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I figli dell'aria

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– Per quale motivo?

– Vi prego di non chiedermi alcuna spiegazione su ciò. Ah! Guardate come la catena dei Fschong-kum-kul scintilla! È meravigliosa! E dietro vi sta il lago, un bel bacino che fra poco vedremo. Macchinista, alziamoci ancora o andremo a infrangerci contro quei picchi.

Come soleva far sempre, quando non desiderava dare spiegazioni, il capitano aveva bruscamente cambiato discorso, approfittando della comparsa di quelle montagne che parevano sorte improvvisamente sull’altipiano. Fedoro e Rokoff ritennero inopportuno insistere su quel discorso, rivolgendo tutta la loro attenzione sull’imponente panorama che si estendeva dinanzi ai loro sguardi stupiti.

L’altipiano cambiava, alzandosi rapidamente in scaglioni sempre più giganteschi, i quali andavano ad addossarsi agli Fschong-kum-kul. Non vi erano più né spaccature, né burroni, né gole, ma il terreno appariva tormentato come se un formidabile terremoto lo avesse sconvolto.

Si vedevano enormi rupi rovesciate e spezzate, ammassi sterminati di macigni, crateri di antichi vulcani coi margini franati, avvallamenti strani, poi bacini coperti di ghiacciai, veri mari di luce che abbagliavano gli occhi con tale intensità, da non poterli guardare più d’un minuto.

Al sud, la catena ingigantiva rapidamente. Era un caos di piramidi e di guglie, bianche di neve, che si slanciavano arditamente verso il cielo come se volessero traforarlo, solcate qua e là da spaccature che dovevano avere delle dimensioni straordinarie.

Lo «Sparviero» aveva incominciato a risalire, potentemente aiutato dalle eliche orizzontali, le quali funzionavano vertiginosamente intanto che le due immense ali battevano colpi precipitati.

La respirazione cominciava a diventare penosa per tutti, anche pel capitano, che pur doveva essere abituato alle grandi altezze.

Provavano dei capogiri, delle nausee, dei ronzii agli orecchi e un’estrema debolezza.

Era il male delle montagne, prodotto dalla estrema rarefazione dell’aria, ben noto agli alpinisti e soprattutto agli abitanti della catena delle Ande, che lo chiamano il puna.

– Capitano – disse Rokoff – che cosa succede? Mi sembra di essere ubriaco e che il mio stomaco provi il mal di mare.

– E a me pare di soffocare – disse Fedoro – sento il cuore e le tempie battere precipitosamente, mentre invece la testa mi sembra che venga stretta da un cerchio di ferro.

– Siamo a settemilacinquecento metri, signori miei – rispose il capitano dopo aver osservato i barometri sospesi alla balaustrata. – A simili altezze l’aria è quasi irrespirabile, però le vostre nausee cesseranno subito appena avremo varcato quella catena di monti e torneremo ad abbassarci.

– Soffrono anche gli animali portati a simile elevazione?

– Più degli uomini, signor Rokoff, e infatti su questi altipiani non vedete né cammelli, né montoni e nemmeno jacks. Si gonfiano, perdono le forze, la loro respirazione diventa affannosa e bruciante e sovente cadono al suolo fulminati.

– Ci innalzeremo ancora?

– No, non sarebbe prudente; l’asfissia potrebbe manifestarsi, o per lo meno avvenire delle emorragie al naso e agli orecchi, che è meglio evitare.

– Avete mai superato queste altezze? – chiese Fedoro.

– Ho potuto raggiungere i diecimila metri, facendo uso di serbatoi d’ossigeno, eppure non ritenterei la prova. Volevo provare ad attraversare tutto lo strato d’aria che circonda il nostro globo.

– Per giungere alla luna? – chiese Rokoff, ridendo.

– No, per vedere il sole violetto.

– Violetto!… Che dite mai, signore?

– E che, anche voi credete che il sole sia giallo come noi lo vediamo ora?

– Io non l’ho mai veduto cambiare colore, capitano.

– Nemmeno io, eppure non è giallo e se non esistesse intorno al nostro globo la massa d’aria, tutto il mondo diventerebbe, almeno di giorno, violetto.

– Questa è grossa!

