Za darmo

I figli dell'aria

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Il magistrato, che aveva forse indovinato le idee bellicose del cosacco e che non desiderava vederlo ancora arrabbiato per paura di provare la sua forza, piegò a destra, inoltrandosi in un corridoio e si arrestò dinanzi ad una porta ferrata.

Un carceriere stava dinanzi, tenendo in mano una chiave enorme. Ad un cenno del magistrato aprì ed i due europei si sentirono bruscamente spingere innanzi. Rokoff stava per rivoltarsi, ma la porta fu subito chiusa.

Si trovavano in una cella lunga tre metri e larga appena due, rischiarata da un pertugio difeso da grosse sbarre di ferro e che pareva prospettasse su un cortile, essendo la luce fioca. L’unico mobile era un saccone, forse ripieno di foglie secche, che doveva servire da letto.

– Bell’alloggio! – esclamò Rokoff. – Nemmeno una coperta per difenderci dal freddo.

– E nemmeno uno sgabello – disse Fedoro. – Molto economi questi cinesi.

A un tratto si guardarono l’un l’altro con ansietà.

Avevano udito dei gemiti sordi e strazianti, che parevano provenire dal cortile.

– Si tortura anche presso di noi? – chiese Rokoff.

S’avvicinò al pertugio guardando al di fuori, e subito retrocesse, pallido come un cadavere.

– Guarda, Fedoro – disse con voce soffocata. – Che cosa fanno subire a quei miseri?… L’orrore mi agghiaccia il sangue.

GLI ORRORI DELLE CARCERI CINESI

Fedoro, quantunque provasse una sensazione non meno terrificante, spinto da una viva curiosità, si era approssimato al pertugio, il quale, trovandosi solamente a un metro e mezzo dal suolo, permetteva di vedere al di fuori senza dover arrampicarsi.

Non immetteva veramente su un cortile, bensì sotto una immensa tettoia, il cui pavimento era formato da un tavolato crivellato di buchi.

Cinque o sei esseri umani, che parevano già agonizzanti, cogli occhi schizzanti dalle orbite, pallidi come se tutto il sangue avesse abbandonato i loro corpi, si contorcevano disperatamente, mandando lugubri lamenti.

Non si vedevano che i loro tronchi, avendo le gambe, fino alle cosce nascoste entro il tavolato, in quei buchi che già Fedoro aveva notati.

Alcuni aguzzini seminudi, veri tipi di carnefici, si sforzavano di far inghiottire ai martirizzati un po’ di riso e qualche sorso di sciam-sciù, specie di acquavite estratta dal miglio.

– Ah! Infami! – esclamò Fedoro, rabbrividendo. – Quale spaventevole tortura!… Uccideteli piuttosto di tormentare così quei disgraziati.

– Che cosa stanno facendo quei mostri? – chiese Rokoff, additando gli aguzzini.

– Cercano di prolungare l’agonia alle loro vittime.

– E quale spaventevole supplizio subiscono quei miseri? Forse che stritolano lentamente le loro gambe?

– Peggio ancora, Rokoff. Io ho udito parlare di questa atroce tortura e non vi avevo creduto, tanto mi pareva inverosimile.

– Spiegati, Fedoro, sono un uomo di guerra.

– Sotto quell’assito esiste un fossato…

– E poi?

– Pullulante di topi, di vermi, d’insetti d’ogni specie.

– Ah! Comprendo! – esclamò Rokoff, con orrore. – Essi divorano lentamente le gambe di quei miseri.

– Sì, amico.

– Canaglie! Potevano inventare un supplizio più atroce! E non poter far nulla! Se fossi libero accopperei a calci quei carnefici! Questi cinesi hanno il cuore delle tigri! Andiamocene, Fedoro! Quei lamenti mi straziano l’anima!

– E dove andarcene? Sarei ben lieto di poter uscire; invece, come vedi, la porta è chiusa e solida.

– Ti dico che non voglio rimanere più qui, dovessi spezzarmi le ossa contro queste pareti.

Il bollente cosacco, senza attendere la risposta dell’amico, fidando d’altronde nella sua erculea forza, si scagliò come una catapulta contro la porta, facendola traballare.

