Za darmo

I figli dell'aria

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Erano quattro o cinque dozzine, numero più che sufficiente per mettere a mal partito due uomini, anche se formidabilmente armati.

Rokoff e il capitano, ormai al sicuro, salivano con precauzione, guardando sempre in alto. Un animale che non riuscivano ancora a distinguere in causa della foltezza del fogliame, si agitava fra i rami, scuotendoli vigorosamente e facendone cadere parecchi.

Si erano elevati d’una decina di metri, quando Rokoff, che distava pochi passi dalla prima biforcazione della pianta, si fermò, dicendo:

– La bestia che sta lassù, mi pare molto grossa, capitano.

– Che cosa vi sembra?

– Un’enorme scimmia.

– Questo non è il paese dei gorilla e nemmeno dei mias, signor Rokoff – rispose il capitano. – Sono convinto che si tratti d’un orso.

– Se ci piomba addosso ci getterà giù e allora verremo alle prese coi bighana, se non ci romperemo il collo o le gambe.

– Non potete far fuoco?

– È impossibile, capitano, non vi sono più piante parassite a cui aggrapparmi e il tronco è così liscio che è un vero miracolo che ci possiamo sorreggere con ambo le mani.

– Che cosa fa quell’animale?

– Scuote i rami e grugnisce come un porco.

– Potete raggiungere la biforcazione?

– Mi ci proverò, ma… se quell’animalaccio scende?

– Non affrontatelo; piuttosto ridiscendete. Se è grosso deve essere un labiato e non già un panda.

– Bella posizione! – borbottò Rokoff. – Abbasso i cani che non attendono altro che di rosicchiarci le gambe e sulla testa quattro zampe armate d’unghie. Siamo fra Scilla e Cariddi.

– Orsù, signor Rokoff, decidetevi. Non ho più forze per sorreggermi – disse il capitano.

– Giacché non vi è scampo né da una parte né dall’altra, affrontiamo il nemico che può fornirci degli zamponi.

Il cosacco si assicurò la carabina onde non gli sfuggisse dalla spalla, si mise fra i denti il coltello da caccia e riprese la salita, la quale diventava sempre più difficile, non essendovi più piante arrampicanti ed essendo il tronco ancora più grosso da non poterlo abbracciare interamente.

Sotto, i lupi indiani continuavano a ululare e a saltare come se fossero impazziti; sopra, l’orso, ammesso che fosse tale, continuava a scuotere furiosamente i rami, minacciando a ogni istante di lasciarsi scivolare lungo il tronco e di travolgere i due cacciatori. Rokoff, che faticava assai a tenersi stretto, con un supremo sforzo riuscì a raggiungere la biforcazione dei rami.

Stava per mettersi a cavalcioni e aiutare il capitano, quando si vide precipitare addosso l’animale, il quale, fino allora, si era tenuto aggrappato a un grosso ramo trasversale, situato due metri più sopra. Come il capitano aveva supposto, si trattava veramente d’un orso della specie dei labiati, chiamati dagl’indiani adamsad, molto comuni sulle catene dell’Himalaya e anche nelle foreste del Nepal. Quantunque appartengano alla medesima razza degli altri plantigradi, sono diversi nelle forme e nelle abitudini.

Hanno il corpo più corto e più massiccio, le zampe assai basse, armate di robuste unghie ricurve; muso molto sporgente che finisce in una punta tronca, pelame lunghissimo, nero sul dorso, grigio sulla testa, con qualche macchia gialla e una lunga criniera che finisce in due lunghi ciuffi, che danno a quegli animali uno strano aspetto. A prima vista, sembrerebbero gobbi.

Abilissimi arrampicatori, si può dire che vivono più sugli alberi che in terra, nutrendosi quasi esclusivamente di frutta. Amano però anche le alte rupi e se sono inseguiti non esitano a slanciarsi negli abissi, nascondendo la testa fra le zampe e cavandosela senza troppi guasti.