– Può sembrarvi tale; eppure, dopo gli ultimi studi e le ultime e più diligenti osservazioni fatte dagli scienziati europei ed americani, non vi è più da dubitare, signor Rokoff, per quanto la cosa possa parervi inverosimile. Se si squarciasse la nostra atmosfera, che è un velo ingannevole che fa ostacolo alla vista vera, si vedrebbero delle cose spettacolose che prima non si supponevano esistere. Togliete l’aria e con vostro grande stupore vi apparirebbe il cielo, anche in pieno meriggio, non più azzurro come lo vedete ora, bensì nero come il fondo d’una botte di catrame e al sommo di quell’abisso tenebroso vedreste fiammeggiare un. grande astro del più bel violetto e che altro non è se non il nostro sole.

– Il cielo nero?

– Sì, signor Rokoff.

– E perché ci appare invece azzurro?

– In causa delle rifrazioni della nostra atmosfera, la quale è satura ormai di luce, di vapori, di miriadi di germi erranti e di polveri impalpabili. Langley, il segretario dell’Istituto Smithsoniano degli Stati Uniti, e Su, il famoso astronomo dell’osservatorio di Washington, l’hanno ormai luminosamente provato.

– E come mai i raggi del sole ci appaiono gialli?

– Perché oltre alle fiamme violette, ne ha pure di gialle e siccome queste sono le più lunghe e hanno una maggiore estensione ci giungono prima. Quando le violette arrivano, le prime hanno già saturata la nostra atmosfera.

– Sicché anche gli altri astri, che a noi sembrano d’oro più o meno giallo o rossiccio, avranno invece tinte diverse.

– Sì, signor Rokoff. La stella Scorpione, per esempio, è d’un rosso fiammeggiante, mentre la sua vicina, che le tiene compagnia, è un piccolo sole verde pallido! Sirio invece è d’un viola oscuro; la Beta della costellazione del Cigno è pure violetta, mentre la sua compagna è giallo-pallido.

– Deve essere però enorme il nostro sole per sprigionare tanto calore.

– Un milione e duecentocinquantamila volte più grosso della terra, signor Rokoff.

– Che meschina figura farebbe il nostro globo.

– E altrettanto meschina la farebbe il sole messo a fianco di Acturus, il re dei soli, che espande pel cielo cinquemila volte più luce e calore dell’astro che ci illumina – disse il capitano.

– Eppure anche il nostro sole deve produrre del calore in quantità enorme – disse Fedoro.

– Tanto che nel solo spazio d’un secondo potrebbe, se accumulato, portare al grado di ebollizione cinquecento milioni di chilometri cubi di ghiaccio.

– Misericordia! – esclamò Rokoff. – Mi pare di sentirmi cucinare malgrado quest’aria gelata che mi fa scoppiare la pelle del viso.

– Ma allora il nostro globo non deve ricevere che una piccola parte del calore che irradia il sole – disse Fedoro.

– Una quantità infinitesimale – rispose il capitano. – Diversamente, la nostra terra da migliaia d’anni sarebbe stata abbruciata e ora non sarebbe più che un semplice carbone.

– Capitano, non vi è pericolo che il sole possa aumentare la massa di calore che ci manda?

– Se si deve credere agli scienziati, il calore del sole non ha ancora raggiunto il suo massimo sviluppo, anzi continuerebbe ad aumentare per sette od ottocentomila anni, poi dovrebbe succedere un periodo di ristagno e quindi di decadenza, perché l’astro finirà col consumarsi.

– E che cosa avverrà, quando comincerà a raffreddarsi, per la nostra umanità? – chiese Rokoff.

– Se non l’avrà abbruciata prima di giungere a quel periodo, tristi giorni dovranno passare gli abitanti del nostro globo. La terra, non più riscaldata, diverrà infeconda, anche in causa del continuo ritirarsi dei fuochi centrali; le sue estremità si copriranno di ghiaccio e i poli invaderanno a poco a poco l’America e l’Australia. I popoli saranno costretti a radunarsi sotto l’equatore, finché suonerà anche per quelle regioni l’ora fatale.

