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I minatori dell' Alaska

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XXIII – UNO STREGONE MITRAGLIATO

Scomparso l’ultimo raggio di sole, la foresta era diventata così tenebrosa, da non poter distinguere il tronco di un albero alla distanza di dieci passi. Armando, accovacciato fra i rami, col fucile in mano e il coltello nella cintola, ascoltava i diversi rumori senza muoversi, sperando di udire anche qualche lontano colpo di fucile che gli annunciasse l’avvicinarsi dei suoi compagni. Certamente lo cercavano, ma da che parte?… Quella immensa foresta non si prestava a tale impresa.

– Forse mi sono assai allontanato verso sud, credendo di dirigermi verso nord, – mormorava il disgraziato. – Quante angosce per mio zio e per Bennie!… Forse mi crederanno divorato da qualche orso.

Era a tale punto delle sue riflessioni, quando sotto di sè, a pochi passi dall’acero che gli serviva da rifugio, credette di scorgere una massa gigantesca. Non sapendo di che cosa si trattasse, trattenne il respiro e si curvò per cercare di distinguerla meglio.

– Si direbbe un cavallo o un mulo, – mormorò. – Che cosa può essere?

Quella massa indecisa si era fermata quasi alla base dell’acero e pareva si fosse messa a pascolare. Udiva le foglie secche scricchiolare, i rami dei cespugli agitarsi e strappare violentemente l’erba che cresceva fra le piante. Non c’era da ingannarsi: un animale pascolava tranquillamente sotto l’acero.

Spinto dalla curiosità, Armando si era avventurato su un ramo, sospettando si trattasse di uno dei cavalli lasciati presso le rive del lago. Era intento a osservare l’animale, quando a un tratto il ramo che lo sorreggeva si spezzò di colpo e si sentì precipitare nel vuoto. Già credeva di capitombolare in mezzo ai cespugli, quando si sentì invece cadere su un robusto dorso che non si piegò nemmeno sotto il suo peso. Allungò istintivamente una mano, avendo l’altra impedita dal fucile che non aveva abbandonato, e sentì sottomano una specie di criniera ruvida, alla quale si aggrappò disperatamente. Solamente allora si accorse di essere caduto a cavalcione dell’animale che stava pascolando sotto l’acero. Prima che potesse rendersi conto di quel fortunato capitombolo, si sentì trasportare attraverso la foresta in una corsa disordinata e vertiginosa. L’animale, spaventato di sentirsi addosso quel cavaliere che scambiava probabilmente con qualche fiera, s’era dato a una fuga indemoniata, balzando sopra i tronchi degli alberi atterrati e scagliandosi all’impazzata in mezzo ai cespugli. Armando, quantunque ancora stordito, si guardò bene dall’allentare la presa per non sfracellarsi il cranio contro qualche tronco d’albero. In qualche luogo quel destriere si sarebbe certamente fermato e forse fuori da quella grande foresta. Però la situazione del giovane non era delle più comode, poiché l’animale correva all’impazzata, senza alcuna direzione e senza curarsi del cavaliere, filando come una freccia in mezzo agli alberi, cacciandosi in mezzo ai cespugli, saltando ostacoli e precipitandosi negli stagni che incontrava, come se avesse cercato di prendere maggior lena con quei bagni quasi gelati. Armando, sentendosi frustare il viso dai rami e dalle foglie, s’era curvato in modo da appoggiare la testa sul collo del corridore, temendo di spaccarsi la fronte contro qualche ramo basso e resistente. Temendo una caduta, che avrebbe avuto forse delle conseguenze gravissime a quella velocità, stringeva disperatamente le gambe e la breve criniera della cavalcatura per meglio resistere a quei balzi disordinati. Un cavaliere poco abile non avrebbe certamente resistito a quelle scosse che diventavano sempre più violente. Il povero animale, poco a poco, perdeva forza. I suoi fianchi battevano affannosamente, dalla gola gli usciva un rauco respiro che diventava di minuto in minuto più rapido, e le sue zampe faticavano a saltare i centomila ostacoli della foresta.