L’animale che stava per assalire il cosacco, era grosso e pesante almeno un quintale e mezzo, un nemico certo pericoloso, che poteva abbattere i due uomini. Vedendolo avanzarsi, Rokoff aveva afferrato precipitosamente la carabina, mentre gridava al capitano:

– Aggrappatevi ai miei piedi! Resisterò meglio!

L’orso scese rapidamente il ramo, mise le zampe posteriori sulla biforcazione e s’alzò brancolando con quelle anteriori, armate di lunghi artigli.

– Fuoco! Fate fuoco! – gridò il capitano.

Rokoff aveva puntato la carabina, sparando precipitosamente, quasi senza mirare. Non ebbe il tempo di constatare gli effetti della scarica, perché si sentì afferrare strettamente da due zampacce e scuotere a destra e a manca, mentre si sentiva soffiare in viso un alito caldo e fetente.

Credeva di sentirsi già dilaniare le carni o scaraventare nel vuoto da un’altezza di cinquanta piedi, quando una seconda detonazione rimbombò. Era stata sparata così da vicino, che per un momento si credette accecato dalla polvere.

Il capitano, comprendendo che il cosacco stava per venire oppresso e che non doveva aver colpito la belva, tenendosi con una mano, coll’altra aveva scaricato la carabina. Il labiato aveva mandato un urlo di dolore, poi aveva lasciato il cosacco, arrampicandosi su pel tronco e rifugiandosi sui rami.

– Colpito! – gridò Rokoff, allungando le braccia verso il capitano, il quale si era lasciato sfuggire di mano la carabina, pel contraccolpo della grossa carica di polvere che per poco non l’aveva gettato giù.

– Ma è ancora vivo – rispose il comandante.

– L’avete colpito, voi?

– Lo credo.

– E io l’ho solamente ferito.

– Forse gravemente. Guardate, mi gocciola addosso del sangue.

– Morisse almeno dissanguato! – esclamò il capitano, mettendosi a cavalcioni del ramo. – Sapete che vi credevo già perduto?

– Ancora un momento e venivo gettato giù.

– Vi ha piantato le unghie nelle spalle?

– Non ne ha avuto il tempo; ha lacerato solamente la mia casacca.

– E la mia carabina è caduta!

– Ne abbiamo ancora una – disse Rokoff. – Io non l’ho abbandonata e ci servirà per finire quel dannato orso.

– E perdereste gli zamponi.

– Perché, capitano?

– I bighana ve li mangerebbero.

– E durerà molto questo assedio?

– Fino all’alba, se i nostri compagni non vengono a liberarci – disse il capitano. – Quei lupi non torneranno alle loro tane prima che spunti il sole.

– Brutta prospettiva. Che non vengano Fedoro e gli altri? Abbiamo già sparato cinque colpi di carabina e devono averli uditi.

– Diranno che noi abbiamo fatto buona caccia e non si muoveranno, signor Rokoff.

– Fuciliamo i lupi.

– Abbiamo una carabina troppo grossa per ottenere buoni risultati – rispose il capitano. – Queste armi sono buone contro le tigri e i rinoceronti.

– Non credevo che questa caccia finisse così male!

– E come, vi lamentate, incontentabile cacciatore? Siamo qui da sole due ore e abbiamo già ucciso sette od otto lupi e ferito un orso.

– E siamo assediati – disse Rokoff.

– Sia pure, ma siamo anche completamente al sicuro dalle offese dei nemici. Il labiato non pensa più a discendere per attaccarci e i lupi non possono salire. Che cosa volete di più, signor cosacco? E avete il coraggio di lamentarvi?

– Adagio, capitano, colle vostre buone speranze. Vedo invece l’orso agitarsi e l’odo brontolare.

– Si lamenta delle ferite.

– E se invece scendesse?

– Allora perderete gli zamponi perché sarete costretto a fucilarlo e gettarlo a pasto dei lupi – disse il capitano.

– Preferisco che rimanga lassù – rispose Rokoff.