– Capitano, ora mi fate rabbrividire pel freddo – disse Rokoff. – Mi pare di trovarmi rinchiuso in un monte di ghiaccio. Mi sento venire la pelle d’oca pensando a quei giorni.

– Serbate i vostri brividi per altre occasioni – disse il capitano ridendo. – Fra dieci, o venti, o centomila secoli non vi saremo più, state sicuro. Lasciate quindi che tremino i nostri tardi pronipoti. Signori, passiamo la catena! Badate alle nausee!

L’URAGANO DI NEVE

Lo «Sparviero» con un’ultima volata aveva raggiunto i primi picchi degli Tschong-kum-kul, precipitando subito in un immenso vallone fiancheggiata da due imponenti ghiacciai per sottrarre gli aeronauti alla rarefazione dell’aria, che cominciava a produrre i suoi effetti pericolosi con tale intensità, da far vacillare e impallidire anche il capitano e il macchinista.

In fondo a quell’abisso che s’abbassava per oltre mille metri, si vedeva scorrere un fiume, qualche affluente del lago Kum-kul-darja, che si slanciava con salti immensi attraverso rupi e scaglioni, formando una serie di cascate maestose, i cui fragori, centuplicati dall’eco delle montagne, giungevano fino agli orecchi degli aeronauti.

Quale panorama selvaggio! Era una di quelle scene che in nessuna parte del mondo se ne può vedere. Era il bello orrido in tutta la sua imponente grandezza.

Lo «Sparviero», che s’avanzava colla velocità di trenta chilometri all’ora, ora s’abbassava nell’abisso, ora volteggiava invece sopra i ghiacciai scroscianti, dai cui margini precipitavano a un tempo enormi massi di ghiaccio e colonne d’acqua: ora invece s’alzava per evitare qualche nuova piramide che sbarrava la via, giganteggiante sopra l’enorme spaccatura.

Faticava assai però a mantenere la sua direzione.

Di quando in quando dalle gole della montagna soffiavano raffiche così furiose, da farlo deviare ora a destra ed ora a sinistra, piegandogli perfino i piani orizzontali.

Qualche volta cedeva all’impeto del vento e scartava bruscamente, rovesciandosi su un fianco o sull’altro, con gran terrore di Rokoff e di Fedoro, che temevano di vederlo precipitare in quel baratro spaventevole.

 

Un colpo di timone, dato opportunamente, lo rimetteva quasi subito sulla sua primiera rotta; nondimeno anche il capitano più volte era diventato pallido, credendo imminente una catastrofe.

Alle sei di sera lo «Sparviero» abbandonava quel vallone, scendendo verso gli opposti altipiani. La catena era stata superata e agli ultimi raggi del sole morente si era scorto scintillare verso l’est il lago, incassato fra gigantesche montagne.

Una fermata era necessaria, essendo tutti non solo stanchi, ma anche gelati.

Il capitano si era messo in osservazione per cercare un luogo acconcio e che fosse riparato dai venti e anche dalle valanghe.

– Là – disse a un tratto, indicando una specie di bacino circondato da un anfiteatro di muraglie granitiche. – Sembra fatto apposta per noi.

Lo «Sparviero» cominciava ad abbassarsi lottando faticosamente coi venti, che continuavano ad investirlo.

Sorpassò le rocce e si adagiò dolcemente sullo strato di neve che copriva il fondo di quella depressione del terreno.

Furono visitate innanzi tutto le ali e le eliche, per vedere se avevano sofferto, poi tutti s’affrettarono a entrare nel fuso, dove era stata accesa una piccola stufa a carbone.

Al di fuori, dopo la scomparsa del sole, il freddo era diventato intenso e il vento crudissimo e nembi di neve turbinavano sugli altipiani.

Chiusero il boccaporto, cenarono alla lesta e si cacciarono sotto le coperte, ben contenti di trovarsi in un ambiente riscaldato, dopo tutta quella neve e quelle raffiche.

La notte passò tranquilla. D’altronde, chi poteva importunarli, su quei deserti di ghiaccio, dove nessun essere umano poteva abitare?

Alle otto del mattino lo «Sparviero» riprendeva la sua corsa verso il sud-est, diretto verso la catena dei Crevaux e gli altipiani del Kuku-Nor.