– Prepariamoci al capitombolo – mormorò Armando. – Fra poco, questo indemoniato animale cadrà.

In quel momento s’accorse che le piante diventavano rapidamente meno fitte, e la profonda oscurità tendeva a sparire. Ebbe un lampo di speranza.

– Che la foresta sia stata attraversata? – si chiese – Animo, mio bravo corridore: uno sforzo ancora e poi ti lascerò libero. Vedremo finalmente su che razza di animale sono caduto.

Gli alberi continuavano a diradarsi e i cespugli sparivano, mentre il terreno cominciava a spianarsi. La pianura non doveva essere lontana. L’animale, con un ultimo slancio, uscì finalmente da quel caos di tronchi giganteschi, e si lanciò su una verdeggiante prateria, pallidamente illuminata dalla luna giunta al suo ultimo quarto. Solo allora Armando comprese su quale animale aveva compiuto quella fantastica corsa. Come già si era immaginato, si trattava di una grossa alce, una bestia che somiglia alla renna, avendo le stesse forme, ma più alta e robusta, con la testa adorna di coma larghe e massicce, disposte come due ventagli alla sommità del cranio e una breve criniera pendente sotto la gola. Le alci sono alte quanto un giovane mulo, hanno zampe robuste, terminanti in uno zoccolo, nervose, secche. Il povero animale, sempre più spaventato, non sapendo quale specie di fiera portava in groppa, vedendo stendersi dinanzi a sè la prateria, radunò le proprie forze e si scagliò risolutamente in avanti alzando e abbassando la testa e scuotendo disperatamente le larghe corna. Armando, che ormai non temeva più una caduta, nè che i rami della foresta gli fracassassero la fronte, si era alzato, incitando lietamente la sua cavalcatura.

– Avanti!… Al galoppo!… Poi ti lascerò libera e ti farò anche dono della vita!…

L’alce non aveva certamente bisogno di essere incoraggiata. Continuava a correre, non più però in linea retta, ma a zig-zag, tentando di tratto in tratto, con brusche strappate, di sbarazzarsi dell’importuno cavaliere. Vedendo rizzarsi un gruppo d’alberi, si diresse da quella parte, sperando forse di trovare qualche altro stagno che le permettesse di tuffarsi, essendo quegli animali bravissimi nuotatori. In pochi istanti giunse presso quelle piante, ma invece di precipitarvisi in mezzo, fece uno scarto così brusco, da mandare all’aria il cavaliere.

– Corna di bi… – ebbe appena il tempo di esclamare il giovanotto.

Proiettato innanzi come una palla, volteggiò due volte nell’aria e andò a cadere, per sua fortuna, in mezzo a un folto cespuglio, i cui rami lo salvarono dall’urto. Mentre cadeva, uno scoppio di urla era echeggiato in mezzo a quel gruppo d’alberi, e alcune forme umane erano balzate fuori. Il giovanotto udì un sibilo, poi vide l’alce impennarsi bruscamente, quindi ricadere al suolo, sparando calci in tutte le direzioni.

– Canaglie!…-gridò Armando, che si era subito rimesso in piedi. – Chi uccide la mia cavalcatura?

Aveva raccolto rapidamente il fucile, cadutogli durante quell’improvviso capitombolo e si era lanciato verso l’alce. Il povero animale, con un fianco trafitto da una corta lancia, una specie di fiocina, stava esalando l’ultimo respiro. Cinque uomini erano allora usciti dalla macchia, brandendo minacciosamente delle lance e delle pesanti scuri, però, vedendo il giovane, si erano arrestati guardandolo con stupore e con diffidenza. Quegli uomini dovevano essere indiani appartenenti alla tribù dei Tanana, a giudicare dai loro bizzarri vestiti e dalle loro pitture.

Erano tutti di statura piuttosto bassa e di costituzione robusta, con testa piuttosto grossa, il collo poderoso, il petto ampio e le spalle larghe. Avevano il volto dipinto a vivaci colori, rosso, giallo e turchino, la capigliatura lunga e nera, abbellita da penne di galli di montagna e di falchi pescatori e fra le cartilagini del naso portavano un bastoncino o un pezzo d’osso che dava loro un aspetto tutt’altro che rassicurante.

