Za darmo

I figli dell'aria

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

– Avrebbe potuto dircelo liberamente. Io non avrei avuto nulla a che dire, anche nella mia qualità d’ufficiale dei cosacchi.

– E nemmeno io, Rokoff.

– Bel tipo quel capitano!…

– Un uomo incomprensibile.

– Ma gentile, Fedoro, quantunque un po’ originale.

– Che ci terrà buona compagnia. Buona notte, amico; me ne torno alla mia cabina.

E si separarono, lieti di aver delucidato, se non interamente, almeno parte di quel mistero. L’indomani, dopo la colazione, lo «Sparviero» lasciava quel gruppo di rocce, riprendendo la sua corsa attraverso il deserto.

Deserto veramente non si poteva più chiamare, perché le sabbie rapidamente scomparivano, lasciando il posto a distese considerevoli di pini, di betulle e di erbe altissime in mezzo alle quali saltellavano legioni di lepri.

Verso l’ovest invece si delineava la imponente catena dei Tian-Scian, una delle più considerevoli dell’Asia centrale e che divide la Dzungaria dal bacino del Tarim e da cui scendono numerosi fiumi.

Qualche accampamento di mongoli, formato di tende di feltro di colore oscuro, si cominciava a distinguere verso gli ultimi contrafforti della catena e anche qualche carovana di cammelli sulla strada che va da Pigion a Chami.

– Scendiamo verso la Mongolia meridionale – disse il capitano, il quale aveva raggiunto Fedoro e Rokoff che stavano a prora, osservando l’imponente panorama che si svolgeva sotto i loro sguardi. – Fra tre giorni noi ci libreremo sugli altipiani del Tibet.

– Ci avanziamo con una velocità straordinaria – disse Fedoro.

– Percorriamo cinquanta miglia all’ora, signori miei, abbiamo il vento favorevole.

– Quasi come gli uccelli – disse Rokoff.

– Oh no! Guardate come corrono quelle aquile che pare abbiano intenzione di venirci a fare una visita.

– Delle aquile! – esclamò Rokoff.

– Non le vedete? Vengono dai Tian-Scian ed ingrandiscono a vista d’occhio – disse il capitano.

– Non danneggeranno le nostre ali!

– Lo cercheranno. Quei volatili sono coraggiosi.

– E non le respingeremo noi?

– Ho già dato ordine al macchinista di portare in coperta dei buoni fucili da caccia. Non c’è da fidarsi di quei rapaci e stizzosi volatili.

– Che credono il vostro aerotreno un uccellaccio?

– È probabile, signor Rokoff. L’hanno proprio con noi.

Una schiera di volatili, che avevano delle ali gigantesche, scendeva, con velocità fulminea, gli ultimi scaglioni del Tian-Scian, movendo verso lo «Sparviero».

Erano dieci o dodici, tutte di dimensioni poco comuni, essendo le aquile della Mongolia molto più grosse di quelle che vivono sulle montagne dell’Europa. Non uguagliano ancora i maestosi condor delle Ande americane, che sono i più giganteschi della famiglia, nondimeno raggiungono uno sviluppo straordinario.

Le aquile s’avanzavano su doppia fila, gridando a piena gola, colle penne arruffate, ed i lunghi e robusti becchi adunchi aperti, pronti a lacerare.

Volavano con tale velocità, che in meno d’un quarto d’ora si libravano sopra lo «Sparviero», sbattendo vivamente le loro immense ali.

– Sono furiose – disse Rokoff, prendendo un fucile da caccia, di fabbrica americana, a due canne, che gli porgeva il macchinista.

– Attenti alle ali del nostro «Sparviero» – disse il capitano.

– E anche ai piani orizzontali – aggiunse Fedoro. – Stracceranno la seta.

Anche lo sconosciuto si era armato d’un fucile, collocandosi a poppa. Come il giorno innanzi non aveva pronunciata una sola parola, anzi si era sempre tenuto lontano dal russo e dal cosacco quasi avesse avuto timore di venire interrogato.

Le aquile, dopo essersi tenute ad una considerevole distanza volando sempre sopra lo «Sparviero», avevano cominciato ad abbassarsi descrivendo degli ampi giri che sempre più restringevano.

