Za darmo

I figli dell'aria

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«Gl’invitati saranno entusiasti del piatto squisito e faranno grandi elogi al padrone di casa e al suo cuoco».

– È passata la zuppa? – chiese il cosacco, senza voltarsi.

– L’hanno divorata.

– Buona digestione!

– Hai perduto una rara occasione per gustarla.

– Vi rinuncio volentieri, Fedoro. Hanno accoppato un altro spirito malvagio. Interessante questo dramma! Il palcoscenico è pieno di morti. Che ammazzino poi anche noi? Da questi cinesi ci si può aspettare qualunque sorpresa. Fortunatamente ho la mia rivoltella.

– Ecco il tè.

– Finalmente! Mi rimetterò a posto gl’intestini già perfino troppo sconvolti.

Alcuni valletti erano entrati recando dei vassoi d’argento pieni di chicchere minuscole color del cielo dopo il crepuscolo, delle teiere colme d’acqua calda e dei vasi di porcellana colmi di tè shang-kiang, ossia profumato, essendovi mescolate alle foglioline delle preziose piante, dei fiori d’arancio, dei mo-lè che sono specie di gelsomini, foglie di rosa e di gardenia torrefatte.

I cinesi non usano mescolarvi latte e per lo più lo bevono senza zucchero. Di rado ci mettono un pizzico di quello rosso.

Quell’ultima portata segnava la chiusura del banchetto, la quale coincideva anche colla fine della tragedia.

I convitati, dopo reiterati sforzi, si erano levati coi volti infiammati, gli occhi schizzanti dalle orbite, i ventri gonfi fino al punto di crepare per l’eccessivo mangiare. Qualcuno dovette essere portato dai servi, di peso fino alla sua lettiga.

Quando Sing vide uscire l’ultimo convitato, si volse verso i due russi, dicendo loro:

– Deve essere stato un vero tormento per voi, ma voi mi vorrete perdonare se io ho abusato della vostra pazienza. Gli europei non si trovano bene ai nostri pranzi, lo so.

– Ho assistito ad altri, – disse Fedoro – quindi potevo prendere parte anche al vostro.

Sing-Sing rimase un momento silenzioso, girando gli sguardi intorno alla sala deserta e silenziosa, poi riprese:

– E chissà che domani questo luogo non risuoni invece di pianti e di grida. Strano contrasto, dopo tanta allegria!…

– Sing-Sing, – disse Fedoro – perché dite ciò? Spiegatevi una buona volta; quale pericolo vi minaccia?

– Siete armati? – chiese il cinese.

– Voi sapete, che un europeo non osa percorrere di sera le vie di Pechino senza avere almeno una rivoltella.

– Venite nella mia stanza; là almeno saremo sicuri di non venire ascoltati da altri. Badate però: potreste esporvi anche voi al medesimo pericolo.

Fedoro guardò Rokoff.

– Noi aver paura? – disse questi. – Ah! No, non sappiamo ancora che cosa sia. Andiamo, Fedoro; questa inaspettata avventura m’interessa assai.

LA SOCIETA DELLA «CAMPANA D’ARGENTO»

Sing-Sing, presa una piccola lanterna, attraversò la sala, poi parecchi corridoi oscuri e si fermò dinanzi ad una porta massiccia laminata in ferro e che aprì facendo scattare una molla segreta, nascosta in mezzo ad alcuni ornamenti di porcellana.

I due europei si trovarono in una camera assai spaziosa, colle pareti tappezzate di seta bianca trapunta in oro, ammobiliata semplicemente e nello stesso tempo elegantemente, con leggeri tavoli di lacca e madreperla e con scaffali d’ebano intarsiato.

Nel mezzo v’era il letto del ricco cinese, basso, massiccio, in legno di rosa, con ricche coperte di seta infioccate e collocato proprio sotto una lanterna coi vetri di talco che spandeva una luce scialba, diafana.

Accanto, su un leggero canterano laccato e filettato d’argento, vi erano due grosse rivoltelle e una corta scimitarra snudata.