Il tempo era pessimo. Nevicava abbondantemente e il vento spazzava il deserto con foga incessante, facendo scricchiolare le armature d’acciaio delle due ali.

– Avremo bufera – disse il capitano con qualche inquietudine.

– Non sarebbe stato meglio fermarci dove ci siamo accampati? – chiese Rokoff.

– Il vento ci avrebbe guastato le nostre ali sbattendole al suolo. Preferisco affrontare la burrasca. Ci terremo però vicini al suolo, non essendovi altezze da superare, almeno fino ai Crevaux, che non raggiungeremo prima di questa sera. Sapete che seguiamo una via già percorsa da un europeo?

– Da chi? – chiese Fedoro.

– Da Donvalot nel 1889-90.

– Capitano! – esclamò Rokoff. – Vedo delle abitazioni in quell’avvallamento.

– Anche Donvalot ne aveva trovato in questa parte dell’altipiano. Quale esistenza devono condurre quei disgraziati!

– Da esquimesi, se non peggio. Non lasciano le loro casupole che nell’estate, per dedicarsi alla caccia o per condurre i loro montoni e i loro cammelli al pascolo.

– E quali piante possono spuntare su questi desolati altipiani?

– Delle misere graminacee e pochi ciuffi d’un’erba corta e legnosa che non deve essere troppo eccellente anche per le bestie più accontentabili.

– E quella costruzione che vedo laggiù in fondo a quell’orribile burrone, che cos’è? – chiese Fedoro.

– Un monastero buddista – rispose il capitano.

– Fabbricato in mezzo a questo deserto?

– Questo deserto è santo, mio caro amico, al pari dei dintorni del Tengri-Nor e di Chassa. Tutto il Tibet è terra venerata, perché tutto appare meraviglioso agli occhi dei pellegrini. Qualunque spaccatura, pei fanatici, è stata aperta dal Dio; qualunque piramide deve essere d’origine divina; perfino i sassi sono cose sante e si portano religiosamente via come reliquia d’una delle trecentosessanta montagne che si elevano in questa regione.

– E che cosa fanno quei monaci in queste gole e fra questi dirupi?

– Raccolgono le salme dei pellegrini morti in causa delle lunghe sofferenze, delle fatiche e della fame, o delle frecce o delle palle dei briganti, per cremarle e quindi mandare le ceneri ai monaci del Tengri-Nor affinché le gettino nell’acqua più sacra della terra.

– Se scendessimo presso quel monastero, ci accoglierebbero male? – chiese Rokoff.

– Nella nostra qualità di stranieri non buddisti, avremmo più da temere che da sperare un cordiale ricevimento – rispose il capitano. – Continuiamo perciò il nostro viaggio e teniamoci lontani da tutti.

Il viaggio però minacciava di diventare molto difficile e anche assai pericoloso.

La bufera di neve aumentava di violenza, e i venti, ormai scatenati, soffiavano con furia irresistibile minacciando di travolgere lo «Sparviero».

Una fitta nebbia si estendeva a poco a poco sull’altipiano, coprendo le spaccature, i burroni, gli abissi e facendo velo alle montagne.

La neve cadeva a larghe falde, turbinando burrascosamente, levandosi poi in cortine così fitte che talvolta Fedoro, il capitano e Rokoff non riuscivano a scorgere più il macchinista e il silenzioso passeggero che si trovavano a poppa del fuso.

Lo «Sparviero», quantunque le sue ali e le sue eliche funzionassero rabbiosamente, descriveva dei bruschi soprassalti e piegava ora a destra e ora a sinistra, imitando il volo incerto e irregolare dei pipistrelli.

Talvolta il vento riusciva a vincerlo, abbattendolo verso qualche abisso, ma passata la raffica il fuso si risollevava slanciandosi nuovamente attraverso gli altipiani.

Nondimeno tutti erano inquieti, compreso il capitano, il quale temeva di dover cedere o di doversi abbassare in mezzo al turbine di neve. E poi vi era anche un altro pericolo gravissimo, quello di trovarsi improvvisamente dinanzi a qualche picco che la nebbia, che diventava sempre più fitta, alzandosi verso lo «Sparviero», non permetteva di distinguere a tempo.