– La scardineremo! – gridò. – E allora guai a chi vorrà chiudermi il passo.

Stava per slanciarsi una seconda volta, quando i due battenti s’aprirono violentemente, mostrando il magistrato seguito da quattro soldati armati di fucili colle baionette inastate.

Fedoro ebbe appena il tempo di gettarsi dinanzi all’amico, il quale, reso maggiormente furioso, stava per scagliarsi contro tutti, risoluto ad impegnare una lotta disperata.

– No, Rokoff – disse. – Sarebbero troppo contenti di ucciderci!

– Che cosa fate? – chiese il magistrato. – Ancora una ribellione? Questi europei cominciano a diventare troppo importuni.

– Levateci di qui – disse Fedoro. – Noi non siamo dei cinesi per assistere alle vostre barbarie. Nella vicina tettoia si tormenta e si uccide.

– Sì, dei ribelli che avevano cospirato contro l’impero – rispose il giudice. – Sono cose d’altronde che riguardano noi e non voi.

– Non possiamo resistere a simili infamie. Il giudice alzò le spalle, poi disse:

– Siete aspettati.

– Da chi? Da qualche membro dell’ambasciata? – chiese Fedoro, che aveva avuto un lampo di speranza.

– Non siamo così schiocchi da avvertire il vostro ambasciatore. È il tribunale che vi aspetta per giudicarvi. Abbiamo fretta di vendicare Sing-Sing.

– E di ucciderci, è vero? – chiese Fedoro, sdegnosamente.

– Sì, se siete colpevoli.

– Tu sai meglio di noi che noi non abbiamo commesso quell’abominevole delitto.

– Il tribunale giudicherà. Venite e non opponete resistenza perché i soldati hanno ricevuto l’ordine di fare fuoco su di voi.

– Andiamo – disse Fedoro a Rokoff, dopo avergli tradotto quanto aveva detto il giudice. – Vedremo se il tribunale oserà condannare degli europei senza l’intervento d’un membro dell’ambasciata russa.

Ritenendo inutile ogni protesta e troppo pericolosa una nuova resistenza, seguirono il giudice, attraversando parecchi androni quasi bui, dove non si vedevano altro che gabbie destinate ai prigionieri più ricalcitranti, ed entrarono in una saletta quadrata e bassa, ammobiliata con un lurido tavolo sopra cui si vedeva un tappeto ancor più lurido.

Due giudici, appartenenti probabilmente all’alta magistratura, avendo sui loro conici cappelli di feltro il bottone di corallo con fibbia d’oro, insegna dei mandarini di seconda classe, stavano seduti dinanzi al tavolo.

Erano due panciuti cinesi, dalle facce color del limone, con grandi occhiali di quarzo, vestiti di seta a enormi fiori gialli, rossi e azzurrini.

Presso di loro un cancelliere magro e sparuto, stava sciogliendo un bastoncino d’inchiostro di Cina e preparando dei pennelli, non conoscendo ancora i cinesi la penna o reputandola per lo meno inutile per le loro calligrafie veramente mostruose.

In un angolo invece si tenevano ritti due individui d’aspetto sinistro, che portavano alla cintura certi coltellacci da far rabbrividire. Erano due esecutori della giustizia, pronti a far subire ai condannati i più atroci tormenti, anche lo spaventoso ling-cih o taglio dei diecimila pezzi, riservato ai traditori e ai più pericolosi delinquenti.

Nel vederli, Fedoro aveva provato un lungo brivido.

I due mandarini si sussurrarono alcune parole, guardando di traverso i due europei, poi il più anziano si volse verso Fedoro, chiedendogli:

– Voi comprendete il cinese?

– Sì, ma il mio compagno non parla che il russo, quindi domando che vi sia un interprete dell’ambasciata russa.

– Tradurrete voi; noi non vogliamo stranieri qui, all’infuori dei colpevoli.

– Noi non siamo sudditi cinesi, quindi voi non avete alcun diritto di giudicarci senza la presenza d’un rappresentante del nostro paese.

– Per far intervenire l’ambasciatore e levarvi dalle nostre mani? Oh! Le conosciamo queste cose.

– Io protesto.

– Lo farete poi – disse il mandarino. – Voi siete accusati di aver assassinato Sing-Sing, un fedele suddito dell’Impero.