– Credo che ci tenga anche lui a non esporsi agli assalti dei lupi. Se non fosse ferito, non avrebbe paura ad affrontarli, mentre chissà in quale stato si trova e se le sue zampe sono in grado di distribuire colpi d’artiglio.

– Cade sempre il sangue?

– Mi piove addosso – rispose Rokoff. – Devo sembrare un macellaio.

– Signor Rokoff!

– Capitano.

– Siete annoiato?

– Un pochino.

– Allora tirate al bersaglio. Abbiamo ancora centonovantacinque cartucce e i lupi non sono più di cinque o sei dozzine. Se volete, divertitevi, mentre io sorveglierò l’orso. Vi concedo un lupo ogni cinque palle.

– Cercherò di ammazzarne invece due su cinque colpi – disse Rokoff, accomodandosi sul ramo, onde tirare con maggior attenzione.

I bighana non avevano lasciato la base dell’albero. Continuavano a saltellare, mordendo la corteccia della pianta e strappandola a larghi pezzi coi loro denti acuminati e robusti e ad urlare con tale fracasso da far rintronare la foresta. Di quando in quando alcuni si allontanavano in diverse direzioni e andavano a urlare cinque o seicento passi più lontano, su diversi toni.

– Chiamano altri compagni – disse il capitano.

– Che sperino di rosicchiare l’albero fino a farlo cadere? – chiese Rokoff.

– Non temete; ci vorrebbero delle settimane per atterrare una simile pianta. Signor Rokoff, aspettano i vostri saluti.

Il cosacco puntò la carabina mirando in mezzo al gruppo e sparò il primo colpo, facendo cadere due bestie nello stesso momento.

– Ho nove palle di vantaggio – disse ridendo.

– Continuate – rispose il capitano. – Ah! L’amico che sta lassù comincia ad inquietarsi.

Il labiato, udendo quello sparo e vedendo il fumo salire fra il fogliame, aveva ricominciato a dimenarsi, facendo scricchiolare i rami.

– Che ci cada addosso? – chiese Rokoff, guardando in alto.

– Non sarà così stupido da tentare un simile capitombolo, quantunque abbiano l’abitudine di precipitarsi da altezze considerevoli, allorquando si vedono in pericolo. Se non vi fossero sotto di noi i lupi, chissà, potrebbe tentare un simile salto.

– Senza fracassarsi?

– Pare che abbiano le ossa molto dure i labiati e posseggano una elasticità incredibile. Signor Rokoff, i lupi aspettano sempre.

– Eccomi!

Il cosacco aveva ripreso il fuoco. Sparava con calma, mirando attentamente, come se si trovasse in un tiro a segno durante una gara e i lupi cadevano a uno e a due alla volta. Era davvero un valente bersagliere; di rado sbagliava l’animale che aveva scelto.

 

In cinque minuti, undici lupi giacevano attorno all’albero, massacrati dai grossi proiettili della carabina express.

– Rimangono ancora cinque dozzine – disse il capitano.

– E ne giungono altre due o tre – disse Rokoff, con accento scoraggiato. – Quelli che erano partiti urlando al largo tornano con nuovi rinforzi.

– Che questa foresta sia piena di bighana?

– Pare che sia così, capitano. E l’orso?

– Si è tranquillizzato e non l’odo più muoversi.

– Che sia morto?

– Sarebbe caduto.

– Salutiamo i nuovi arrivati – disse Rokoff.

Aveva ripreso il fuoco, mirando in mezzo ai gruppi e senza mai mancare al bersaglio. I bighana però non accennavano a volersi ritirare, quantunque vedessero aumentare i morti. Avevano tuttavia compreso che rimanendo così uniti offrivano un bersaglio troppo facile e si erano dispersi fra i cespugli, senza però allontanarsi troppo dalla pianta.

– Il tiro a segno comincia ad andare male – disse Rokoff, dopo aver sprecato cinque o sei palle. – Rimarremo senza cartucce prima di averli distrutti.

– Me ne sono accorto – disse il capitano.

– Devo continuare?