Sing-Sing chiuse la porta, gettò un pizzico di polvere di sandalo su un catino d’argento dove bruciavano pochi pezzi di carbone odoroso, offrì ai due europei due sedie di bambù, quindi fatto il giro della stanza come per accertarsi che non vi fosse nessuno, disse:

– È qui che da quindici giorni vivo in angosce inenarrabili, quantunque la morte non abbia mai fatto paura ad alcun cinese. Ho fatto mettere delle solide inferriate alle finestre, cambiare tappezzerie e visitare le pareti onde accertarmi che non esistevano passaggi segreti; ho chiuso la mia stanza con una porta che potrebbe resistere anche ad un pezzo d’artiglieria; ho delle armi a portata della mano. Eppure, credete che io mi tenga sicuro? No, perché sento che malgrado tante precauzioni, i bravi della hoè giungeranno egualmente fino a me e che mi colpiranno al cuore.

– I bravi della hoè! – esclamò Fedoro impallidendo.

– Della «Campana d’argento» – aggiunse Sing-Sing, con un sospiro.

– Voi siete affiliato a qualche società segreta?

– Tutti i cinesi, quantunque l’imperatore abbia emanato ordini rigorosi e colpisca senza pietà i membri delle società segrete, sono ugualmente affiliati a qualche hoè.

Per noi è una necessità e anche un’abitudine prepotente ed io ho fatto come gli altri e come avevano fatto prima i miei avi. Disgraziatamente una sera, dopo un’orgia e dopo aver fumato parecchie pipate d’oppio, preso chissà da quale strano capriccio, mi sono lasciato sfuggire dei segreti che riguardavano la hoè alla quale sono iscritto. Il governo imperiale non ha osato colpire me, ma ha proceduto senz’altro, con rigore feroce, contro la mia società, torturando e dannando alle galere quanti membri aveva potuto acciuffare. Sono stato un miserabile, ed ora toccherà a me pagare il fallo commesso, colla perdita della vita. Sia maledetto l’oppio che mi ha fatto perdere la ragione.

– È potente questa società della «Campana d’argento»? – chiese Fedoro, assai preoccupato da quella confessione.

– Ha migliaia e migliaia di membri, dispersi in tutti gli angoli di Pechino, perfino entro la città interdetta (la città imperiale).

– E hanno saputo che siete stato voi a tradirla?

– Purtroppo – rispose il cinese.

– E vi hanno condannato? – chiese Rokoff.

– Quindici giorni or sono ho trovato sotto il mio capezzale una carta con il sigillo della società, una campana con due pugnali intrecciati sopra e sotto. Mi si avvertiva che entro due settimane, la mano della hoè, mi avrebbe colpito.

– Chi aveva messo quella carta? – chiese Fedoro.

– Lo ignoro, ma certo qualcuno dei miei servi.

– Ve ne sono alcuni affiliati alla «Campana d’argento»?

– Sarebbe impossibile saperlo. I membri non si conoscono l’un l’altro ed i soli capi tengono l’elenco dei soci.

– Sicché non siete sicuro dei vostri servi.

– Anzi io li temo, e da quando ho ricevuto quella carta, non ne ho fatto entrare più nessuno qui, per paura d’un tradimento.

– Ignorano il segreto della porta? – chiese Rokoff.

– Lo spero – rispose Sing-Sing.

– Quanti giorni sono trascorsi?

– Quattordici.

– E questa notte voi dovreste morire – chiese Fedoro.

– Sì.

– È già mezzanotte e siete ancora vivo, io credo quindi che la società abbia voluto solamente spaventarvi.

Sing-Sing crollò, la testa con un gesto di scoraggiamento.

– L’alba non è ancora sorta – disse poi.

– Ci siamo noi – disse Rokoff. – Vedremo chi avrà il coraggio di entrare qui.

– Eppure sento che l’ora della morte si avvicina.

Rokoff e Fedoro, quantunque coraggiosissimi, provarono un brivido.

– Bah! – disse poi il primo. – Io credo che nulla accadrà. Signor Sing-Sing, coricatevi, e noi, Fedoro, sediamoci l’uno presso il letto e l’altro presso la porta, colle rivoltelle in mano.

Sing-Sing tese loro ambo le mani, dicendo con voce commossa:

– Grazie, e se domani sarò ancora vivo, non avrete a pentirvi di questa prova d’amicizia. Signor Fedoro, voi siete venuto per un grosso acquisto di tè.

– Ve lo scrissi già.

– Cinquecento tonnellate rappresentano una fortuna ed io sarò lieto di offrirvela.