– Chi lo afferma?

– Tutta la servitù di Sing-Sing ha deposto contro di voi.

– Sono dei miserabili, degli affiliati alla società segreta della «Campana d’argento», che per salvare i veri assassini incolpa noi.

– Sì, sì, la vedremo. Da dove venite voi?

– Io ed il mio amico Rokoff, ufficiale dell’armata russa, siamo sbarcati a Taku sette giorni or sono per venire qui ad acquistare cinquecento tonnellate di tè.

– Siete un negoziante di tè, voi?

– Sì, e la mia casa si trova a Odessa.

– Siete venuto altre volte in Cina?

– Tutti gli anni ci torno.

– E conoscevate Sing-Sing?

– Da molto tempo ed ero suo amico. Quale scopo dovevo dunque avere io per assassinarlo?

– L’odio che tutti gli europei nutrono verso di noi e…

– Mentite!

– E poi quello di derubarlo, perché il suo forziere è stato trovato vuoto.

– E dove volete che noi abbiamo nascosto il suo denaro?

– Chi mi assicura che non abbiate avuto dei complici? – chiese il mandarino. – Il maggiordomo di Sing-Sing ha affermato d’aver veduto delle persone sospette aggirarsi intorno al palazzo, anche dopo che tutte le lanterne erano state spente.

– Allora è lui il colpevole! È lui il ladro! È lui che ha protetto gli affiliati della «Campana d’argento».

– Il maggiordomo era affezionato al suo padrone; tutta la servitù lo ha confermato.

– Sicché voi siete convinto che Sing-Sing sia stato assassinato da noi?

Il mandarino alzò le braccia, poi le lasciò ricadere con un gesto di scoraggiamento, più simulato però che reale.

Fedoro fu preso da un impeto di furore.

– Voi non ci ucciderete, canaglie! – urlò, battendo furiosamente il pugno sul tavolo. – Noi siamo innocenti e per di più europei.

– Se siete innocenti, provatelo – rispose il mandarino con calma.

– Cominciate coll’arrestare il maggiordomo e costringerlo a confessare la verità. A voi i mezzi non mancano per strappargli quanto egli sa e che non vuol dire.

– Non abbiamo alcun motivo per tradurlo qui e sottoporlo alla tortura. Non è già nella sua stanza che fu trovato il pugnale che servì agli assassini per trucidare Sing-Sing.

 

– Siete dei banditi!…

– Dei giudici.

– No, delle canaglie, che per odio di razza volete sopprimerci, ma le ambasciate europee non vi permetteranno di compiere una simile infamia.

Il mandarino alzò le spalle, poi fece un gesto.

Prima che Fedoro e Rokoff potessero sospettare ciò che significava, si sentirono afferrare per le spalle e per le braccia da dieci mani vigorose ed atterrare.

Una banda di carnefici o di carcerieri, tutti di statura gigantesca, era entrata silenziosamente nella sala ed al cenno del mandarino si era scagliata improvvisamente sui due europei, prendendoli di sorpresa.

Né Fedoro, né Rokoff avevano avuto il tempo di opporre la menoma resistenza, tanto quell’assalto era stato fulmineo.

Mentre i giudici si ritiravano per deliberare sulla pena da infliggersi ai due colpevoli, i carcerieri ed i carnefici, aiutati anche dai soldati, strappavano di dosso ai due russi le loro vesti, costringendoli ad indossare una ruvida keu-ku, specie di casacca fornita d’ampie maniche ed un paio di keu-ku, sorta di calzoni molto ampi che formano sul ventre una doppia piega e che usano portare i barcaioli ed i contadini.

Levarono quindi loro gli stivali, surrogandoli invece con le ha-tz, ossia scarpe grosse, a punta quadra e un po’ rialzata, con suola di feltro bianco, poi con pochi colpi di rasoio fecero cadere le loro capigliature, non lasciando coperta che parte della nuca.

Era una trasformazione completa: i due europei erano diventati due cinesi e per di più dell’ultima classe.

Quando quei manigoldi ebbero finito, sollevarono violentemente Fedoro e Rokoff e li cacciarono a forza entro una gabbia di bambù, d’una solidità a tutta prova e così stretta da contenerli a malapena.