– Canaglie! – esclamò Rokoff. – L’hanno con noi perché disputiamo loro l’impero dell’aria! Le signore sono molto stizzose! Vi calmeremo con un po’ di piombo che vi guasterà le penne e anche la pelle.

Il capitano vedendone una che stava per piombare sullo «Sparviero», sparò il primo colpo alla distanza di sessanta passi.

I pallottoloni le fracassarono di colpo le zampe e l’ala destra. Il volatile per un po’ si sostenne, battendo furiosamente quella che era rimasta incolume, poi incominciò a scendere verso il deserto, descrivendo dei bruschi angoli.

– E una – disse Rokoff. – A me la seconda!

Tre colpi di fucile rimbombarono, seguiti da altrettanti. Anche Fedoro e lo sconosciuto avevano fatto fuoco, quasi contemporaneamente.

Due aquile capitombolarono come corpi morti e un’altra le seguì poco dopo, facendo sforzi disperati per sorreggersi.

Le altre un po’ calmate da quell’accoglienza punto incoraggiante, s’innalzarono precipitosamente, senza però decidersi a lasciare in pace il trenoaereo.

– Sono ostinate – disse Rokóff. – Non ne hanno ancora abbastanza.

– Ritenteranno l’assalto – rispose il capitano. – Non è la prima volta che il mio «Sparviero» viene assalito da quei rapaci volatili. Nel traversare le Montagne Rocciose m’hanno dato una caccia accanita per sette e più ore e m’hanno lacerata tutta la seta dell’ala destra, mettendomi in un gravissimo imbarazzo. Se non avessi avuto le eliche il mio viaggio sarebbe terminato in America.

– Sono ben coraggiose – disse Fedoro.

– Il mio macchinista porta ancora la traccia d’un colpo di rostro che gli aveva stracciato il cuoio capelluto. Se fosse stato più leggero, l’avrebbero portato via.

– Che sia vero che talvolta le aquile osano rapire perfino delle persone? – chiese Rokoff.

– Degli adulti no, ma dei ragazzi sì – rispose il capitano – Questi volatili posseggono una forza muscolare incredibile e veramente prodigiosa. Non si trovano imbarazzati a rapire dei montoni e dei camosci che poi portano nel loro nido per divorarseli con maggior comodità.

– E anche dei fanciulli?

– Nella Scozia, per esempio, dove le aquile sono molto numerose, ogni anno ne rapiscono e anche qui nel deserto. Le madri mongole hanno anzi tanta paura che non osano lasciare soli i loro bambini e se li tengono sempre presso, quando s’accorgono della presenza di qualche aquila.

– Signore, tornano – disse il macchinista.

– Ancora? Sono cariche le vostre armi? – chiese il capitano.

– Sì – risposero il russo e il cosacco.

– Mirate le ali.

Le aquile si erano riunite in gruppo e tornavano ad abbassarsi. Questa volta pareva che avessero preso di mira i piani inclinati, la cui seta, che luccicava ai raggi del sole, doveva aver attirata maggiormente la loro attenzione.

Calavano con furia, tenendo le ali aperte e le zampe allungate, con un gridio assordante.

– Sono a buon tiro! – gridò il capitano.

I cinque aeronauti, perché anche il macchinista si era armato abbandonando per un momento il timone, fecero due scariche l’una dietro l’altra in mezzo al gruppo.

Fu una vera strage. Cinque su nove, caddero moribonde, volteggiando e starnazzando, mentre le altre fuggivano rapidamente, verso gli altissimi picchi dei Tian-Scian.

– Che batosta! – esclamò Rokoff. – Capitano, se ci abbassassimo a raccogliere i morti?

– Per cosa farne?

– Degli arrosti.

– Che sarebbero più coriacei della carne dei muli vecchi – rispose il comandante. – Mangiare degli uccelli che hanno forse uno o due secoli di vita! Preferisco i miei pasticci di canguro.

– È selvaggina, signore

– Che non vale una pipa di tabacco. D’altronde se siete amanti dei selvatici, presto ne troveremo in abbondanza. Il Tibet è ricco d’argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti.