– Che dite, Sing-Sing?

– Tacete.

– Fedoro, – disse Rokoff – tu presso il letto; io vicino alla porta e voi, signore, coricatevi.

Il cinese fece un gesto d’addio e si gettò sul letto senza spogliarsi, coprendosi colla coperta di seta azzurra.

Rokoff abbassò il lucignolo della lanterna, onde la luce diventasse più fioca, estrasse la rivoltella per accertarsi che era carica, poi appoggiò una sedia contro la porta e si sedette, accendendo una sigaretta.

Un profondo silenzio regnava nell’ampio palazzo del ricco cinese e anche nelle vie. La festa delle lanterne era finita e la folla a poco a poco si era sbandata, non essendo i cinesi nottambuli al pari degli europei e degli americani.

Rokoff continuava a fumare, tendendo però gli orecchi. Di quando in quando si alzava e guardava ora Fedoro ed ora il cinese per accertarsi che né l’uno né l’altro si fossero addormentati. Quantunque coraggiosissimo, avendo dato prove di valore straordinario nella sanguinosa guerra russo-turca, entrando pel primo in uno dei più formidabili ridotti di Plewna, pure si sentiva a poco a poco invadere da una strana sensazione, che rassomigliava alla paura.

Gli pareva di udire talvolta dei rumori misteriosi e di vedere agitarsi, negli angoli più oscuri della stanza, delle ombre silenziose, armate di pugnali e di smisurate scimitarre.

Talora invece gli pareva di scorgere, fra la semioscurità, dei draghi volare per la stanza, pronti a piombare su Sing-Sing per dilaniargli il petto. Erano pure fantasie, create dal terrore misterioso che lo invadeva, perché quando si alzava, le visioni scomparivano ed ogni rumore cessava.

Vegliava da un’ora, scambiando qualche parola sottovoce con Fedoro o col cinese, quando si sentì prendere da un’improvvisa stanchezza e da un desiderio irresistibile di chiudere gli occhi. Si fregò replicatamente il viso e cercò di alzarsi. Con suo profondo stupore non riuscì a lasciare la sedia. Le gambe gli tremavano, le forze lo abbandonavano e gli pareva che il letto di Sing-Sing e tutti gli altri mobili gli girassero intorno.

 

– Fedoro! – chiamò facendo uno sforzo supremo. – Sing-Sing.

Nessuno rispose. Il suo amico si era accasciato sulla sedia come se si fosse addormentato ed il cinese conservava una immobilità perfetta. Un terrore improvviso lo prese.

– Che siano morti? – si chiese.

Quasi nello stesso momento gli parve di vedere un lembo della parete aprirsi e sbucare fuori delle forme umane armate di pugnali.

La visione però non ebbe che la durata d’un lampo, perché senti che le forse lo abbandonavano e che le palpebre si chiudevano irresistibilmente, come se fossero diventate di piombo.

. . . . . . . . . . . . . . .

Quando si risvegliò, Rokoff si trovò a letto, nella stanza che la sera innanzi gli era stata destinata dal maggiordomo del ricco cinese.

Su un altro letto Fedoro dormiva profondamente, senza fare alcun gesto che annunciasse un prossimo risveglio.

Il cosacco, stupito, girò intorno un lungo sguardo, non potendo credere ai propri occhi.

– Che io abbia sognato? – si chiese Rokoff. – Le società segrete… le ombre misteriose… i terrori… Sì, devo aver fatto un cattivo sogno.

A un tratto si slanciò verso il letto di Fedoro, mandando un urlo.

Nelle vicine stanze, nei corridoi, sulle verande, aveva udito alzarsi acute grida improntate al più vivo terrore:

– L’hanno assassinato! Ah! Povero padrone! L’hanno ucciso!

– Fedoro! Svegliati! – urlò.

Il russo si era alzato bruscamente, stropicciandosi gli occhi. Vedendo Rokoff fermo dinanzi al letto, col viso sconvolto e gli occhi strabuzzati, fece un gesto di meraviglia.

– Che cos’hai?

Poi, prima che l’amico potesse rispondergli, gli sfuggì un grido.

– E Sing-Sing?

– Ucciso! Lo hanno ucciso! – disse Rokoff facendo un gesto disperato.