Le loro vesti consistevano in casacche di pelle di renna, adorne di frange di peli d’animali, di perle e di stracci di garza trattenuti da pallottole di argilla disseccata, e in calzoni piuttosto larghi, chiusi in mocassini di pelle frangiati e dipinti. Tutti alla cintola portavano il sacco indiano, una specie di borsa molto lunga, terminante in un grosso ciuffo di peli e che ordinariamente contiene la pipa, l’acciarino, un pugnale e degli amuleti consistenti in pietre di vari colori e in conchiglie. Uno di loro, forse il capo o qualche stregone, oltre quel costume indossava un’ampia pelliccia di orso bianco mezza spelata e adorna di campanelli di ottone, di denti di lupo e di ghiottone, di pallottole d’argilla, di dischi di rame e al collo portava una scatola di latta ben lucidata, un recipiente che doveva aver contenuto o del tonno o delle sardine. Quei cinque uomini rimasero alcuni istanti silenziosi, guardando curiosamente Armando. Questi, dal canto suo, con un’abile mossa si era trincerato dietro il cadavere dell’alce, tenendo in mano il fucile. Il capo, o stregone che fosse, di quella minuscola banda, soddisfatta la sua curiosità, fece due passi innanzi brandendo minacciosamente la sua pesante scure, rivolse al giovanotto alcune parole assolutamente incomprensibili. S’indovinava però, dal gesto, che l’indiano esigeva qualcosa e senza ritardo.

– Spiegatevi meglio, poiché non ho capito nulla – disse Armando in inglese.

Il capo mandò un ha prolungato, e subito rispose nella stessa lingua, storpiando però le parole:

– L’uomo bianco se ne vada e subito.

– Adagio, mio caro, – disse Armando. – L’alce è mia e non intendo lasciarvela, senza avere un pezzo di carne per me. Io muoio di fame e non me ne andrò senza aver riempito il mio stomaco.

– Vattene!… – disse il capo, con aria minacciosa.

– No, mio caro.

– Il giovane uomo bianco si rifiuta?

– Precisamente.

– Egli non conosce dunque Kocth-a-Kutchin?

– Non so chi sia.

– È lo stregone, l’angekok della tribù dei Tanana Tatanckok.

– Non m’importa affatto: dico che ho fame, che l’alce mi appartiene e che voglio mangiare, – rispose Armando, con accento risoluto.

 

– La pazienza non è il forte di Koctch-a-Kutchin – disse l’indiano.

– E nemmeno di Armando Falcone, mio caro muso dipinto.

– L’alce l’ho uccisa io con la mia lancia e l’avrò.

– Ed io ti dico che l’alce era montata da me, e quindi tu non avevi il diritto di ucciderla.

– L’alce non è un animale che si lascia comandare dal padrone; è libera, vive nei boschi, quindi appartiene a chi la uccide. Il giovane uomo bianco se ne vada, se ci tiene alla vita.

– Ti ripeto che ho fame.

– I Tanana non hanno cibi per l’uomo bianco.

– Ebbene, vieni a prenderti l’alce, se osi, – disse il giovane, spianando il fucile.

A quella minaccia, lo stregone, esitò, conoscendo senza dubbio le armi da fuoco, poi disse:

– Poiché tu hai avuto l’audacia di minacciare me, stregone della tribù dei bellicosi Tanana, mi darai quell’arma.

– Vuoi anche il mio coltello?

– Mi darai anche quello.

– Cialtrone!… Io non ho paura di te!…

– Lo vedremo!…

Il Tanana, senza nemmeno chiedere l’aiuto dei suoi uomini, alzò la pesante scure, e si scagliò impetuosamente contro il giovanotto, credendo di abbatterlo. Armando gli puntò il fucile sul petto, gridando:

