macchia, presso la quale avevano lasciati i loro fucili e si erano posti sulla difensiva, prevenendo un imminente attacco.

I quattro orsi, però, non parevano aver fretta, anzi sembravano più sorpresi di quell’incontro che irritati. Si erano arrestati sull’orlo della radura: il maschio, riconoscibile per la sua mole e dietro di lui la femmina con ai fianchi i due orsacchiotti. Per il momento si limitavano a guardare ora i due cacciatori e ora i galli del collare che giacevano in mezzo al campo d’onore.

– Pare che abbiano paura, – disse Armando a Bennie.

– Paura i glèzè?… Uhm!… Non fidatevi della loro calma, giovanotto. Non valgono i grizzly, ma non sono pacifici come vi sembrano, e vi assicuro che ben presto il maschio verrà a visitarci.

– Abbiamo i nostri fucili.

– È vero, ma quei corpacci sopportano molte palle senza cadere. È un brutto incontro, ve lo dico io.

– Che cosa decidete di fare?…

– Attendere, per ora.

– Se fuggissimo verso il campo?…

– Ci seguirebbero, e siccome galoppano bene, non tarderebbero a raggiungerci.

– Diavolo!… Venire a cacciare i galli e trovare quattro orsi!…

– Che non si faranno scrupolo alcuno di mangiarci la nostra preda. Eh!… in guardia, giovanotto!…

Il maschio, stizzito forse per l’immobilità dei due cacciatori, aveva fatto alcuni passi in avanti, mandando una specie di grugnito sordo e poco rassicurante, poi si era nuovamente fermato, guardando la femmina che lo aveva raggiunto lasciando i due piccoli al margine del bosco. Certo di essere spalleggiato, preso da un improvviso accesso di furore, attraversò al galoppo la radura, scagliandosi impetuosamente verso il cespuglio che riparava i cacciatori. In quel momento quel mostro, dotato di una forza muscolare straordinaria, faceva paura. Con la bocca sbarrata, armata di lunghi denti bianchi, il pelo irto e gli occhi ardenti avanzava pronto a mettere alla prova le sue potenti unghie. Bennie, vedendolo a dieci metri da sè, aveva puntato rapidamente il fucile, dicendo precipitosamente ad Armando:

– Non fate fuoco!…

La raccomandazione, sfortunatamente, giunse troppo tardi. Il giovanotto, vedendo slanciarsi anche la femmina, aveva alzato il fucile e le due detonazioni echeggiarono quasi contemporaneamente.

Quando il fumo si dissipò, i due cacciatori videro, con vero terrore, il maschio ritto sulle zampe posteriori e a distanza di pochi passi, mentre la femmina, dopo esser caduta su di un fianco, stava rialzandosi. Non avendo il tempo di introdurre nei fucili nuove cartucce, Bennie e Armando si precipitarono verso una grossa quercia che si trovava dietro di loro, aggrappandosi di comune accordo a un ramo basso e issandovisi sopra con agilità prodigiosa.

Disgraziatamente, nel fare quel salto, avevano dovuto lasciare andare i due fucili, i quali erano caduti alla base della pianta, l’uno sull’altro.

– Corna di bisonte!… – urlò Bennie che si era accorto, ma troppo tardi, dell’imprudenza commessa.

Vedendo l’orso scagliarsi contro la quercia, i due cacciatori, premurosi di mettere in salvo i loro polpacci, s’affrettarono a raggiungere il tronco e di là i rami superiori, mettendosi a cavalcioni di uno dei più grossi che si trovava a trenta piedi dal suolo. Il glèzè, furibondo di aver visto sparire le prede, aveva mandato un urlo feroce e non sapendo con chi prendersela, si era gettato contro il tronco, strappando, con i poderosi unghioni, larghe strisce di corteccia. La femmina intanto, lo aveva raggiunto zoppicando e rigando il suolo di sangue. Pareva che la palla di Armando le avesse fracassata una zampa, ma anche il maschio doveva essere stato ferito, poiché sotto di lui si era formata subito una pozza di sangue.

– Eccoci in un brutto impiccio – disse Bennie. – Senza fucili, e con due belve furiose e ancora in gamba.

– Che si preparino ad assediarci? – chiese Armando, che non manifestava alcuna apprensione.