– Sing-Sing morto! Ah! Ma dove siamo noi?… Ieri sera non eravamo in questa stanza!… Rokoff! Che cosa è successo? Chi ci ha portati qui?

– Non so… non so nulla… è tutto un mistero inesplicabile… Vieni… usciamo… l’hanno ucciso

Le grida, i pianti, i singhiozzi della numerosa servitù del ricco cinese, echeggiavano dovunque.

Fedoro e Rokoff, non essendo stati spogliati dai misteriosi nemici che li avevano trasportati in quella stanza, approfittando dell’inesplicabile sonno che li aveva colpiti, si slanciarono verso la porta.

Nel corridoio s’incontrarono col maggiordomo, il quale singhiozzava.

– È vero che è morto il tuo padrone? – chiese Fedoro, afferrandolo per le braccia.

– Sì, signore… assassinato… assassinato!

– E i suoi uccisori?

– Scomparsi.

– E non sai dirmi chi ci ha trasportati qui, mentre eravamo col tuo padrone?

Il maggiordomo li guardò con sorpresa.

– Voi… col padrone! – esclamò.

– Eravamo nella sua stanza per vegliare su di lui e ci siamo svegliati in questa, sui nostri letti.

– È impossibile!… Voi avete sognato!

– Andiamo da Sing-Sing – disse Rokoff. – A più tardi le spiegazioni. Preceduti dal maggiordomo, il quale pareva inebetito, entrarono nella stanza del ricco cinese, che era guardata da quattro servi.

Sing-Sing giaceva sul letto, cogli occhi sbarrati esprimenti un terrore impossibile a descriversi, colle labbra aperte e lorde d’una schiuma sanguigna, colle braccia penzolanti.

Una macchia di sangue si era allargata sopra la ricca casacca in direzione del cuore e altro sangue si vedeva sulle lenzuola di seta bianca.

– Morto! – esclamò Rokoff, indietreggiando.

Fedoro si curvò sull’assassinato, aprì la casacca, strappò la camicia e mise allo scoperto il petto.

Una ferita, che pareva prodotta da un pugnale triangolare, a margini taglienti, si vedeva dal lato sinistro, un po’ sotto la mammella.

Il colpo, vibrato da una mano robusta e sicura, doveva aver spaccato il cuore del povero cinese e la morte era stata certo fulminante.

– I miserabili hanno mantenuto la parola! – esclamò. – E da dove sono entrati? Rokoff, non eri appoggiato contro la porta tu?

– Sì – rispose il giovine.

– Non l’hai udita aprirsi?

– No, almeno fino a che ero sveglio.

– Ah! Sì, mi ricordo che un sonno irresistibile mi aveva preso. Anche tu?

– Sì, Fedoro, ma prima di chiudere gli occhi ho veduto un lembo della parete aprirsi ed entrare degli uomini.

– E non hai fatto fuoco?

– Mi è mancato il tempo; un momento dopo cadevo addormentato.

– Allora ci hanno dato qualche narcotico per ridurci all’impotenza!

– E chi? Io non avevo bevuto nulla dopo il banchetto – disse Rokoff.

– Prima di addormentarti non hai notato alcun che di straordinario?

– Assolutamente nulla.

– Non hai avvertito alcun odore?

– Non mi parve.

– Devono aver bruciato qualche sostanza per farci addormentare.

– Lo credi?

– Ne sono certo – rispose Fedoro.

– Eppure prima non ho veduto entrare nessuno.

– Da qual parte si sono introdotti quegli uomini?

– Da quella – rispose Rokoff, indicando un angolo della stanza.

– Stavo per addormentarmi, eppure ho veduto aprirsi una porta o qualche cosa di simile.

Fedoro si recò a visitare la parete battendola col calcio della rivoltella e udì un suono sordo che non annunciava di certo che al di là ci fosse un vuoto.

– È strano! – disse. – Eppure tu li hai veduti entrare per di qui?

– Sì, me lo ricordo.

– E non vedo alcuna traccia sulla tappezzeria; tuttavia non mi stupisco. Questi cinesi hanno inventato mille segreti. Dov’è il maggiordomo?

– Eccomi, signore – rispose il cinese, il quale stava ritto accanto al letto, piangendo silenziosamente.

– Sono devoti i servi di questa casa?

– Lo credo, signore.

– Sono affiliati a qualche società?