– Bada!… Ti uccido!…

Il Tanana, per tutta risposta gli menò un furioso colpo di scure, che avrebbe spaccato una rupe, mentre i suoi uomini impugnavano le fiocine, preparandosi a scagliarle. Un momento di esitazione e Armando era perduto. Con un salto indietro evitò quel colpo mortale, poi fece fuoco. Lo stregone, mitragliato dalla scarica, lasciò cadere l’arma, mandando un urlo di dolore, si portò le mani al petto, come se avesse voluto arrestare il sangue che gli usciva dalla terribile ferita, poi si diede ad una pazza corsa attraverso la prateria seguito dai suoi uomini. Armando dal canto suo, si era pure dato alla fuga, senza più curarsi dell’alce, causa di quella lotta. Aveva già percorso cinque o seicento passi, quando verso il margine della foresta udì rimbombare alcuni spari. Credendo di venire assalito da nuovi nemici, si era voltato da quella parte, deciso a bruciare la sua ultima cartuccia. Un grido di gioia irrefrenabile gli uscì dalle labbra. Bennie e Falcone gli venivano incontro al galoppo, spronando e sferzando vigorosamente i loro cavalli.

– Ehi!… Armando!… – gridò Falcone. – Da dove vieni dunque?…

– Zio mio!… – rispose il giovanotto, correndogli incontro.

– Corna di bisonte!… – urlò Bennie. – Sono dodici ore che vi cerchiamo per la foresta.

– Ed io quindici, – rispose Armando.

– Per mille coma di bufalo!… Dove siete stato?…

– Mi sono smarrito, Bennie.

– Nella foresta?…

– Sì

– Lo avevo sospettato.

– Sono ben felice di vedervi in salvo, Bennie. Avete ucciso quel dannato moose?

– Abbiamo assaggiato ieri sera le sue costolette e vi assicuro che erano eccellenti.

– Farò onore a un bel pezzo di arrosto, poiché muoio di fame.

– Povero Armando – disse il signor Falcone. – Che brutta notte avrai passata!

– Non brutta, zio, però poco è mancato che venissi ucciso.

– Da chi?

– Dagli indiani.

– Corna di bufalo!… – gridò Bennie. – Quel colpo di fucile che abbiamo udito pochi minuti fa, l’avete sparato contro degli indiani?

– Sì, Bennie.

– Avete ucciso qualcuno?

– Credo di sì.

– Un furfante di meno: raccontate, Armando.

Il giovanotto, in poche parole, lo informò di quanto gli era accaduto. Quand’ebbe finito, vide il canadese fare una smorfia.

– Diavolo!… – mormorò il bravo cacciatore. – Voi avete ferito o ucciso uno stregone dei Tanana?… Questa faccenda può avere tristi conseguenze, Armando.

– Lo credete? – chiese il signor Falcone.

– I Tanana sono coraggiosi e vendicativi, e non lasceranno impunita la morte del loro stregone.

– Voleva uccidermi – disse Armando.

– Voi avete avuto ragione a difendervi, non dico di no, e io avrei fatto altrettanto se non di peggio, però non vi nascondo che comincio ad essere inquieto, tanto più che fra poco dovremo attraversare il territorio dei Tanana.

– Bah!… – disse poi, alzando le spalle. – Se vorranno importunarci, li prenderemo a fucilate come quei cani di indiani del Piccolo lago degli Schiavi. Andiamo a tagliare un pezzo d’alce, prima che i lupi facciano sparire anche le ossa, e torniamo all’accampamento.

Si diressero verso il grosso animale che giaceva presso la macchia, e staccarono alcuni pezzi di carne, essendo questa assai delicata, molto superiore a quella di renna.