– E li cacceremo da qui?

– E perché no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna.

In quell’istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo «Sparviero».

Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili.

– Una carovana! – esclamò il capitano. – Da dove è sbucata che prima non l’avevamo veduta?

– Da quel bosco di betulle e di larici – disse Rokoff. – Ma… to’! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole.

– Sono calmucchi – disse il capitano. – Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro.

– Non mi rincrescerebbe – rispose Rokoff.

– E poi, non sono che una dozzina – disse Fedoro. – Prenderemo le nostre armi.

– Macchinista! Scendiamo – comandò il capitano.

LE AMBIZIONI D’UN CALMUCCO

I calmucchi in quel frattempo erano rimasti sempre in ginocchio, in una specie d’adorazione, colle mani sempre tese verso lo «Sparviero» che, presumibilmente, scambiavano per la luna o per qualche altro astro del firmamento.

Erano in tredici con cinque cammelli molto villosi e tre cavalli ossuti e così magri che mostravano le costole. Dinanzi a tutti, inginocchiato su un vecchio tappeto sfilacciato stava un sacerdote, un mandiki, ossia monaco d’un ordine inferiore, d’una obesità enorme, elefantesca, rassomigliante a una massa di grasso coperta di pelle, con un viso così paffuto da, rassomigliare a una vera luna piena, con due occhietti che si intravedevano a malapena attraverso due fessure carnose. Indossava una lunga e lurida tonaca di feltro giallo, cinta da un rosario di pallottoline d’osso ed aveva la testa nuda, con una sola ciocca di capelli in mezzo al cranio che formava un ciuffo untuoso. Gli altri erano tipi di briganti, coi lineamenti angolosi, la pelle bruno-giallastra, il viso piatto e molto largo, gli occhi un po’ obliqui e con barbe incolte. Avevano lunghe casacche di stoffa grossolana con maniche ampie, calzoni larghissimi, fasce ripiene di pistoloni a pietra e di coltellacci, e a terra si vedevano certe specie di tromboni colle canne che s’allargano in forma di imbuto.

 

– Che musi – disse Rokoff, che li osservava. – E voi dite, capitano, che questi uomini non sono da temersi? I calmucchi godono una fama incontrastata di essere ospitali quanto gli arabi.

– Giudicheremo dall’accoglienza che ci faranno.

Lo «Sparviero», che al momento in cui il capitano aveva dato il comando al macchinista, si trovava a soli trecento metri d’altezza, in meno d’un minuto toccò il suolo a soli cinquanta passi dall’accampamento.

Rokoff, Fedoro e il comandante, dopo essersi armati di fucili a palla, lasciarono la navicella, dirigendosi verso quel gruppetto di nomadi.

Il monaco s’era alzato, mandando grida di gioia.

– Non abbiate alcun timore – disse il capitano in cinese.

– Ma voi siete uomini! – esclamò il calmucco, nella egual lingua.

– E chi volevate che fossimo?

– Figli del sole e della luna.

– Se vi piace crederci tali, noi non ci opporremo.

– E quella bestia? – chiese il monaco, accennando, con un gesto di terrore, lo «Sparviero».

– Ah! Quell’uccello sì che è un figlio della luna.

– E, come si trova in vostro possesso?

– Gli uomini bianchi sono amici della luna e possono montare i suoi figli.

– E non vi mangia?

– Non ne ha bisogno. Quell’uccello fa a meno delle colazioni e dei pranzi, non vivendo che d’aria.

– Anche a noi non farà male?

– A nessuno.

– Signore – disse il monaco – voi che siete uomini così potenti, volete degnarvi d’accettare l’ospitalità d’un povero mandiki?

– Siamo discesi appunto per questo – rispose il capitano.

– Io ne acquisterò gran fama e riuscirò forse a realizzare il mio sogno di diventare finalmente ghetzull e chissà, fors’anche hellung.

– Il monaco è ambizioso, – disse Fedoro a Rokoff.

– Perché? – chiese questi, che non aveva capito niente.