– Non potrei dirvelo, perché nessuno lo direbbe, anche se sottoposto alla tortura.

– Chi è stato il primo ad accorgersi del delitto?

– Io – rispose il maggiordomo. – Ogni mattina premo il bottone d’un campanello elettrico per svegliare il mio padrone. Stamane feci come il solito, e non ricevendo risposta, né udendo alcun rumore, mi nacque il sospetto che fosse accaduta qualche disgrazia. Fatta abbattere la porta, ho trovato il mio signore assassinato.

– Era ben chiusa? – chiese Fedoro.

– E per di dentro.

– Non vi era alcuna traccia che fosse stata forzata?

– Nessuna, signore.

– Sapevi che noi eravamo chiusi qui col tuo padrone?

– Lo ignoravo, e poi… come spiegare questo mistero? Voi vi siete svegliati proprio nella stanza che io stesso vi ho assegnata per espresso ordine del mio padrone.

– Ti dico che eravamo qui. Chi può averci trasportati in quella stanza?

– Ne siete certo, signore? – chiese il maggiordomo con accento alquanto incredulo.

– Sì, noi eravamo qui.

– Se la porta era chiusa!

– Eppure non abbiamo sognato. Il tuo padrone aveva paura di venire assassinato e ci aveva pregati di tenergli compagnia.

– E vi siete svegliati nella vostra stanza? Oh!

– Ci hai ben veduti uscire.

– È vero – disse il cinese, il cui stupore non aveva più limiti.

Poi, come fosse stato colpito da un improvviso pensiero, chiese:

– Voi avete veduto il mio padrone toccare la molla segreta che doveva aprire la porta?

– Eravamo assieme a lui – rispose Fedoro.

Il viso del maggiordomo si fece oscuro ed i suoi occhi si fissarono sul russo.

– Ah – disse poi.

– Che cos’hai? – chiese Fedoro con inquietuline.

– Dico che se conoscevate il segreto della molla, potevate anche uscire e tornare nella vostra stanza.

– Tu oseresti sospettare di noi?

– Non è a me che tocca indagare su questo affare misterioso, – disse il cinese con voce lenta – bensì ai magistrati della giustizia. Ecco la polizia: sbrigatevela come meglio potete.

UN’ACCUSA INFAME

Un cinese piuttosto attempato, tozzo, dall’aria arcigna, con una lunga coda che gli batteva le calcagna e un paio d’occhiali giganteschi che gli coprivano buona parte del viso, era allora entrato nella stanza, seguito da quattro individui d’aspetto punto rassicurante e armati di scimitarre.

Vedendo i due europei, i quali erano rimasti come fulminati dalle ultime parole del maggiordomo, mosse verso di loro, salutandoli con affettata cortesia.

– Chi siete voi? – chiese Fedoro, che cominciava a diventare assai inquieto per la brutta piega che prendevano le cose.

– Un magistrato della giustizia – rispose il cinese.

– Ah! Benissimo: farete almeno un po’ di luce su questo misterioso delitto.

– Io credo di averla già fatta – rispose il magistrato, con un risolino sardonico. – Ho già interrogato la servitù e so molte cose a quest’ora che non vi faranno certo piacere.

– Vi prego di spiegarvi – disse Fedoro, impallidendo. – So già che si cerca di gettare su di noi il sospetto d’aver assassinato il povero Sing-Sing, ma noi vi proveremo l’insussistenza d’una tale mostruosa accusa.

– Ve lo auguro; disgraziatamente vi sono ormai troppe prove contro di voi e abbiamo anche trovata l’arma che ha spento Sing-Sing.

– E dove? – chiese Fedoro.

– Nella vostra stanza.

– È impossibile! Voi mentite! – gridò il russo. – Rokoff, amico mio, queste canaglie cercano di perderci!

– Noi? – chiese Rokoff, il quale non aveva compreso fino allora che pochissime parole, conoscendo la lingua cinese assai imperfettamente.

– Dicono che hanno trovato nella nostra stanza il coltello.

– Ve l’avranno posto coloro che ci hanno trasportati sui nostri letti. La cosa è chiara.

– Per noi, sì, ma non per questo magistrato e nemmeno per la servitù.

– Si convinceranno.

– Volete seguirmi? – chiese il magistrato, volgendosi verso Fedoro.