Il ritorno si compì felicemente, senza incidenti, e un’ora dopo Armando potè gustare un paio di bistecche di moose veramente eccellenti. La loro fermata sulle rive del lago fu brevissima, poiché temevano un ritorno dei Tanana. Caricarono le casse, imballarono le provviste, poi si misero in marcia verso il nord-ovest, volendo passare la frontiera dell’Alaska in prossimità di quell’enorme gruppo di montagne, formato dal gigantesco picco del Sant’Elia, dal Cook, dal Vancouver e dal Fairweather, prima di raggiungere il lago Hootalinkna o il fiume omonimo. La nuova pista, scelta dal canadese e dal signor Falcone, li metteva forse fuori portata da un inseguimento da parte dei vendicativi Tanana, però era estremamente difficile, dovendo superare i contrafforti di quella mostruosa catena di montagne che forma, si può dire, l’ossatura delle Rocciose. In breve infatti, le difficoltà incominciarono. Quella regione diventava veramente selvaggia, mentre il suolo si alzava rapidamente, interrotto di frequente da abissi spaventosi, gole senza fine, picchi aguzzi, rocce colossali che i cavalli non riuscivano a superare. Una settimana intera fu perduta fra quei contrafforti, una settimana lunga quanto un mese e orribilmente penosa. Più di cento volte i futuri minatori furono costretti a scaricare i cavalli e guidarli, uno ad uno, attraverso passaggi difficilissimi, spingendoli in alto. Uno degli animali precipitò in fondo a un baratro. Quali incomparabili panorami, però!… Quei picchi enormi formati dal Sant’Elia, il più alto colosso dell’America del Nord; il Cook che lancia la sua vetta a quattromila e novecento metri; il Vancouver a quattromila e il Fairweather a quattromila e settecento, offrivano spettacoli impossibili a descriversi.

Le loro candide cime, coperte di neve anche d’estate, parevano toccare il cielo, tanto sembravano alte, mentre sui loro mostruosi fianchi gli eterni ghiacciai, scintillavano come mari di fuoco sotto gli ultimi raggi del sole. L’ottavo giorno, sfiniti, quasi a secco di provviste, con i cavalli rattrappiti da tante marce faticose, si accampavano sul confine dell’America Russa, nella regione delle favolose miniere d’oro.

XXIV – L’ELDORADO DELL’ALASKA

La voce sparsasi nel 1858 che nella Columbia, fra le sabbie del Fraser, erano stati scoperti ricchi giacimenti d’oro, fu la principale fortuna dell’Alaska. Oltre trentamila minatori californiani, invasi dalla febbre dell’oro, si rovesciavano sulla Columbia, mettendo in serio pericolo la prosperità di San Francisco, capitale della California. Constatata la scarsità dell’oro di quelle miniere, gran parte di quegli emigranti ritornarono disillusi in California, però i più arditi, continuarono la marcia verso le regioni più ricche di giacimenti auriferi. Avanzando a piccole tappe, esplorando incessantemente i terreni dove supponevano di trovare il prezioso metallo, a poco a poco si spinsero nell’Alaska, superando l’enorme distanza che li separava dalla Columbia. Quanto tempo impiegarono a giungere fino alle rive dell’Yucon? Quanti di loro poterono arrivare su quel suolo saturo d’oro? Quanti lasciarono le loro ossa, spolpate dai lupi, su quelle terre desolate, coperte di nevi e di ghiaccio la maggior parte dell’anno? Comunque sia, quei pochi fortunati che riuscirono a raggiungere gli affluenti settentrionali del grande fiume, si accorsero di aver finalmente scoperto l’Eldorado che da tanti anni e con tanta pazienza cercavano. Sembra che la prima miniera lavorata fosse quella chiamata di Cassier Bar, situata in una regione desolata, verso il corso superiore dell’Yucon, fra montagne quasi inaccessibili. Quei primi minatori si guardarono bene dal propalare la scoperta, per non attirare altre persone, però, verso il 1885, qualche notizia cominciò a trapelare. Si sapeva che cercatori d’oro riuscivano a guadagnarsi giornalmente molti dollari e che le sabbie aurifere del fiume Stewart rendevano anche di più. Con tutto ciò rarissimi avventurieri osarono recarsi su quei luoghi, a causa delle difficoltà del viaggio, della mancanza quasi assoluta di comunicazioni, del freddo, dei pericoli e delle spese ingenti che esigevano quelle imprese temerarie. Nel 1892, però, altre notizie più precise cominciarono a trapelare. Si diceva che dei filoni di una ricchezza favolosa erano stati scoperti sulle rive del Klondyke. Quelle notizie scossero i più increduli e l’emigrazione cominciò dapprima lenta, poi più animata. Avventurieri di ogni specie salparono dai porti degli Stati dell’Unione o della Columbia, risalendo l’Yucon fino a Dawson e lanciandosi animosamente attraverso quelle solitudini nevose, mentre i cacciatori canadesi accorrevano dalle rive del Makenzie o dal Lago degli Schiavi. Molti, sfiniti dalle privazioni e dalle fatiche, ci lasciarono miseramente la vita, e i loro cadaveri servirono di pasto ai famelici lupi, ma i più forti, e i più fortunati giunsero alla meta sospirata.