Quando Rokoff si sentì libero, mandò un vero ruggito. S’aggrappò alle sbarre e le scosse con furore, mentre dalle sue labbra contratte uscivano urla feroci.

– Banditi! Canaglie! Vi mangerò il cuore! Siamo europei! Aprite o vi uccido tutti!

Erano vani sforzi. I bambù non si piegavano nemmeno, quantunque l’ufficiale, come abbiamo detto, fosse dotato d’una forza più che straordinaria. Fedoro invece, accasciato da quell’ultimo colpo, si era lasciato cadere in fondo alla gabbia girando intorno sguardi inebetiti.

Intanto il cancelliere era rientrato tenendo in mano un cartello su cui si vedevano dipinte delle lettere contornate da geroglifici superbi. Lo mostrò per un momento ai due prigionieri, poi lo appese sotto la gabbia.

Fedoro era diventato orribilmente pallido e si era avventato contro le traverse come se avesse voluto strappare al cancelliere quel cartello che annunciava la loro pena.

Ed infatti aveva potuto leggere:

Condannati a morte perché assassini.

Subito otto uomini avevano alzato la gabbia ed erano entrati in un’altra sala dove se ne vedevano parecchie altre contenenti ciascuna due prigionieri, ma molto più piccole, tanto anzi, che i disgraziati che vi erano rinchiusi non potevano fare il più piccolo movimento senza mandare urla spaventose.

– Fedoro – disse Rokoff, che aveva gli occhi schizzanti dalle orbite. – È finita, è vero?

– Sì, se non interviene l’ambasciatore russo.

– E oseranno ucciderci?

– Come cinesi.

– Perché ci hanno vestiti così?

– Onde nessuno possa sospettare che noi siamo europei.

– E come ci faranno morire?

– Non so… ma ho paura e sento che divento pazzo!…

I CONDANNATI

L’Inquisizione di Spagna ha avuto nei cinesi i suoi maestri. Questo popolo, che da duemila anni si è, per così dire, cristallizato, senza fare un passo nella via della civiltà, fra le molte cose ha conservato anche oggidì i suoi supplizi.

Come torturavano venti secoli or sono, i giustizieri cinesi martirizzano i disgraziati prigionieri anche ora.

Gli uomini erano così fatti allora: bricconi ve n’erano in quei tempi remoti e ve ne sono ancora: perché cambiare? Ecco il ragionamento della magistratura cinese.

Una, sola tortura è stata abbandonata, la terribile colonna di fuoco, inventata dall’imperatore Chean-Sin per far piacere alla bella Fan-ki, che desiderava vedere contorcersi, sul bronzo ardente, i condannati a morte. Strumento spaventevole, consistente in una colonna di bronzo cava, che si riempiva di carbone finché diventasse tutta rossa, intonacata esternamente di pece e di resina e che i condannati dovevano a forza abbracciare, mediante catene, e rimanervi finché le loro carni fossero completamente consumate. Eccettuata questa, tutti gli strumenti di tortura sono stati conservati.

Per punire coloro che hanno commesso piccoli falli, si servono del bastone. Cinquanta e anche cento legnate, somministrate con una rapidità così prodigiosa che il condannato rischia sovente di morire soffocato, bastano a punire piccoli falli, e anche a rovinare talvolta il dorso al disgraziato che le riceve e che non ha avuto la precauzione di regalare qualche tael agli esecutori.

Pei recidivi hanno la cangue, che i cinesi chiamano veramente kia, specie di tavola che pesa ordinariamente quindici chilogrammi e che serve per imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani.

Parrebbe a prima vista una pena tollerabilissima; invece finisce per diventare estremamente dolorosa, perché il povero condannato non può mangiare da solo e sovente corre il pericolo di morire di fame per incuria dei carcerieri.

E questo non è tutto. Dopo un mese le spalle si rompono e si coprono di piaghe e quando la pena è finita, il prigioniero non è più che uno scheletro. Sono queste le torture minime, che di rado uccidono. Hanno poi gabbie strettissime dove il condannato è costretto a vivere ripiegato in due per mesi e mesi, rovinandosi le carni contro i bambù e storpiandosi le membra; hanno gabbioni più vasti dove si ammucchiano in una sola volta perfino quindici condannati, ai quali i carcerieri danno di rado da mangiare e dove sono costretti a vivere fra la più ripugnante sporcizia.