– Come finirà questa corsa? – chiese Rokoff al capitano. – Potremo noi continuarla senza riportare qualche grave avaria? Pensate che una delle ali è stata spezzata sull’Hoang-ho.

– Lo so – rispose il comandante, la cui fronte si abbuiava. – E dove scendere? L’altipiano non si scorge più e potremmo cadere in qualche abisso.

– Se ci alzassimo ancora?

– Nelle alte regioni il vento sarà più impetuoso. Guardate le nuvole come vengono scompigliate e lacerate dalle raffiche.

– Sapete dove ci troviamo?

– So che corriamo verso i Crevaux.

– Saranno ancora lontani?

– Lo suppongo.

– Non ci fracasseremo contro quei picchi?

– Non sono molto alti, signor Rokoff; uno solo, il Ruysbruk mi dà molto da pensare, ignorando le sue dimensioni.

– Speriamo che il vento non ci spinga da quella parte. Dove si trova quella montagna?

– All’ovest.

– E il vento soffia sempre dall’est, signore – disse il cosacco. – E non poter vedere più nulla! La nebbia avvolge tutto l’altipiano e aumenta sempre, salendo verso di noi.

– E l’ala ferita scricchiola – disse il capitano, le cui preoccupazioni aumentavano. – Finiremo per vederla ripiegarsi.

– E cadremo?

– Ci sono i piani orizzontali, signor Rokoff, e ci sosterranno benissimo. Una discesa, anche con questo vento, non mi spaventa.

La situazione dello «Sparviero» si aggravava di momento in momento. Le raffiche, sempre più violente, lo gettavano a ogni istante fuori di rotta, travolgendolo nonostante le battute poderose delle ali e pareva che anche il timone non servisse quasi più.

Il fuso cadeva, si rialzava, volteggiava in mezzo al turbine, poi tornava ad abbassarsi: non aveva più alcuna direzione.

E intanto la nebbia saliva avvolgendolo e la neve, spazzata dai venti, investiva gli uomini, impedendo loro di tenere quasi aperti gli occhi.

D’un tratto lo «Sparviero» si rovesciò violentemente su un fianco. Rokoff aveva mandato un grido:

– L’ala ha ceduto! Cadiamo!

Era vero. L’ala, già guastata dalla palla dei cinesi e poi raccomodata dal macchinista, si era nuovamente spezzata a metà piegandosi in due. Il capitano, vedendola cadere sul fuso, era diventato pallido, però aveva subito riacquistato il suo sangue freddo.

– Arrestate la macchina! – gridò.

– Si rovescerà lo «Sparviero»? – chiesero a una voce Rokoff e Fedoro.

– No, non c’è pericolo – rispose il capitano. – Lasciamoci portare dal vento.

– Dove cadremo? – chiese Rokoff.

– Non lo so, vedremo poi.

Lo «Sparviero» cadeva, ma lentamente, essendo sempre sorretto dai piani orizzontali e dalle eliche, le quali funzionavano ancora.

Il vento lo spingeva verso ponente, facendogli descrivere degli zig-zag che impressionavano il russo e il cosacco, i quali temevano sempre che venisse trascinato contro qualche picco e fracassato.

Il capitano, curvo sulla balaustrata di prora, cercava di discernere la terra che la nebbia e la neve turbinante gli nascondevano.

Dove cadeva lo «Sparviero»? Sull’altipiano, sulla cima di qualche rupe o in fondo a qualche spaventevole abisso?

– Non vedete nulla? – chiese Rokoff, che si teneva da un lato onde il fuso non si squilibrasse.

– Nulla, ma la terra non deve essere lontana.

– Il vento ci porta e minaccia di travolgerci. Toccheremo rudemente.

– Tenetevi saldi; possiamo venire rovesciati.

– Maledetta nebbia!

– Macchinista!

– Signore!

– Ferma anche le eliche.

– Capitano! – esclamò a un tratto Fedoro. – Il vento è improvvisamente cessato.

– Me ne sono accorto.

– Dove siamo dunque noi?

– Suppongo che scendiamo in un abisso. Non udite dell’acqua scrosciare? Pare che qualche cascata ci sia vicina.

– Sì, l’odo anch’io – disse Rokoff.