L’oro abbondava negli affluenti dell’Yucon, forse più che sui famosi terreni della California. Fortune rapide, enormi, furono accumulate; però molto altrettanto rapidamente scomparvero nei bar di Dawson e attorno ai tavolini da gioco, fra i colpi di coltello e di rivoltella. Gli americani, da gente pratica, fondarono subito una città fra i pantani dell’Yucon e del Klondyke, alla quale imposero il nome di Dawson, aprendo alberghi e bar in gran numero, alberghi e case da giuoco che consistevano in capanne a uno o due piani, con una stanza per i viaggiatori a scompartimenti, divisi da tende di cotone. Non mancarono anche di fondare un giornale, il Klondyke News che, però, ebbe vita breve, avendo preferito i tipografi di lasciare il loro lavoro, per il più pesante, ma anche più redditizio mestiere di minatore. Sul finire del 1896, già più di ottanta milioni d’oro erano stati estratti e nel ‘97 più di cento. Non crediate però che questa produzione si arresti a queste cifre. Altri filoni si sono scoperti, ancora più ricchi, e altri si continuano a scoprire verso sud, nei valloni del Sant’Elia. Sembra anzi che i maggiori debbano trovarsi sepolti nei fianchi di quell’enorme massiccio di montagne, poiché le lunghe e ampie morene del nord attestano che l’oro proviene dal sud, da vene quarzose spaccate dai ghiacci e disgregate dai torrenti, e trasportate dalle acque a valle. Gli scienziati che hanno studiato quelle regioni, sono convinti che il Sant’Elia nasconda ben altri tesori che quelli del Klondyke e dello stesso parere sono i minatori, anzi vanno più oltre affermando che lassù sia possibile trovare delle rocce intere formate del prezioso metallo!…

Il signor Falcone e i suoi compagni avevano posto il loro accampamento all’estremità di un vallone ancora semicoperto di neve e reso selvaggio da altissimi pini, abeti, larici e betulle. Un corso d’acqua, che si dirigeva verso settentrione, formando di tratto in tratto laghetti minuscoli, scorreva a breve distanza, promettendo pesci eccellenti e uccelli acquatici. Delle loro provviste non rimanevano che poche libbre di farina, un sacchetto di pemmican del peso di due libbre, che avevano conservato gelosamente e un po’ di the con pochissimo zucchero. Tutto il resto era stato consumato durante la lunga ed aspra traversata delle montagne.

– Armando, amico mio, – disse Bennie, quando si fu riscaldato con una tazza di the. – Se non rinnoviamo le nostre provviste, fra pochi giorni saremo costretti a metterci a razione.

– Non vedo nemmeno un volatile, Bennie – rispose il giovanotto. – Mi pare che questo vallone non sia molto propizio per la caccia.

– Ragazzo impaziente!… Credete che la selvaggina corra a baciarvi le mani in attesa che voi l’ammazziate, per cacciarla nella pentola?

– Non chiedo tanto, Bennie, mi sembra però che questo luogo sia privo di animali.

– Se non troveremo selvaggina da pelo e da piuma, pescheremo negli stagni. Forse che sdegnereste un bel paio di trote bianche?

– No, davvero.

– Prima andremo quindi a visitare quegli stagni.

– Verrò anch’io, – disse il signor Falcone. – Back basterà a sorvegliare il nostro campo.

– Venite pure, signore, – disse Bennie.

 

– E come pescheremo? – chiese Armando.

– Faremo delle fiocine con i nostri bowie-knife, – rispose il canadese. – I pesci sono grossi, e non sarà difficile colpirli. Col mio coltello attaccato a un bastone, ho preso dei bei lucci e delle grosse trote nel Piccolo lago degli Schiavi, e anche in quello del Buffalo e dei salmoni nel Fraser.