Hanno poi altre gabbie irte di chiodi che traforano atrocemente le gambe e le mani dei pazienti; coltelli d’ogni dimensione per tagliuzzare la pelle e quindi strapparla a lembi, funi per strangolare, tenaglie roventi per strappare la carne; poi la terribile pena del ling-cink, ossia del taglio dei diecimila pezzi.

La decapitazione poi è cosa comune e si eseguisce in pubblico, sotto una tettoia, mediante una larga sciabola, pena forse più temuta delle altre, non amando il cinese andarsene all’altro mondo colla testa staccata.

E quali orrori poi dentro le carceri! Non sono carcerieri, sono feroci manigoldi, che inchiodano alle pareti le mani dei prigionieri allorquando mancano le catene; che bastonano senza pietà quelli rinchiusi nelle gabbie per farli tacere, quando quei miseri non possono sopportare più oltre l’atroce martirio; che preferiscono appropriarsi dei viveri che il governo assegna alle amministrazioni delle carceri; e che piuttosto di incomodarsi, allorquando qualche prigioniero muore molto sovente di fame, lo lasciano imputridire nella sua gabbia in attesa che i topi lo facciano sparire!

. . . . . . . . . . . . . . .

Fedoro e Rokoff erano rimasti come inebetiti dall’orrore, dinanzi all’atroce scena che si svolgeva sotto i loro occhi.

Intorno a tutte quelle gabbie, degli aguzzini armati di bastoni e di ferri infuocati, bastonavano senza posa i disgraziati che vi stavano rinchiusi o rigavano a fuoco lo loro membra anchilosate, provocando urla e strida orribili.

Erano almeno una dozzina che s’accanivano con un sangue freddo ributtante, contro una trentina di prigionieri impacchettati fra le traverse di bambù, spaventosamente magri, tutti più o meno sanguinanti, colle vesti stracciate e gli occhi enormemente dilatati dal terrore.

– Ma questa è una bolgia infernale! – esclamò finalmente Rokoff. – E oserebbero applicare anche a noi quelle torture? Parla, Fedoro!

– No… non è possibile – rantolò il negoziante di tè, che aveva l’aspetto d’un pazzo. – No… una simile infamia contro di noi!…

– Fedoro, che cosa possiamo tentare? Ci lasceremo torturare e assassinare in questo modo da queste canaglie? Noi siamo innocenti.

– Non so che cosa risponderti, mio povero amico.

– Ciò che ci succede è spaventevole! No, non può essere che un sogno! – gridò Rokoff.

– È pura realtà, amico mio.

– E non tenteremo nulla?

– Non possiamo far altro che rassegnarci.

– Ah! no, vivaddio! Io spezzerò questa gabbia maledetta e farò un massacro di tutti!

– Non riuscirai ad abbattere le traverse – disse Fedoro.

– Lo credi? Ebbene, guarda!

Il cosacco, a cui il furore centuplicava le forze, afferrò due canne e le scosse con tale rabbia, da farle inarcare e scricchiolare.

Un carnefice, che stava rigando le cosce ad un disgraziato prigioniero mediante una sbarra di ferro arrossata al fuoco, accortosi di quell’atto, accorse, vociando e minacciando.

– Toccami, se l’osi! – urlò Rokoff, allungando le mani attraverso le canne.

Quantunque l’aguzzino non avesse potuto comprendere la frase, vedendo quell’Ercole in quella posa, si era arrestato titubando.

– Noi siamo europei! – gridò Fedoro. – Guardati, perché le Ambasciate ci vendicheranno e vi faranno uccidere tutti.

Quella minaccia, forse più che l’atteggiamento del cosacco, aveva fatto indietreggiare il carnefice.

– Europei! – aveva esclamato.

Poi, passato il primo istante di stupore e anche di terrore, aveva rialzata l’asta infuocata, minacciando d’introdurla fra le traverse e di calmare i due prigionieri con qualche puntata.