– E a me pare d’aver veduto un’enorme muraglia fra uno squarcio della nebbia – disse Fedoro.

– Dobbiamo scendere in qualche abisso – rispose il capitano. – Diversamente il vento continuerebbe a soffiare. Preparatevi a saltare a terra appena toccheremo.

Lo «Sparviero» continuava la sua discesa, lentamente, senza scosse, come un aquilone che viene tirato al suolo. Il vento non ruggiva più attorno ad esso, anzi regnava una certa calma.

Doveva aver già raggiunto l’orlo dell’altipiano spazzato dalla bufera; la nebbia però non permetteva agli audaci aeronauti di vedere dove calavano. Lo scrosciare della cascata si udiva sempre verso destra e diventava anzi più assordante. Qualche enorme colonna d’acqua, proveniente da qualche ghiacciaio, doveva precipitarsi attraverso quella spaccatura, o burrone, o abisso che fosse.

Il capitano cercava d’indovinare dove scendevano e non gli riusciva di discernere le pareti del vallone che la nebbia ostinatamente teneva celate. Era già trascorsa quasi una mezz’ora dalla rottura dell’ala, quando il fuso subì una scossa, piegandosi per un momento sul fianco destro.

– Capitano! – gridò Rokoff, aggrappandosi fortemente alla balaustrata. – Abbiamo toccato.

Il comandante si era spinto fuori dal bordo per riconoscere l’ostacolo e vide confusamente una punta aguzza che si piegava sotto il peso del fuso.

– È la cima d’un abete o d’un pino – disse. – Pare che vi sia una foresta sotto di noi.

– Potremo scendere?

Invece di rispondere il capitano si slanciò verso la macchina mettendo in movimento l’elica anteriore. Cercava di spingere innanzi lo «Sparviero», temendo che dovesse cadere in mezzo a qualche foresta, ciò che avrebbe prodotto qualche catastrofe o per lo meno dei gravi danni.

E infatti il fuso, non trovando spazio sufficiente, poteva rovesciarsi e piombare in mezzo alle piante fracassando i piani orizzontali e lacerandosi le ali.

Sembrava però poco credibile al capitano che sotto di lui si estendesse una vera foresta, essendo gli altipiani del Tibet settentrionale quasi privi di piante d’alto fusto.

Qualche abete o qualche pino, trovato il terreno favorevole, poteva essere cresciuto, ma non di più.

Fortunatamente lo «Sparviero», rimorchiato dall’elica, a poco a poco si spostava, cadendo molto lontano da quell’ostacolo che aveva sfiorato l’estremità inferiore del fuso.

Il capitano, che non aveva abbandonato il suo posto a prora, non ne aveva scorto altri. La nebbia però era sempre foltissima, anzi più che sull’altipiano.

D’improvviso il fuso tornò a toccare. Si udì un urto, seguito poco dopo da uno scricchiolare di tavole o di rami, accompagnato da grida acute.

– Mille milioni di fulmini! – esclamò Rokoff. – Schiacciamo della gente noi?

– Mi pare che siamo caduti su un’abitazione – disse il capitano.

Urla di terrore risuonavano fra la nebbia, mentre il fuso s’inclinava verso poppa, trattenuto da un impedimento che non gli permetteva di adagiarsi orizzontalmente.

A un tratto però l’ostacolo cedette sotto il peso e si sfasciò con mille scricchiolii.

 

L’abitazione doveva essersi spezzata, perché lo «Sparviero» riprese il suo appiombo, rimanendo immobile.

– Le armi! Le armi! – gridò il capitano.

Attraverso la nebbia aveva scorto delle ombre umane agitarsi.

Il macchinista e il suo muto compagno avevano portato in coperta degli Snider e dei Remington.

Il capitano era balzato a terra assieme a Fedoro e a Rokoff, gridando in lingua mongola.

– Pace! Pace! Non temete! Siamo amici!

Degli uomini coperti di pellicce che li facevano rassomigliare ad orsi, si erano accostati.

– Chi siete! – chiese una voce imperiosa.

– Amici – rispose il capitano.

– Da dove siete caduti? Avete schiacciato la mia capanna.

– Siamo pronti a indennizzarvi dei danni che vi abbiamo recato.