– Sì, signor Rokoff. I nostri compagni, udendo questi continui spari, s’immagineranno che noi corriamo qualche pericolo e verranno di certo in nostro soccorso. Non siamo lontani più d’un chilometro dallo «Sparviero» e le detonazioni giungeranno distinte fino al fuso. Ah! Udite?

Uno sparo si era udito in quel momento in direzione del piccolo altipiano.

– È uno Snider – disse il capitano. – Signor Rokoff, rispondete.

Il cosacco scaricò la carabina facendo cadere un altro lupo. Un istante dopo un altro sparo echeggiava verso lo «Sparviero».

– Continuate il fuoco senza interruzione – disse il capitano. – Ormai i nostri compagni hanno compreso che noi abbiamo bisogno d’aiuti.

– E non li assaliranno i lupi? – chiese Rokoff.

– Ci siamo anche noi, e cinque uomini bene armati possono tener testa a quei piccoli predoni.

Rokoff riprese a sparare senza far risparmio di cartucce. Ormai sapeva che gli aiuti stavano per giungere e non si preoccupava di rimanere con sole poche cariche. I lupi dovevano essersi accorti che altri uomini s’avvicinavano, perché alcuni si erano distaccati dal grosso ed erano partiti ululando, in direzione del piccolo altipiano.

– Li hanno fiutati – disse il capitano. – Prepariamoci ad appoggiare i compagni.

D’un tratto sotto gli alberi si videro balenare dei lampi seguiti da spari.

– I Winchesters – disse il capitano. – Buone armi a ripetizione che faranno ballare i bighana!

I lupi che assediavano l’albero, udendo quelle detonazioni, erano partiti a corsa disperata, ululando a piena gola.

– Scendiamo! – gridò il capitano.

Si lasciarono scivolare lungo il tronco, toccando ben presto terra. Il capitano raccolse la sua carabina, l’armò precipitosamente e si slanciò fuori dai cespugli, gridando:

– Signor Fedoro! Badate a non fucilarci! Veniamo in vostro aiuto!

Vedendo i lupi radunarsi innanzi a una folta macchia, in mezzo alla quale dovevano trovarsi il russo, il macchinista e lo sconosciuto, li presero alle spalle fucilandoli senza misericordia.

I bighana, presi fra due fuochi non ressero molto a quella tempesta di palle che li decimava rapidamente. Dopo d’aver cercato di far fronte ai due pericoli, si sbandarono, fuggendo velocemente attraverso la foresta, perseguitati per qualche tratto da Fedoro, dal macchinista e dal loro compagno. Rokoff stava per seguirli, quando udì il capitano gridare:

– L’orso! Ecco che scende!

Il cosacco si era subito arrestato, ricaricando la carabina.

Il labiato, approfittando della discesa dei suoi compagni e del combattimento coi lupi, aveva lasciato gli alti rami del nim e si lasciava a sua volta scivolare lungo il tronco, colla speranza di raggiungere inosservato i cespugli e di scomparire entro le folte macchie.

Aveva però fatto i conti senza il capitano, il quale, pur facendo fronte ai bighana, non aveva dimenticato quella grossa e succolenta selvaggina. Vedendo i cacciatori tornare, nascose la testa fra le zampe anteriori e si lasciò andare precipitandosi da un’altezza di otto o dieci metri.

Piombò in mezzo ai cespugli che schiantò col proprio peso e senza farsi, probabilmente, troppo male, poi si rialzò di scatto e si scagliò contro il capitano, che gli era vicino, cercando di piantargli gli unghioni nel viso.

– Badate! – gridò Rokoff, che giungeva di corsa.

Il capitano aveva fatto un salto indietro per evitare l’urto e aveva puntato la carabina facendo fuoco quasi a bruciapelo.

Quantunque ferito a morte, il labiato non era caduto, anzi si era alzato sulle zampe posteriori facendo un salto innanzi. L’attacco era stato così improvviso e così impetuoso, che il capitano, il quale credeva di averlo fulminato sul colpo, non poté reggere e cadde lungo disteso. Fortunatamente Rokoff era vicino.