– Giù quel ferro! – urlò Rokoff, scuotendo le canne con maggior vigore. – Giù o ti strangolo come un cane.

– Tu non mi fai paura – rispose l’aguzzino. – Ora lo vedrai.

Stava per farsi innanzi, quando la porta della sala si aprì lasciando il passo al magistrato che aveva arrestato i due europei nella casa di Sing-Sing. Vedendo il carnefice avvicinarsi alla gabbia, con un grido lo arrestò.

– No, costoro – disse precipitosamente – non ti appartengono! Vattene! Vedendolo, anche Fedoro si era afferrato alle canne, gridandogli:

– Canaglia! Mettici subito in libertà! Tu sai che siamo stati condannati senza colpa e che gli assassini sono gli affigliati della «Campana d’argento».

– La liberazione non è lontana – rispose il magistrato. – Abbiate pazienza fino a domani.

– Allora levateci da questa gabbia.

– È impossibile per ora.

– Noi non possiamo resistere a queste atroci scene.

– V’interessate di quei banditi? – chiese il magistrato.

– Non siamo abituati ad assistere a simili torture.

– Manderò via i carnefici.

– E fate dare da mangiare a quei miserabili che muoiono di fame. La vostra giustizia vi disonora.

– Avranno dei cibi, – rispose il magistrato. – I nostri carcerati sono trascurati, questo è vero.

Con un gesto che non ammetteva replica, fece uscire tutti; poi, rivolgendosi ai due europei, disse:

– Non farete nulla per informare la vostra ambasciata fino a domani mattina? Solo a questa condizione io vi prometto di lasciarvi tranquilli.

– Avete la nostra parola – rispose Fedoro.

– Vi farò subito servire il pasto.

– Se non possiamo quasi muoverci?

– Vi ho detto che pel momento non posso liberarvi, perché la grazia dell’Imperatore non è ancora giunta. Tranquillatevi e abbiate fiducia nella giustizia cinese.

– Che cosa ti ha detto quel miserabile? – chiese Rokoff, quando il magistrato fu lontano.

– Che domani saremo liberi – rispose Fedoro, raggiante. – Essi hanno avuto paura di qualche denuncia all’ambasciata. Hanno voluto solamente spaventarci, sperando forse che noi confessassimo il delitto che non abbiamo commesso.

– Ti giuro che non me ne andrò da Pechino senza strangolare qualcuno. Mi prendano poi, se ne saranno capaci.

– E chi?

– Quel furfante di maggiordomo.

– Ti prometto di aiutarti. Egli è stato la sola causa delle nostre disgrazie. Deve aver protetto i membri della «Campana d’argento», messo il pugnale nella nostra camera e poi saccheggiata la cassa del suo padrone.

– Noi lo strozzeremo, no, lo martirizzeremo in modo che muoia a poco a poco.

Alcuni carcerieri erano entrati portando delle scodelle di riso, del formaggio fatto con fagioli, piselli mescolati a farina, gesso e succhi di vari semi, che ha il sapore dello stucco e che pure è assai pregiato in Cina, dei pien-hoa o radici eduli, delle arachidi e delle kau-ban, ossia olive salate e poi seccate. Passarono i tondi entro la gabbia occupata dai due europei, poi si ritirarono precipitosamente per paura di venire afferrati dalle poderose mani dell’ufficiale dei cosacchi.

 

Altri intanto avevano portato ai miseri, che morivano di fame nelle altre gabbie, delle terrine ricolme d’una certa poltiglia nera, che esalava un odore nauseabondo, formata da chissà quali generi alimentari.

Fedoro e Rokoff, che dalla sera innanzi non avevano assaggiato alcun cibo, quantunque potessero appena muoversi, vuotarono i tondi, scartando però le arachidi, buone solamente pei palati dei cinesi, essendo rancidissime.

Terminato il pasto, il magistrato, che era ritornato, si sedette presso la gabbia offrendo loro, con molta gentilezza, alcune tazze di tè recate da un carceriere e dei sigari europei; poi impegnò con loro una divertente conversazione.