– E dove? – chiese questi.

– Nella vostra stanza.

– Andiamoci – disse Fedoro, risolutamente.

Appena usciti, videro schierati nel corridoio attiguo parecchi servi i quali li guardavano quasi ferocemente.

– Hai osservato, Rokoff? – chiese Fedoro. – Tutti sono convinti che noi abbiamo assassinato Sing-Sing e tutte le prove stanno contro di noi.

– Ricorreremo ai consoli – rispose Rokoff. – Questi cinesi non oseranno arrestare due europei.

– E chi li avvertirà? Non abbiamo nessun amico qui.

– Troveremo il modo di far sapere all’ambasciata russa il nostro arresto. Canaglie! Incolpare noi!

– Più canaglie sono stati gli affiliati della società segreta, i quali hanno agito in modo da far ricadere su di noi questo infame delitto.

Giunti nella stanza, il magistrato si diresse verso il letto che Rokoff aveva occupato, levò il materasso ed estrasse un pugnale lungo un buon piede, con la lama di forma triangolare, coll’impugnatura sormontata da una piccola campana d’argento.

L’arma era insanguinata fino alla guardia.

– Lo vedete? – chiese, mostrandolo ai due europei, smarriti. – Sing-Sing è stato ucciso con questo e voi, compiuto il delitto, l’avete nascosto qui. Potevate essere più furbi o per lo meno più prudenti.

– E voi credete? – chiese Fedoro, facendo un gesto di ribrezzo.

– La prova è chiara – disse il cinese con un sorriso maligno.

– E non vedete che questo pugnale non è di quelli che si usano in Europa?

– Potete averlo comperato qui od in altra città.

– È un pugnale appartenente ad una società segreta. Guardate, vi è una piccola campana d’argento sull’impugnatura.

– E che cosa proverebbe questo? – chiese il magistrato accomodandosi tranquillamente gli occhiali.

– Che l’assassino, di Sing-Sing non può essere stato che un membro della società della «Campana d’argento», alla quale il nostro amico era affiliato.

– Ed ha nascosto l’arma in uno dei vostri letti? Eh! via, non sono uno sciocco per crederlo!

– Ascoltatemi – disse Fedoro, coi denti stretti per la collera che già lo invadeva. – Vi narrerò come sono avvenute le cose.

– Dite pure.

Fedoro gli espose chiaramente quanto era accaduto dopo il banchetto, ciò che gli aveva raccontato Sing-Sing: la veglia angosciosa, il sonno misterioso, la comparsa delle ombre umane e finalmente il loro risveglio nella stanza che era stata loro destinata dal maggiordomo.

Il magistrato lo aveva ascoltato pazientemente, colle mani incrociate sul ventre rotondissimo, crollando di quando in quando la testa pelata.

Quando Fedoro ebbe finito, lo guardò in viso, poi disse:

– Quello che mi avete raccontato, quantunque mi sembri assolutamente straordinario, può essere vero. Io però intanto vi dichiaro in arresto, e se volete un consiglio, cercate di scolparvi meglio che potete, perché la vostra testa è in pericolo.

 

– Voi non lo farete!

– E perché?

– Chiederemo l’intervento dell’ambasciatore russo.

– Ah! – fece il cinese ridendo. – Sì, l’ambasciata, poi minaccia di far intervenire la flotta, colpi di cannone, invasione armata. Ah! no! basta! Conosciamo troppo bene gli europei per farli entrare nei nostri affari. La giustizia avrà corso senza l’ambasciata. Avete assassinato un cinese: vi condannerà un tribunale cinese.

– Noi protesteremo.

– Fatelo.

– Non ci lasceremo assassinare da voi! – urlò Fedoro, alzando minacciosamente il pugno sul magistrato.

– Badate! I miei uomini sono armati e le vostre rivoltelle sono nelle nostre mani.

– Maledizione!

Rokoff, quantunque ben poco avesse compreso dalle grida e dal gesto di Fedoro, si era accorto che la cosa si aggravava e si era spinto addosso al magistrato, pronto ad afferrarlo pel collo e gettarlo fuori dalla porta o anche giù dalla finestra.

– Fedoro – disse inarcando le robustissime braccia. – Si tratta di menare le mani? Sono pronto a fare una marmellata di queste teste pelate.