– Questo monaco è un mandiki, ossia uno dei più infimi della casta e si capisce che vorrebbe guadagnare uno degli ordini superiori e diventare ghezull o, meglio ancora, hellung.

– Ciò non gli ha impedito però d’ingrassare enormemente.

– Sono tutti così rotondi i sacerdoti dei calmucchi.

– Devono condurre una vita beata.

– Sono i più neghittosi di tutti e anche i più formidabili mangiatori. Vivono alle spalle dei pastori e non pensano che a divorare, bere e dormire.

– I furbi!

– Sono volponi matricolati.

– E dove andava questo prete?

– A quanto ho udito, si reca a Turfan per la festa delle lampade.

– Una cerimonia religiosa?

– E delle più importanti e anche delle più curiose.

– Che il capitano voglia andare a vederla?

– Non mi stupirei.

Mentre chiacchieravano, il seguito del monaco aveva rizzato le tende, o meglio le kibitkas, formate da pali molto sottili che all’estremità superiore vengono piegati ad arco, in modo da formare una specie di cupola, che poi viene coperta da uno spesso tessuto di feltro.

Nel centro vi si attacca una grossa pietra sospesa a una fune, onde dare al leggero edificio maggior stabilità e porlo in grado di resistere ai venti, che talvolta soffiano impetuosissimi sugli altipiani dell’Asia centrale e nel deserto di Sciamo. Il monaco aveva invitato il capitano e i suoi due amici nella sua tenda, che era la più vasta e la più bella, offrendo tosto del koumis, miscuglio composto di latte di cammello agro e d’acqua, non sgradevole, e un mezzo agnello arrostito qualche ora prima.

Il capitano, dal canto suo, aveva fatto portare dal macchinista alcune bottiglie di whisky e dei pasticci, acquistati chissà quanti mesi prima in America o in Australia, ma che il freddo intenso della ghiacciaia aveva mirabilmente conservati. Il monaco non solo aveva assalito ingordamente i pasticci, ma si era attaccato anche alle bottiglie, tracannandone il contenuto con un’avidità da vero selvaggio. Alla seconda, era già tanto commosso che grosse lacrime bagnavano il suo faccione da luna piena.

Si era messo a raccontare le sue sventure. Da sette anni, nonostante tutta la sua buona volontà e la sua ambizione, era sempre rimasto un umile mandiki, mentre aveva sognato di poter diventare un giorno un potentissimo Lama, ossia capo della religione. Eppure aveva preso parte a tutte le feste religiose, aveva mangiato e bevuto a crepapelle per acquistare quella rotondità necessaria per far buona figura, rovinando una mezza dozzina di tribù di pastori, alle quali aveva divorato, a poco a poco, perfino l’ultimo agnello.

Ormai non contava più che sopra un avvenimento straordinario per diventare almeno ghetzull se non hellung.

– Voi soli potreste darmene il mezzo – disse finalmente, quand’ebbe vuotata la terza bottiglia.

– E in quale modo? – chiese il capitano, che rideva fino alle lagrime delle comiche sventure dell’obeso calmucco.

– Facendomi scendere dal cielo.

– Non vi comprendo.

– Prendetemi con voi, sulla vostra bestia e conducetemi a Turfan. Vedendomi scendere dalle nuvole, io acquisterò una tale fama, che i miei confratelli non esiteranno più a passarmi di grado. Un uomo che vola? Un uomo che è in relazione colla luna! Figuratevi che successo!

– Ah! Briccone! – esclamò Rokoff, a cui Fedoro aveva tradotte le parole del calmucco. – È più furbo di tutti! Se io fossi voi, capitano, lo accontenterei. L’avventura sarebbe buffa.

– Volete che andiamo a vedere la festa delle lampade? – chiese il comandante, che non riusciva a frenare il riso.

– Andiamoci, signore – disse Fedoro. – Sotto la protezione d’un monaco nulla avremo a temere.

– E il seguito? – chiese Rokoff.

– Se ne andrà a Turfan per suo conto – rispose il capitano.

Il progetto fu comunicato al monaco, il quale per la gioia si mise a piangere come una vite appena potata.