Si udì un secondo sparo. Il labiato brancolò un istante dimenando disordinatamente le zampe, poi stramazzò mandando un rauco urlo che finì in una specie di sibilo soffocato.

– Pare che sia proprio finito questa volta – disse Rokoff. – Tre palle express e quasi non bastavano ancora!… Che pelle dura hanno questi animali!

Fedoro e i suoi compagni, dispersi i lupi, tornavano.

– Un orso! – esclamò il russo.

– Che ci fornirà degli zamponi deliziosi – rispose Rokoff.

– E centocinquanta chilogrammi di carne eccellente – aggiunse il capitano. – Lasciamo i lupi e portiamo questo morto allo «Sparviero». La caccia, come avete veduto, signor Rokoff, non poteva riuscire migliore.

L’ULTIMO ADDIO

Verso il mezzodì del giorno seguente, dopo d’aver fatto a pezzi il labiato e d’averlo messo a gelare nella ghiacciaia, lo «Sparviero» lasciava il piccolo altipiano riprendendo la corsa verso le frontiere del Butan onde scendere nelle pianure boscose dell’Assam.

Questa regione, che fa parte dei possedimenti inglesi dell’India, e che ha una superficie di 126.965 chilometri quadrati, con una popolazione di oltre cinque milioni, è la più orientale dell’immenso impero, confinando coll’Alta Birmania.

In confronto al vicino Bengala, così ricco di opulenti città e poco popolato, è ancora mezzo selvaggio, essendo i suoi abitanti piuttosto birmani e kaltani, anziché indiani; dediti per lo più all’agricoltura e alle armi che ai commerci. Nondimeno si contano non pochi centri popolosi e alcune città notevoli per la bellezza dei loro palagi, abitati un tempo dai re assamesi.

Lo «Sparviero», verso le due pomeridiane, varcava già la frontiera, entrando nell’Assam pel passo di Rangeah, ritrovando qualche ora dopo il Brahmaputra, il gigantesco fiume che gli aeronauti avevano già attraversato nel Tibet e che dovevano seguire per qualche tempo.

In quel luogo il paese appariva quasi deserto, non essendovi che pochissimi villaggi nell’Assam occidentale e una sola città d’importanza: Goalpara.

Alla sera anche l’Assam era stato attraversato e lo «Sparviero», lasciate le sterili pianure che aveva seguito fino allora, entrava nel Bengala passando sopra la piccola borgata di Afgeav. Invece però di procedere direttamente verso il sud, il capitano aveva ordinato al macchinista di portarsi verso l’est, come se avesse voluto raggiungere i monti di Tipperah, che dividono il Bengala orientale dalla Birmania.

– Perché cambiate rotta? – chiese Rokoff, sorpreso.

– Vi è una città da evitare, che è abitata da troppi inglesi: Canilab – rispose il capitano.

– È già notte.

– Potrebbero scorgerci egualmente, essendo prossima l’alzata della luna.

– E dove andremo noi?

– Lo saprete presto.

– Su quei monti che si delineano laggiù?

– L’Arracan non è la mia mèta, per ora.

– Allora andiamo verso il mare.

– Sì, signor Rokoff.

Lo «Sparviero» affrettava sempre, toccando una velocità di sessanta miglia all’ora, velocità che non aveva mai raggiunto durante la traversata dell’Asia centrale. Si sarebbe detto che il capitano aveva molta premura di raggiungere le acque del golfo.

Qualche motivo doveva averlo, perché si mostrava di frequente irrequieto, nervoso, e scambiava di quando in quando delle parole collo sconosciuto in una lingua, che né Rokoff né Fedoro riuscivano a comprendere.

A mezzanotte lo «Sparviero» passava, colla rapidità d’una freccia, al disopra di Balloah, una delle ultime città di quella regione, e attraversata la larga foce del Migna, che in quel luogo pareva un braccio di mare, scendeva verso il sud, dove si vedeva estendersi una vasta isola fiancheggiata a oriente e a occidente da parecchie altre minori.