– Allora andiamo.

Raccomandarono a Back di vegliare attentamente e di legare i cavalli per timore che si allontanassero, poi si diressero verso l’estremità del vallone, dove scorsero un bacino molto vasto, una specie di laghetto alimentato da un fiumicello. Un’ora dopo si trovavano sulle rive. Quel laghetto pareva non avesse acque molto profonde poiché nel mezzo vi si scorgevano dei gruppi di piante acquatiche, sui quali volteggiavano alcune coppie di anitre e di aironi. Tuttavia doveva essere egualmente ricco di pesci, poiché alla superficie si vedevano numerose bollicine d’aria; Bennie stava per inoltrarsi sotto un boschetto per tagliare dei lunghi rami con i quali improvvisare delle fiocine, quando la sua attenzione fu attirata da un oggetto nerastro che si vedeva ondeggiare all’estremità di una piccola insenatura.

– Oh!… – esclamò. – Che cosa c’è laggiù?

– Mi sembra un canotto – disse il meccanico, che aveva osservato in quella direzione.

– Andiamo a vedere – disse Bennie. – Se è veramente una barca, vi prometto una bella pesca.

Si diressero verso quella piccola cala, seminascosta da alcune macchie di salici e di betulle nane. Non si erano ingannati. Legato a una striscia di pelle, si trovava un canotto indiano in ottimo stato e capace di portarli tutti. Quei galleggianti, che gli indiani sanno costruire con molta abilità e con materiali che trovano lungo le rive dei loro fiumi e dei loro laghi, non sono ricavati da tronchi d’albero scavati. Si compongono d’una solida armatura di salice, coperta con larghi pezzi di corteccia di betulla, uniti insieme da sottilissime radici di abete e calafate con resina. Sono ordinariamente lunghi dieci piedi, però ce ne sono anche da sedici, e questi possono portare comodamente tre persone. Malgrado la loro estrema leggerezza, possono affrontare le correnti più rapide senza correre il pericolo di rompersi o di rovesciarsi. Il canotto scoperto da Bennie aveva a bordo due fiocine, una provvista di resina e un paio di corte pagaie con la pala molto larga.

– Faremo una corsa sul laghetto, – disse il canadese, – e andremo ad arpionare le trote, al largo.

– Credo che non ce ne sia bisogno, – disse il signor Falcone che, da qualche istante osservava dei pali sporgenti dalle acque, a circa cinquecento metri dalla riva. – O m’inganno, o laggiù ci sono di quei panieri da pesca usati dagli indigeni.

– È vero, signore, – disse Bennie, dopo aver osservato attentamente quelle pertiche. – Andiamo a vedere.

Entrati nel canotto. Armando si mise a prora, il signor Falcone a poppa, per mantenere meglio l’equilibrio, e Bennie nel centro, con i remi. Il leggero galleggiante, spinto vigorosamente, uscì dall’insenatura, dondolandosi graziosamente, e si diresse rapidamente verso quei panieri da pesca. Armando, curvo sulla prora, esplorava intanto le acque trasparenti per vedere se erano ricche di pesci, e dovette presto convincersi che quel laghetto era straordinariamente pescoso. Pesci di ogni specie, per lo più grossi, guizzavano in fondo al bacino, rifugiandosi in mezzo alle piante acquatiche, alcuni neri come carboni, altri bianchi a riflessi argentei, e altri ancora di una bella tinta azzurra. Ce n’erano tanti, che una rete sarebbe stata subito riempita.

Bennie, pur continuando a remare, guardava, e quando ne scorgeva qualcuno, s’affrettava a nominarli.