– La mia carriera è assicurata – gridava, sbuffando come una foca. – Sarò ghetzull, fors’anche hellung e chissà anche Lama. Oh! miei buoni figli della luna! Quanta riconoscenza vi dovrò! Metterò a contribuzione tutti pastori di Turfan per empire la vostra bestia di agnelli e di capretti.

– Compiango quei poveri diavoli – disse Rokoff. – Purché, invece di agnelli, non ci regalino del piombo o delle legnate!

– I monaci dei calmucchi sono onnipossenti e nessuno oserebbe ribellarsi ai loro voleri.

– Andiamo dunque a Turfan.

Il mandiki, dopo molti sforzi, era riuscito ad alzarsi. Traballava però così male sulle sue gambe elefantesche, che il troppo abbondante whisky aveva reso estremamente pesanti, che Rokoff e Fedoro si videro costretti a sorreggerlo per non fargli perdere la sua dignità di monaco buddista.

Quando gli uomini della scorta appresero la sua decisione di recarsi a Turfan su quella bestia alata, non poterono fare a meno di manifestare la loro ammirazione pel coraggio del loro sacerdote. Ebbero bensì qualche apprensione vedendolo dirigersi verso la bestia in compagnia di stranieri, però si rassicurarono, dopo che ebbero promesso di aspettarli a Turfan.

Ci volle anche l’aiuto del capitano e del macchinista per imbarcare quell’enorme massa, che non doveva pesare meno d’un quintale e mezzo.

– Siete sempre deciso? – gli chiese il comandante, prima di dare ordine d’innalzarsi.

– Sì – ebbe appena la forza di borbottare il monaco. – Ghetzull… hellung… Lama…

E si lasciò cadere di peso su un materasso, che fortunatamente si trovava presso di lui, chiudendo gli occhi.

– L’aria fresca gli farà passare presto l’ubriachezza – disse Rokoff. – Che bevitore! Sono curioso di vedere come finirà questa amena avventura.

Lo «Sparviero» aveva preso lo slancio e s’innalzava quasi verticalmente, battendo vivamente le ali.

I calmucchi, vedendolo andarsene, ebbero un’ultima esitazione.

– No! No! – gridarono, con voce singhiozzante. – Non portatelo via!

Ma già lo «Sparviero» fuggiva sopra il deserto, con una velocità di quaranta miglia all’ora, passando sopra gli ultimi contrafforti del Tan-Sciang.

– Ci vorrà molto a giungere a Turfan? – chiese Rokoff al capitano, il quale stava osservando una carta della Mongolia.

– Fra un paio d’ore ci saremo – rispose il comandante. – È un centro grosso?

– Eh! Una borgata perduta lungo la via carovaniera che attraversa lo Sciamo occidentale.

Lo «Sparviero» si era molto innalzato per poter superare la catena, la quale spingeva i suoi picchi rocciosi a settecento, a ottocento e perfino a mille metri. Era un ammasso enorme di rupi brulle, senza alcuna traccia di vegetazione verso le cime, con spaccature profondissime che disegnavano delle vallate selvagge, in fondo alle quali si vedevano scorrere dei torrentacci impetuosi. Laggiù la vegetazione non mancava, anzi si vedevano vere foreste di betulle, di pini e di larici, ma nessuna abitazione.

Solo degli argali, specie di stambecchi, con due corna molto ramose ai lati della testa, balzavano fra le rupi, fuggendo con rapidità fantastica; in alto invece qualche aquila in vedetta su qualche picco e che alla comparsa dello «Sparviero», invece d’inseguirlo, fuggiva precipitosamente, calando sugli altipiani inferiori.

Il treno aereo avendo trovato un vallone profondo che pareva tagliasse in due la catena, si era abbassato fino a quattrocento metri, radendo talvolta, coll’estremità inferiore del fuso le punte degli abeti e dei pini.

Il capitano aveva ordinato al macchinista di abbassarsi sperando di fare un buon colpo sugli argali che si vedevano sempre numerosissimi, ma quei sospettosi e agilissimi animali non si lasciavano accostare.

Appena scorta l’ombra proiettata dallo «Sparviero» s’affrettavano a cacciarsi nei boschi, rendendo così impossibile l’inseguimento.