– Schalibaspav – disse il capitano additandola ai suoi compagni. – Un deserto popolato solamente da serpenti.

Quell’isola, che è una delle più notevoli che fronteggiano il golfo del Bengala, appariva infatti deserta. Non si vedevano altro che piante, per lo più canne gigantesche e acquitrini.

Lo «Sparviero», in meno di un quarto d’ora, l’attraversò dal nord al sud e s’arrestò verso l’estrema punta che si bagnava fra le onde del golfo del Bengala.

– Scendiamo – comandò il capitano, additando la spiaggia.

Il treno aereo descrisse una immensa curva, e scese lentamente, sorretto solamente dai piani, adagiandosi sulle sabbie che coprivano la costa.

Il capitano, dopo aver dato uno sguardo all’intorno, era balzato a terra, mentre il macchinista sbarcava delle coperte e delle carabine.

– Venite – disse a Fedoro e a Rokoff.

– Noi ci fermeremo qui.

– Noi! – esclamò Fedoro.

– E gli altri?

– Devono andare altrove.

– Collo «Sparviero»?

– Sì, collo «Sparviero» – rispose il capitano. – Ah! La loro assenza non sarà lunga e poi devo sapere…

S’interruppe bruscamente, come si fosse pentito di essersi lasciato sfuggire quelle parole, poi cambiò discorso dicendo seccamente al macchinista che gli stava vicino in attesa dei suoi ordini:

– Puoi andare.

Lo sconosciuto si era fatto innanzi. Strinse silenziosamente la mano al capitano, poi s’avvicinò a Fedoro e a Rokoff e strinse le loro destre, dicendo in buona lingua russa:

– Spero un giorno di potervi rivedere, signori!

Prima ancora che il cosacco e il russo si fossero rimessi dal loro stupore, lo sconosciuto era già risalito sullo «Sparviero», seguito dal macchinista. La macchina volante prese lo slancio e s’innalzò, allontanandosi velocemente verso il nord-ovest. Il capitano, ritto sulla spiaggia, colle braccia incrociate sul petto, lo guardava allontanarsi.

Quando scomparve fra le tenebre, si volse verso il russo e il cosacco, dicendo:

– Aspettiamo che il macchinista ritorni.

– Una parola, signore – disse Fedoro.

– Parlate.

– Quell’uomo è un russo, è vero? Un russo al par di me, perché nessuno, per quanto conosca bene la nostra lingua, può parlarla così bene e con quell’accento.

Il capitano lo guardò in silenzio per alcuni istanti, poi rispose:

– Può essere anche un russo, signor Fedoro. Vi rincrescerebbe?

– Tutt’altro, capitano.

– Non chiedetemi più nulla su quell’uomo che per voi deve rimanere uno sconosciuto. D’altronde voi non lo rivedrete più.

Non erano trascorse ventiquattro ore, quando Rokoff e Fedoro, con loro viva sorpresa, videro riapparire improvvisamente lo «Sparviero».

Quasi nel medesimo tempo una scialuppa approdava a breve distanza dal loro accampamento improvvisato, una di quelle barche chiamate ponlar, armata d’un albero. Era montata da quattro indiani.

– Signori – disse il capitano. – È giunto il momento della separazione. Ecco la scialuppa che ho fatto noleggiare per voi, affinché vi conduca a Calcutta. Gli uomini che la montano sono fidati.

Lo «Sparviero» si era adagiato sulla sabbia, ma era montato dal solo macchinista.

Il capitano era rimasto silenzioso, guardando Rokoff e Fedoro. Pareva vivamente commosso.

– Tornate in Europa – disse poi, tendendo ad entrambi la mano. – L’ora della separazione è giunta.

– Non ci rivedremo mai più, signore? – chiese Rokoff con profonda amarezza.

– Si… un giorno… ve lo prometto… partite!…

Poi, senza attendere altro, né aggiungere alcuna altra parola, si slanciò sul fuso, il quale s’innalzò rapidissimo, descrivendo un’immensa spirale.