– Una nalina… poco buono… buono pei cani… Una trota bianca… eccellente!… eccellente!… Un pesce a crine di cavallo… passabile… Un luccio… buono… Un barbio… squisito!…

Arrancando con maggior lena, il canotto giunse finalmente là dove erano stari immersi i canestri indiani. I Co-Yuconi e i Tanana non conoscono l’uso delle reti, pure hanno trovato il modo di prendere i pesci che popolano abbondantemente i loro corsi d’acqua e i loro laghi, adoperando certi panieri foggiati a imbuto, fabbricati con vimini sottilissimi. Quando comincia l’inverno, piantano dei pali nei fiumi o nei bacini, vi appendono gli imbuti e lasciano che il freddo formi il ghiaccio, avendo però la precauzione di mantenere aperto un buco. I pesci, vedendo quel barlume di luce, si cacciano dentro agli imbuti e rimangono prigionieri in gran numero. Bennie che conosceva quel sistema di pesca, si affrettò ad alzare i panieri, certo di trovarli pieni; però, con sua grande sorpresa, non trovò in tutti e tre che quattro grossi lucci, del peso complessivo di quindici o venti chilogrammi.

– I bricconi hanno distrutto tutti gli altri – disse.

In quel momento udì in aria un lungo fischio, e vide calare sul laghetto, a circa trecento metri, un bellissimo cigno dalle candide penne.

– A voi, Armando, – disse. – Quel volatile vale molto più di questi pescicani d’acqua dolce.

Il giovanotto si era alzato col fucile in mano per mirare, quando vide il grazioso volatile battere disperatamente le ali, e fare sforzi infruttuosi per rialzarsi.

– Che succede laggiù?… – si chiese il giovane, stupito. – Pare che quel povero cigno sia alle prese con qualcuno.

– Che si sia imbrogliato fra le piante acquatiche? – chiese il signor Falcone.

– Non posso crederlo – disse il canadese. – A me sembra che sia stato afferrato da qualche abitante del lago. Non vedete che ha la testa sott’acqua, e non può liberarla?

– Suppongo che non ci siano coccodrilli, qui – disse Armando.

– No, giovanotto – rispose Bennie.

– Credo d’indovinare di che cosa si tratta, – disse il signor Falcone, il quale osservava attentamente gli sforzi che faceva il volatile.

– Spiegati, zio, – disse Armando.

– Quel cigno è stato afferrato da qualche luccio.

– Oh!… Zio!…

– Non credi?

– Un luccio prendersela con un cigno?

– Ti stupisce?

– Mi sembra un’assurdità.

– Bennie, amico mio andiamo un po’ a vedere – disse il signor Falcone.

Il canadese riprese i remi e spinse il canotto al largo. Intanto il povero cigno continuava a dibattersi disperatamente per liberare la testa, che rimaneva ostinatamente sott’acqua. Le sue larghe ali, si agitavano furiosamente, facendo spruzzare nembi di spuma, senza, però, riuscire a sollevare il corpo. Dei fischi soffocati giungevano agli orecchi del canadese e dei suoi compagni, interrotti da una serie di suoni strani che parevano prodotti da una tromba. Ad un tratto il povero cigno, vinto dal nemico subacqueo, distese un’ultima volta le ali, arruffò le sue belle penne, poi si abbandonò sull’acqua senza vita.

– È morto – disse Armando.

Bennie, temendo che il vincitore se lo trascinasse sott’acqua, con quattro vigorosi colpi di remo raggiunse il volatile. Armando e il signor Falcone si curvarono e lo trassero a bordo, ma non solo. Un grosso pesce, che fu subito riconosciuto per un luccio, vi era appeso. Quel piccolo squalo d’acqua dolce aveva afferrato il volatile per la testa, credendo d’inghiottire la preda gigante, come se si fosse trattato di un semplice pesce di qualche libbra, e non potendo riuscire nel suo intento, l’aveva soffocata. Il ghiottone, però, che aveva già ingollata la testa, era rimasto anche lui asfissiato, restando appeso alla preda. Il luccio, uno dei più grossi, era pesante circa otto chili e provvisto di una bocca armata di numerosi e robusti denti, capace di contenere la testa del volatile.

– Se raccontassimo che uno di questi pesci è stato sorpreso mentre cercava di impadronirsi d’un cigno, ci riderebbero in viso – disse Armando, il cui stupore non aveva limiti.

– Chi conosce la voracità dei lucci, non si sorprenderebbe, – disse il signor Falcone. – Questo caso non è nuovo, Armando.