– No, Rokoff, non aggraviamo la nostra posizione – disse il russo, fermandolo. – E poi non esiterebbero a far uso delle loro armi.

– Afferro un letto e glielo butto sulla testa.

– Ci sono i servi appostati nel corridoio.

– Ti ho veduto furibondo. Si guasta la faccenda?

– Ci hanno intimato l’arresto.

– Ah! Bricconi! E noi obbediremo?

– A che cosa servirebbe ribellarci? Sono i più forti e dobbiamo cedere per ora.

– E ci condurranno in prigione?

– Sì, Rokoff.

– E dopo?

– Cercheremo di persuadere i magistrati della nostra innocenza. Lasciamoli fare per ora e prendiamo tempo.

– Dunque? – chiese il magistrato, che aveva fatto avvicinare i suoi uomini.

– Siamo pronti a seguirvi, però pensate che noi siamo europei, che siamo innocenti e che qualunque violenza sarà vendicata dal nostro paese.

– Sta bene, intanto venite con noi. Vi sono delle portantine dinanzi alla porta del palazzo.

– Andiamo, Rokoff – disse Fedoro.

– Ah! Per le steppe del Don! Mi sentirei capace di rompere la testa a questi bricconi e di disarmarli tutti.

– No, amico, sarebbe peggio per noi.

– Andiamo allora in prigione.

Uscirono dalla stanza preceduti dal magistrato, il quale camminava tronfio e pettoruto, e seguiti da quattro agenti di polizia che avevano snudate le scimitarre, onde prevenire qualsiasi tentativo di ribellione.

Alla base della gradinata vi erano già due portantine guardate da altri quattro agenti e da otto robusti portatori.

I due europei furono fatti salire, si abbassarono le tende onde sottrarli alla vista dei curiosi, poi i facchini partirono a passo rapido, scortati dagli agenti di polizia.

Nessuno pareva che si fosse accorto dell’arresto dei due russi.

D’altronde era una cosa talmente comune il vedere in Pechino delle portantine, che i passanti non vi avevano fatto alcun caso, quantunque vi fossero intorno i poliziotti.

Dopo una lunga ora, i facchini si fermarono. Rokoff e Fedoro, che cominciavano a perdere la pazienza e ad averne abbastanza di quella prigionia, si trovarono sotto uno spazioso atrio, dove si vedevano gruppi di agenti, di soldati e di guardiani che chiacchieravano fumando o masticando semi di zucca.

– È questa la prigione? – chiese Rokoff.

– Lo suppongo – rispose Fedoro.

– Che ci chiudano ora in qualche segreta?

– O in gabbia invece?

– Vivaddio! Io in una gabbia? Non sono già una gallina!

– La vedremo!

– Non lasciarti trasportare dall’ira, Rokoff – disse Fedoro. – Forse non oseranno trattarci come delinquenti comuni, per paura dell’Ambasciata.

Due uomini seminudi, dai volti arcigni, colle code arrotolate intorno al capo, armati di certi coltellacci che pendevano snudati dalle loro cinture, si fecero innanzi, afferrando brutalmente i due europei.

Rokoff, sentendosi posare una mano sulla spalla, fece un salto indietro, gridando con voce minacciosa:

– Non toccatemi o vi spacco il cranio!

Anche Fedoro aveva respinto violentemente il suo carceriere o carnefice che fosse, prendendo una posa da pugilatore.

– Noi siamo europei – gridò. – Giù le mani!…

I due carcerieri si guardarono l’un l’altro, forse sorpresi di quell’inaspettata resistenza, poi piombarono sui due prigionieri, cercando di abbatterli. Avevano però calcolato male le loro forze. Rokoff, con una mossa altrettanto fulminea, si era gettato innanzi a Fedoro, poi con due ceffoni formidabili che risuonarono come due colpi di fucile, fece piroettare tre o quattro volte i due cinesi, finché caddero l’un sull’altro, sradicati da due pedate magistrali.

Urla furiose echeggiarono sotto l’atrio. Soldati, poliziotti e carcerieri si erano slanciati come un solo uomo verso i due europei, sguainando le scimitarre ed impugnando picche, coltellacci e rivoltelle.

– Siamo perduti! – esclamò Fedoro.

– Non ancora – rispose Rokoff, furibondo. – Possiamo accopparne degli altri prima di cadere.