Verso le tre pomeridiane, ossia due ore dopo lasciato l’accampamento dei calmucchi, il treno aereo sboccava nello Sciamo meridionale, presso la via carovaniera di Chami e d’Urumei. Quasi subito, fra due colline, apparve un aggruppamento di costruzioni in legno e di tende.

– Turfan – disse il capitano.

– È ora di svegliare il monaco – disse Rokoff.

– Anche per nostra salvaguardia – aggiunse Fedoro. – È incaricato di proteggerci.

– Aprirà poi gli occhi? – chiese il cosacco. – Sarà ancora ubriaco.

– Gli somministreremo un po’ d’ammoniaca in un bicchier d’acqua – disse il capitano. – Se dovessimo sbarcarlo in questo stato, i calmucchi sarebbero capaci di prendersela con noi.

Il macchinista, il quale aveva ceduto il timone allo sconosciuto, che si era sempre tenuto da parte senza mai parlare, portò il bicchiere e forzò il monaco a berlo. Il povero diavolo lo mandò giù facendo delle smorfie e sternutendo sonoramente parecchie volte.

– Questo non è koumis! – esclamò. – Briganti di servi! Che cosa avete dato al vostro sacerdote?

Probabilmente credeva di trovarsi ancora sotto la sua tenda. Accortosi dell’errore e vedendo sopra di sé agitarsi le immense ali dello «Sparviero», impallidì e si portò le mani alla fronte.

– Dove sono? – si chiese, con accento smarrito.

– Sopra Turfan – rispose il capitano, ridendo. – Su, in piedi, se volete diventare ghetzull o hellung.

– Turfan! – esclamò il calmucco, che penava molto a raccapezzarsi.

D’un tratto mandò un grido:

– I figli della luna!

– Pare che l’ubriachezza gli sia finalmente passata – disse Rokoff.

– E che sia molto spaventato – aggiunse Fedoro. – Non c’è più alcool nel suo corpo che gli dia del coraggio.

– Gliene faremo ingollare dell’altro.

Il monaco, aiutato dal capitano, si era alzato aggrappandosi alla balaustrata. Appena ebbe dato uno sguardo all’abisso che gli si apriva sotto i piedi, retrocesse vivamente, agitando le braccia come un pazzo.

– Ho paura! – esclamò. – Non gettatemi giù! Sono un povero mandiki.

– Che cosa vi salta pel capo, ora? – chiese il capitano. – Volevate andare a Turfan coi figli della luna e noi vi abbiamo accontentato.

– E non ci ammazzeremo tutti? – chiese il monaco, che sudava freddo.

– Giungerete in ottimo stato, ve lo prometto.

– E questa bestia non mangerà nessuno?

– Non le piacciono gli uomini, specialmente quelli della vostra razza.

Il mandiki, un po’ rassicurato, si riaccostò alla balaustrata, poi tornò a retrocedere, coprendosi gli occhi colle mani.

– Cadiamo! – gemette.

– Animo – disse il capitano. – pensate che da questa discesa dipende il vostro avanzamento. Ecco gli abitanti che vi acclamano.

 

Una folla numerosissima si accalcava sulla piazza del villaggio, mandando urla di sorpresa e anche di terrore. Si vedevano donne e fanciulle fuggire e uscire invece dalle tende uomini armati di fucili e di tromboni.

– Fatevi vedere – disse il capitano al monaco. – Se fanno fuoco io non scenderò e sarete costretto a rimanere con noi.

– Ho paura! Ho paura! – balbettava il mandiki.

– Se non obbedite vi getto giù!

A quella minaccia il calmucco impallidì come un cencio lavato e fu lì lì per lasciarsi cadere. Vedendo però il capitano avanzarsi, si fece animo e si curvò sulla balaustrata, gridando alcune parole.

Le urla erano subito cessate. I calmucchi avevano lasciato cadere le armi, facendo gesti di maraviglia e di stupore.

Il loro mandiki scendeva dal cielo, portato da quel mostruoso uccello! La cosa doveva sembrare ben meravigliosa a quei poveri nomadi, che non avevano mai udito parlare né di aerostati, né tanto meno di macchine volanti. La loro sorpresa era tale, che parevano come pietrificati.