– Siete mongoli?

– Europei che non vi faranno alcun male.

– Che cosa sono questi europei?

– Degli uomini bianchi – rispose il capitano. – Chi comanda qui? Conduceteci dal vostro capo.

Quindici o venti uomini si erano radunati attorno al capitano e ai suoi compagni, mentre altri s’aggiravano presso lo «Sparviero», cercando di distinguere che cosa fosse quella massa enorme che cadeva dall’alto schiacciando le case.

Un uomo, grosso come una botte, che aveva un enorme berretto di pelo e una casacca di grosso feltro, si era avvicinato al capitano, dicendo:

– Se cercate il capo del villaggio, sono io. Che cosa volete? Da qual parte siete scesi in questa valle senza chiedermi il permesso e mettendo in pericolo i miei sudditi? Per poco non avete schiacciato una intera famiglia.

– È l’uragano che ci ha fatto cadere qui. Se il vento non ci avesse spinti, non saremmo discesi.

– E che cos’è quella bestia? Sarà poi una bestia?

– È la nostra casa.

– Gettata giù dal vento? E non vi siete uccisi? Siete uomini o demoni?

– Vi ho già detto che siamo degli uomini bianchi.

– Venite nella mia capanna; voglio vedere se somigliate a quelli che sono passati per di qui molti anni or sono.

– Vi consiglio di far ritirare tutti i vostri uomini e di non toccare la nostra casa. Potrebbe scoppiare e farvi saltare tutti in aria.

– Allora la vostra casa è una bestia cattiva! – esclamò il tibetano, retrocedendo vivamente.

– Non toccatela e non farà male ad alcuno. Se ci accordate ospitalità, noi vi faremo dei regali.

– So che gli uomini bianchi sono generosi. Anche gli altri mi hanno fatto dei regali.

– A quali europei allude? – chiese Rokoff, cui il capitano traduceva le risposte del tibetano.

– A quelli della missione Bonvalot – rispose il comandante. – Questo selvaggio probabilmente ha veduto il principe Enrico d’Orléans, il figlio del duca di Chartres e cugino del pretendente al trono di Francia. Giacché acconsente a offrirci ospitalità, andiamo subito nella sua capanna. Qui fa un freddo cane e non si vede a due passi di distanza.

– E il macchinista e il vostro amico? – chiese Fedoro.

– Rimarranno a guardia dello «Sparviero».

– Che corrano qualche pericolo?

– Ho detto loro di montare la piccola mitragliatrice e con un simile arnese possono tenersi sicuri. D’altronde non mi pare che questi montanari abbiano intenzioni ostili. Andiamo nella casa di questo capo.

I tibetani, dopo aver ronzato un po’ attorno allo «Sparviero», senza poter indovinare che cosa fosse, in causa della foltissima nebbia che lo avvolgeva, a poco a poco si erano dileguati.

Era rimasto solamente il capo, il quale continuava a infagottarsi nelle sue pelli.

– Vi seguiamo – disse il capitano, dopo essersi fatto dare dal macchinista dei viveri, alcune bottiglie e delle bazzecole che contava di regalare al montanaro.

Tenendosi per mano onde non smarrirsi, si lasciarono condurre. A destra e a manca scorgevano confusamente delle masse oscure che dovevano essere o tende o capanne e che erano avvolte fra un denso fumo che il nebbione impediva di disperdersi.

Dopo trenta o quaranta passi il tibetano aprì una porta e li introdusse nella sua abitazione formata da una sola stanza ingombra di pelli, di caldaie di rame, di quarti di jacks quasi gelati e ammassi di vecchi tappeti di feltro che dovevano servire da letto.

Nel mezzo, su quattro sassi, bruciava dell’argol, il quale non è altro che dello sterco di toro indurito, l’unico combustibile usato sull’altipiano e che produce fumo in abbondanza. Un’apertura però, fatta nel tetto, permetteva che bene o male uscisse; ve ne rimaneva tuttavia tanto dentro, che gli aeronauti credettero per un momento di morire asfissiati.

– All’inferno i palazzi tibetani! – esclamò Rokoff, che tossiva fragorosamente. Questa è una tana da volpi!