Si abbassò rapidamente, raccolse uno dei caduti e lo alzò sopra la testa preparandosi a scaraventarlo come un proiettile fra l’orda urlante.

A quella nuova prova di vigore così straordinario, i cinesi si erano arrestati.

– Vi accoppo tutti, canaglie! – urlò Rokoff. – Indietro!

A quel fracasso però accorreva la guardia delle carceri, comandata da un ufficiale. Erano dodici soldati, armati di fucili a retrocarica, e a quanto pareva, non troppo facili a spaventarsi.

Ad un comando dell’ufficiale inastarono risolutamente le baionette e le puntarono verso Rokoff.

– Indietro! – tuonò il colosso.

L’ufficiale invece armò la rivoltella e lo prese di mira dicendogli

– Non opponete resistenza o comando il fuoco. Tale è l’ordine.

– Rokoff, bada – disse Fedoro. – Sono soldati e obbediranno.

– Meglio farci fucilare che lasciarci imprigionare.

– No, amico, noi riacquisteremo presto la libertà perché la nostra innocenza verrà riconosciuta. Siamo prudenti per ora.

Rokoff, quantunque si sentisse prendere da una voglia pazza di scaraventare il carceriere addosso ai soldati, comprese finalmente il pericolo e depose il povero diavolo, che pareva più morto che vivo.

Nel medesimo istante compariva il magistrato che li aveva fatti arrestare. —

– Una ribellione? – disse, aggrottando la fronte. – Volete aggravare la vostra posizione o farvi uccidere.

– Dite ai vostri uomini che siano meno brutali – rispose Fedoro. – Noi non siamo stati ancora condannati.

– Darò gli ordini opportuni perché vi rispettino, ma non opponete alcuna resistenza. Seguitemi.

– Obbediamo, Rokoff.

– Se tu mi avessi lasciato fare, avrei sgominato questi poltroni – rispose il cosacco. – Avevo cominciato così bene!

– E avremmo finito male.

– Ne dubito.

– Seguiamo il magistrato.

Scortati dai soldati, i quali non avevano ancora levato le baionette dai fucili, furono introdotti in un’ampia stanza dove si vedevano sospese quattro gabbie contenenti ciascuna tre teste umane che parevano appena decapitate, colando ancora il sangue dal collo.

Erano orribili a vedersi. Avevano i lineamenti alterati da un’angosciosa espressione di dolore, gli occhi smorti e sconvolti, la bocca aperta ed imbrattata da una schiuma sanguigna. Sotto ogni gabbia era appeso un cartello su cui stava scritto:

La giustizia ha punito il furto.

– Mille demoni! – esclamò Rokoff, stringendo le pugna. – È per spaventarci che ci hanno condotto qui?

– Sono gabbie che poi verrano esposte su qualche piazza, onde servano di esempio ai ladri – disse Fedoro. – Guarda altrove.

– Sì, perché mi sento il sangue ribollire.

Attraversato lo stanzone, passarono in un altro, le cui pareti erano coperte da strumenti di tortura.

Vi erano numerose kangue, specie di tavole che servono ad imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani, pesanti venti, trenta e persino cinquanta chilogrammi; canne di ogni lunghezza e d’ogni grossezza, destinate alla bastonatura; arpioni di ferro per infilzarvi i condannati a morte; pettini d’acciaio per straziarli, poi tavole con corde destinate a distendere fino alla rottura dei tendini, le mani ed i piedi dei pazienti.

– Canaglie! – brontolò Rokoff. – Altro che l’Inquisizione di Spagna! Questi cinesi sono più feroci degli antropofagi.

Stavano per varcare la soglia, quando giunse ai loro orecchi un clamore che fece gelare il sangue ad entrambi.

Era un insieme di urla acute e strazianti, di gemiti, di rantoli, di singhiozzi a malapena soffocati e di ruggiti che parevano mandati da belve feroci.

– Qui si ammazza! – gridò Rokoff, guardando il magistrato ed i soldati, minacciosamente.

– Si tortura – rispose Fedoro.

– E noi lasceremo fare?

– Non spetta a noi intervenire.

– Io non posso tollerare…

– Devi resistere, Rokoff.

– Che non veda nulla, altrimenti mi scaglio contro questi bricconi e ne ammazzo quanti più ne posso.