Non era più il burbero magistrato che li aveva trattati da assassini e perfino minacciati di farli fucilare. Era un vero cinese delle caste alte, cerimonioso fino all’eccesso, amabilissimo, che discuteva con competenza anche sulle cose europee. S’intrattenne con loro fino a quando le lanterne furono accese, poi si accomiatò augurando la buona notte e promettendo che all’indomani sarebbero stati rimessi in libertà.

– Fedoro – disse Rokoff, quando furono soli. – Capisci qualche cosa tu di questi cinesi? Io no, te lo assicuro. Poco fa pareva che volessero sottoporci alla tortura; ora ci colmano di cortesie.

– Senza liberarci però – rispose il russo, che pareva un po’ preoccupato. – Si direbbe che tu dubiti della promessa fattaci.

– No, ma… vorrei essere già lontano da qui.

– Ci andremo domani e anche in fretta. Ci recheremo a comperare il tè a Canton od a Nan-King o in qualche altro luogo. Qui non ci fermeremo nemmeno un’ora dopo…

– Dopo che cosa?

– Che avremo strangolato il maggiordomo. Per le steppe del Don! Quel gaglioffo non vedrà tramontare il sole domani sera, parola di Rokoff!

Fedoro non rispose e si accomodò alla meglio per dormire. Ciò era possibile, perché gli altri condannati, dopo la zuppa somministrata loro dai carcerieri, avevano cessato di urlare.

Rokoff, vedendo il compagno chiudere gli occhi, si allungò quanto glielo consentiva lo spazio e cercò d’imitarlo, sognando già di sentire sotto le mani il collo del maggiordomo di Sing-Sing. All’indomani, quando riaprirono gli occhi, svegliati dalle urla degli affamati, ai quali la zuppa del giorno innanzi non era stata sufficiente a calmare i lunghissimi digiuni, Fedoro e Rokoff videro la loro gabbia circondata da otto robusti facchini.

Due lunghe aste, un po’ elastiche, erano state passate fra le canne che formavano la parte superiore della piccola prigione, assicurandole con corde.

– Pare che si preparino a portarci via – disse Rokoff. – Che ci conducano all’ambasciata rinchiusi qui dentro? Potevano metterci in una portantina, questi spilorci; avrei pagato ben volentieri il nolo.

Fedoro non aveva risposto. Guardava con viva inquietudine i facchini, chiedendosi dove lo avrebbero portato.

Cercò cogli sguardi il magistrato, ma non era ancora giunto. Invece erano entrati dodici soldati, armati di fucili, guidati da un ufficiale che faceva pompa d’una larga e lunghissima scimitarra.

– Fedoro, – riprese Rokoff – dove vogliono condurci? Domanda a quel comandante perché non ci mettono subito in libertà, come ci aveva promesso il magistrato. Tu non mi sembri tranquillo.

– È vero, Rokoff; sono preoccupato per l’assenza del magistrato.

– Si sarà ubriacato d’oppio e giungerà più tardi.

In quel momento l’ufficiale si avvicinò ai facchini, dicendo:

– Andiamo.

– E dove? – chiese Fedoro, mentre la gabbia veniva alzata.

Il comandante del drappello guardò il russo con stupore, inarcando le sopracciglia. Forse era sorpreso di sentirsi interpellare da un prigioniero.

– Vi ho domandato dove ci volete condurre – replicò Fedoro. – Ci era stata promessa la libertà per stamane.

– Ah! – fece l’ufficiale.

Poi, voltandogli bruscamente le spalle, disse:

– Orsù, sbrigatevi.

Quattro facchini si posero le aste sulle spalle e portarono fuori la gabbia, seguiti dagli altri quattro che dovevano surrogarli più tardi e dal drappello dei soldati.

L’ufficiale marciava innanzi a tutti, colla scimitarra sfoderata.

– Comprendi nulla tu? – chiese Rokoff al negoziante di tè.

– Non so spiegarmi il motivo per cui hanno preso tante precauzioni verso due uomini che devono mettersi in libertà – rispose il russo, le cui inquietudini aumentavano.– Vedremo come finirà questa avventura.

Un carro massiccio, tirato da due cavalli e scortato da dodici cavalieri manciù, li attendeva fuori della prigione.

La gabbia fu caricata, solidamente assicurata, poi i cavalli partirono al galoppo, fiancheggiati dai manciù.