– Ci abitueremo presto a questo fumo – rispose il capitano.

Il capo si era intanto sbarazzata del suo immenso mantello, formato da una intera pelle di jack, che portava col pelo all’infuori, e del suo berrettone di pelle d’orso, che gli nascondeva mezzo volto.

Era il vero tipo del montanaro tibetano, basso di statura, secco, con occhi piccoli, un po’ obliqui come quelli della razza mongola, senza un pelo sul volto e invece con una capigliatura lunga e abbondante, molto ruvida e che portava raccolta in trecce cadenti sulla fronte bassa e depressa e sulle spalle.

Aveva gli zigomi molto più pronunciati dei cinesi, il naso grosso, la bocca larga fornita di denti lunghi e acuti come quelli delle belve, male disposti e sporgenti in modo che gli uscivano dalle labbra. La sua pelle poi scompariva sotto un vero strato di sporcizia. Probabilmente quell’uomo non si era mai lavato dal giorno che era venuto al mondo.

Prima d’accostarsi agli aeronauti, fece un goffo inchino alzando poi i pollici delle mani fino all’altezza della fronte e cacciò fuori dalle labbra una lingua lunga quasi mezza piede, che lasciò penzolare per alcuni istanti.

– Per le steppe del Don! – esclamò Rokoff, guardandolo con stupore e con disgusto. – Sta appiccandosi costui?

– Ci saluta – rispose il capitano.

– Con quella lingua! Da dove l’ha cacciata fuori!

– Tutti i tibetani l’hanno così lunga.

– Dite mostruosa. È ributtante! Sembra quella d’un orso formichiere.

– Se saremo costretti a fermarci qui ne vedrete ben altre più enormi.

– Mille storioni!

Il tibetano, dopo quel saluto, con una mimica molto espressiva, aveva invitato i suoi ospiti a sedersi attorno al fuoco, dove già si trovavano dei grossolani tappeti di feltro.

Tutti i montanari di quei desolati altipiani, per lo più non si esprimono che con moti, come se incontrino qualche difficoltà nel parlare. Dipende forse dalle mostruose dimensioni della loro lingua e anche dalla pessima disposizione dei loro denti? Il fatto sta che fra di loro non parlano quasi mai. Si esprimono e si comprendono benissimo con moti della bocca e della lingua, agitando le labbra in vari sensi, aiutandosi anche coi pollici delle mani per meglio far comprendere i loro desideri.

Anche quando vogliono salutare, invece di dare un cordiale «buon giorno» o la «buona sera», si limitano a sporgere più che possono la lingua.

Il capo andò a prendere un coltellaccio e da un quarto di jack che era sospeso alla parete, staccò alcuni enormi pezzi che depose dinanzi agli ospiti invitandoli a mangiare.

– Mille milioni di fulmini! – esclamò Rokoff. – Questo scimmiotto ci prende per tigri o per lupi per darci della carne cruda.

– Non usano cucinarla – disse il capitano. Questi montanari vivono nel modo più primitivo che si possa immaginare e non si nutrono che di farina d’orzo e di carne cruda. Immaginatevi che non conoscono nemmeno il tè!

– Io non farò onore a questo pasto da cannibali – disse Fedoro.

Abbiamo le nostre provviste e vedrete che il capo non si farà pregare per assaggiarle.

Aveva portato delle scatole di carne conservata, un pudding gelato, dei biscotti, dello zucchero per prepararsi il tè e due bottiglie di ginepro.

Depose ogni cosa intorno al fuoco e invitò il capo a prendere parte al pasto.

Il montanaro, vedendo gli ospiti lasciare intatta la carne cruda era rimasto un po’ confuso, però aveva subito accettata la parte che il capitano gli offriva, gettandosi avidamente sul pezzo di pudding e sulle gallette e guardando cogli occhi accesi i pezzetti di zucchero.

– Io conosco quei pezzi di pietra – disse. – Gli uomini bianchi che sono passati per di qua molti anni or sono, me ne hanno fatto assaggiare.

– To’! Li chiama pezzi di pietra! – esclamò Rokoff, dopo aver udita la traduzione. – A te, mio caro selvaggio, addolcisciti la bocca; poi te la riscalderai col ginepro.