Lo «Sparviero» intanto scendeva descrivendo dei larghi giri che a poco a poco si restringevano, poi le sue ali rimasero tese formando un paracadute assieme ai piani orizzontali e la massa si lasciò cadere proprio in mezzo alla piazza. La folla, vedendolo abbassarsi, si era ritirata precipitosamente per non farsi schiacciare, mentre il monaco, che aveva riacquistato il coraggio, ritto a prora con un’aria da trionfatore, trinciava benedizioni a destra e a manca, invocando Buddha.

Grida d’ammirazione scoppiavano da tutte le parti. Si urlava, si applaudiva il monaco che aveva saputo, certo per opera del dio, domare quell’enorme mostro e renderlo docile ai suoi voleri. Tuttavia nessuno osava accostarsi a quell’uccellaccio di nuova specie, anzi alcuni avevano armato i fucili, temendo un improvviso attacco. Il mandiki, con un gesto da sovrano, impose silenzio alla turba e gridò con un vocione da basso profondo:

– Giù le armi, figli miei. Questa bestia non farà male a nessuno, perché io l’ho domata e fate buona accoglienza agli uomini che mi accompagnano, che sono i figli di Buddha.

– Ah! Il volpone! – esclamò Rokoff. – Per lui eravamo figli della luna; ora siamo diventati, per gli altri, nientemeno che figli del dio. Sfrutta bene l’ignoranza di questi poveri calmucchi.

Il mandiki, dopo molti sforzi e anche coll’aiuto del cosacco e di Fedoro, era riuscito a scavalcare la balaustrata, muovendo, con incedere maestoso, verso la folla che gli si era subito stretta intorno disputandosi l’onore di baciargli l’orlo della veste.

I calmucchi parevano in preda a un vero delirio. Finirono per sollevare il monaco, nonostante il suo enorme peso, portandolo in trionfo per la piazza.

– Ci lascia? – chiese Rokoff. – Non sarei stupito che se ne andasse dimenticandosi d’inviarci i promessi montoni.

Ma il cosacco giudicava male il mandiki, perché questi, appena calmatosi un po’ l’entusiasmo della folla, si fece deporre a terra e s’avvicinò allo «Sparviero», dicendo al capitano:

– Signore, degnatevi d’accettare l’ospitalità nella tenda della principessa che comanda in Turfan. Si sta preparando il pranzo pei figli di Buddha.

– Durante la nostra assenza nessuno toccherà il mio uccello?

– Oh! Non temete! Questi stupidi hanno troppo paura e non oseranno nemmeno accostarsi. Non sono sacerdoti essi.

– Per prudenza lasciamo qui il macchinista e quel signore – disse il capitano. – E noi, signor Rokoff e voi, Fedoro, armiamoci delle rivoltelle. Non si sa mai quello che può accadere.

Nascosero le armi sotto le larghe fasce, delle rivoltelle di grosso calibro, vere Colt americane e seguirono il monaco fiancheggiati da due o trecento calmucchi, i quali però si tenevano a una certa distanza.

– Sarà giovane o vecchia questa principessa? – chiese Rokoff al capitano.

– Se sarà bella e giovane, vi concedo il permesso di corteggiarla – rispose il comandante, ridendo. – Non rimarrà insensibile agli omaggi d’un figlio di Buddha.

– Non mi comprenderà.

– Ah, sì, mi dimenticavo che non parlate nemmeno il cinese.

– Ditemi, capitano, comandano le donne qui?

– Sarà la vedova di qualche capo.

– Allora sarà vecchia.

– Aspettate a giudicarla.

All’estremità della piazza s’alzava una vastissima kibitka di forma quasi ovale, coperta di grosso feltro impermeabile, con un’apertura sulla cima per lasciar penetrare la luce e uscire il fumo, non conoscendo i calmucchi, al pari dei duzungari loro vicini e anche dei mongoli, i camini.