– Questi cinesi vogliono rovinarci – disse Rokoff, che si aggrappava fortemente alle canne per resistere agli urti ed ai soprassalti che subiva il ruotabile. – Ehi, cocchiere del malanno! Rallenta un po’ la corsa! Non siamo già di caucciù noi! Basta, ti dico, buffone!

Erano parole sprecate. I cavalli, piccoli, vivaci, eppur vigorosi, come sono tutti quelli dell’impero, galoppavano sfrenatamente, imprimendo al carro delle scosse disordinate in causa del pessimo stato delle vie, quasi tutte sfondate e rigate da solchi profondissimi.

Sempre scortati dai manciù, i prigionieri attraversarono i quartieri meno popolati della capitale e che stante l’ora mattutina erano ancora quasi deserti e uscirono dalla porta di Shahuomen, passando sotto una massiccia torre quadrata.

– Dove ci conducono, Fedoro? – chiese Rokoff, vedendo il carro seguire i bastioni esterni.

– Vorrei saperlo anch’io.

– All’ambasciata no di certo.

– Siamo usciti dalla città.

– E ci dirigiamo?

– Verso il Pei-Ho, se non m’inganno. Ah! Mi viene un sospetto.

– E quale Fedoro?

– Che c’imbarchino su qualche giunca e che ci traducano a Tient-sin o fino al mare per impedirci di fare i nostri reclami all’ambasciata russa.

– Ci sfrattano dall’impero?

– Lo suppongo, Rokoff.

– Che ci mandino via non m’importa: mi rincresce solo di andarmene senza aver strozzato quel cane di maggiordomo. Però non siamo ancora giunti al mare.

Il carro intanto continuava la sua corsa indiavolata, seguendo sempre le mura della capitale, robustissime ancora, quantunque contino molti secoli, alte nove metri, con uno spessore di cinque, tutte lastricate in marmo, con bastioni, torri, fossati e cannoniere in gran numero, guardati però, per la maggior parte, da pezzi d’artiglieria di legno.

Di quando in quando passava in mezzo a borgate popolose, circondate da ortaglie, attirando l’attenzione dei passanti, i quali però rimanevano subito indietro tutti, perché i cavalli non rallentavano il galoppo.

Attraversato su un ponte di pietra il canale fangoso che viene chiamato pomposamente «fiume» e che altro non serve che ad alimentare gli stagni ed i laghetti dei giardini del palazzo imperiale, il carro si diresse verso il nord-est.

– Mi pare che ci conducano a Tong – disse Fedoro.

– Che cos’è?

– Una borgata sulle rive del Pei-Ho.

– Allora tu devi aver ragione. Vogliono imbarcarci.

– Tale è ancora la mia opinione, Rokoff.

– Purché facciano presto! Io ho tutte le membra rotte e se questa corsa dovesse durare ancora poche ore, non potrei più fare un passo. È così che trasportano i detenuti queste canaglie cinesi?

– Sì, Rokoff.

– In conclusione, trattano i prigionieri come polli.

– Né più né meno – rispose Fedoro.

– Bel sistema per far rompere le gambe.

– Che ha però il vantaggio; di rendere le evasioni impossibili.

– In quale stato devono giungere i condannati che si mandano dai paesi lontani!

– E lontani centinaia di miglia? – aggiunse Fedoro.

– All’inferno i cinesi!

– Vedo delinearsi all’orizzonte delle abitazioni. —

– Che sia la borgata?

– Sì, Rokoff; il Pei-Ho deve scorrere dietro di essa, perché vedo anche delle piante d’alto fusto. La nostra prigionia sta per cessare.

I cavalli acceleravano la corsa, attraversando la pianura piuttosto arida che si estende intorno all’immensa capitale.

I manciù si erano divisi in due drappelli: uno marciava innanzi al carro; l’altro dietro.

Come se temessero qualche sorpresa, avevano levato i moschetti che fino allora avevano tenuto appesi alla sella e sguainate le scimitarre.

In lontananza si udiva un fragore confuso che pareva aumentasse di momento in momento. Erano urla acute, tocchi di tam-tam e muggiti di conche marine.

Si sarebbe detto che una folla enorme si accalcava intorno alla borgata.