Il mandiki alzò un lembo della tenda e li introdusse, pregandoli di aspettare la principessa, la quale stava abbigliandosi in una tenda vicina. L’interno era montato con un lusso, che stupì perfino il capitano. In un canto vi era un letto monumentale, con una coperta di seta azzurra a fiorami rossi e gialli, con baldacchino pure di seta e tende bianche e rosa.

Dinanzi stava un divanetto con un ricco tappeto di provenienza persiana o tibetana e in disparte un ricco cofano d’origine cinese, a colori brillanti e lacca, carico di coppe ricolme di riso e di frumento, di sonagliuzzi di varie grandezze, con due bambole vestite di seta, simili a quelle che vendono i cinesi. In mezzo si vedeva una statuetta di Buddha coperta da una mussola ricamata in oro. Intorno poi alla tenda v’erano numerosi cuscini di seta, posti su piccoli tappeti, destinati di certo ai visitatori.

– Che lusso! – esclamò Rokoff, che non poteva star zitto un minuto. – La principessa deve essere bella e molto graziosa per avere un così ricco letto. Mi rincresce di dover starmene muto dinanzi a lei.

– Eppure voi, che siete cosacco, dovreste conoscere qualche parola di calmucco – disse il capitano. – Questa razza, nomade fra le nomadi, si è sparpagliata fino ai confini dell’Europa e ha tribù numerose perfino nel Caucaso e nell’Astrakan.

– Ha invaso mezza Asia?

– Se non di più, signor Rokoff. È una razza di conquistatori, che ha avuto, secoli indietro, parecchie fasi di gloria e di potenza, e che sotto il famoso Genghiz Khan portò le sue armi vittoriose fino in Russia. Sapete che si dice che gli unni, che con Attila invasero perfino l’Italia, siano stati gli antenati di questi nomadi, che ora vedete così miserabili?

– Ne ho udito parlare. Ora però non sono capaci d’altro che di condurre al pascolo i loro montoni e i loro cammelli.

– Perché si sono troppo dispersi e suddivisi in un numero infinito di tribù indipendenti le une dalle altre.

– Ecco la principessa – disse Fedoro.

I tre aeronauti si erano alzati guardando curiosamente verso l’entrata della tenda, che l’enorme monaco teneva alzata.

– Ah! La brutta vecchia! – esclamò Rokoff. – Ma questa è una strega!

La principessa si era avanzata, facendo colle mani un saluto rispettoso.

Era una donna piccola, magra come un chiodo, colla pelle del viso color del pan bigio, grinzosa e incartapecorita, con due occhietti neri ancora vivaci e di una mobilità straordinaria. Quale età poteva avere? Ottanta o cent’anni? Rokoff gliene avrebbe dati anche di più.

Come tutte le ricche calmucche, indossava una lunga veste che le scendeva fino ai piedi, aperta in alto in modo da lasciar vedere la camicia di seta bianca. Sul capo portava una specie di berretto colla parte superiore quadrata e l’inferiore rialzata da una parte e aveva i capelli raccolti in trecce e ancora neri e abbondanti, chiusi in una fodera di seta nera.

Le dita ossute erano coperte di anelli d’oro e d’argento e anche al collo portava pesanti monili formati da tael cinesi e da grani d’oro. Nonostante quello sfarzo di gioielli, il colore azzurro della veste e le ricche babbucce di pelle rossa con ricami d’argento, la principessa era d’una bruttezza ripugnante.

Il monaco, che pareva all’apice del suo trionfo, presentò alla vecchia i figli viventi di Buddha, chiamandoli suoi amici e suoi protettori, poi li fece sedere sui cuscini mentre egli prendeva posto sul divanetto assieme alla principessa.

Quasi subito entrarono parecchi servi portando quattro capretti arrostiti interi, vasi ricolmi di koumis e focacce di frumento e di riso.

– Diamo un saggio della capacità degli stomachi dei piccoli Buddha – disse Rokoff.

Il mandiki, nella sua qualità di monaco, aveva servito agli ospiti dei pezzi enormi su piatti d’argento, invitandoli a far onore alla modesta cucina della principessa Khurull-Kyma-Chamik.

– Mi pare che abbia sternutato – disse Rokoff.