Za darmo

I figli dell'aria

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– Vi è qui qualche ufficio telegrafico? – chiese Fedoro.

– Qui no, ma non è molto lontano.

– Se siamo nel cuore del Gobi?

– E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace?

– Farò il possibile per soddisfarvi, capitano – rispose il cosacco.

– Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata.

Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l’un l’altro, chiedendosi:

– Chi capirà quest’uomo?

LE TROTE DEL CARACORUM

Appena terminata la colazione, Rokoff e Fedoro prendevano i fucili per andare in cerca dell’orso, mentre il capitano andava a gettare le sue reti per prendere le famose trote. Il macchinista invece, certo di non venire disturbato, si era messo al lavoro per accomodare quella disgraziata ala, che per la seconda volta aveva messe in così grave pericolo le vite degli aeronauti. La giornata era splendida, quantunque dalla vicina Siberia soffiasse sempre un venticello freddissimo che irrigidiva le mani e screpolava le labbra.

Il sole, abbastanza tiepido, faceva scintillare vivamente le acque del lago, le quali assumevano le più svariate tinte con striature d’argento e di porpora. Il russo ed il cosacco, si erano subito cacciati sotto i boschi, levando numerose bande di pernici da neve e di galli selvatici, che si erano ben guardati dal salutarli a colpi di fucile per tema di spaventare la grossa selvaggina che poteva celarsi in mezzo ai folti cespugli di nocciuoli e di betulle nane.

Procedevano adagio adagio, girando intorno ai colossali tronchi degli abeti e dei pini con mille precauzioni e fermandosi sovente per ascoltare.

– Credi che noi troveremo qualche orso? – chiese ad un tratto Rokoff dopo che avevano percorso quasi un miglio, senza aver incontrata nemmeno una lepre. – Mi pare invece che queste macchie siano assolutamente deserte.

– Le trote le troveremo questa sera; in quanto al prosciutto ho i miei dubbi. Che i plantigradi non siano rari in queste regioni, è vero; ma trovarli subito, sotto la canna del fucile non sarà cosa facile – rispose Fedoro.

– Mi spiacerebbe non poter accontentare quello strano comandante. Sai che deve essere un bell’originale?

– Comincio a essere convinto. Non so; quell’uomo deve essere molto eccentrico.

– Allora sarà un inglese.

– Non credo non avendone la pronuncia.

– E perché vuol conservare l’incognito?

– Non so che cosa rispondere, Rokoff.

– Che sia pazzo?

– Oh!

– Ha dei modi così bizzarri!…

– Non dico il contrario.

– L’altra volta, per esempio, l’aveva col tè e come hai veduto, per procurarselo, per poco non comprometteva la sicurezza di tutti. Questa volta invece l’ha con le trote.

– È vero, Rokoff.

– Un uomo assai misterioso, Fedoro.

– Comunque sia noi non possiamo lagnarci di lui.

– Oh no, tutt’altro.

– Lasciamolo quindi fare; forse un giorno riusciremo a conoscerlo meglio ed a comprendere le sue eccentricità.

– E fors’anche a sapere da dove è venuto ed a quale razza appartiene.

– Lui e anche il macchinista.

– To’! Chiacchieriamo come pappagalli e dimentichiamo gli orsi.

– Ne hai veduto qualcuno?

– Non scorgo che pini e abeti, betulle e pini. Se piegassimo verso il lago? In mancanza di orsi fucileremo oche e anitre.

– Saremo più fortunati e almeno non torneremo al campo colle mani vuote – rispose Fedoro.

Lasciarono le macchie e si diressero verso il lago, il quale doveva essere vicinissimo, udendosi le onde sollevate dal vento siberiano, infrangersi contro le sponde.

Attraversate parecchie macchie, giunsero sulle rive d’una profonda insenatura sulle cui acque si vedevano volteggiare dei giganteschi volatili dalle piume candidissime e che mandavano dei lunghi fischi.

– Dei pellicani? – chiese Rokoff, preparandosi a far fuoco.

– No, dei superbi cigni – rispose Fedoro.

– Valgono bene uno zampone d’orso.

– Sì, Rokoff.

– Lasciamoli calare in acqua; mi pare che ne abbiano il desiderio.

– Non resistono molto al volo essendo troppo pesanti. Teniamoci però nascosti dietro questi cespugli perché sono molto diffidenti. Ecco che calano.

I cigni si lasciavano infatti cadere, tenendo le ali aperte le quadi servivano da paracadute.

Ben presto quindici o venti si trovarono in acqua.

Rokoff aveva già puntato il Remington, quando si sentì prendere per le spalle.

– Fermati! Non sparare! – aveva detto Fedoro precipitosamente.

– Perché? – chiese il cosacco, sorpreso.

– Vi è qualcuno che ci spia.

– Chi?

– Non lo so, ma ho veduto un’ombra nascondersi in mezzo a quella macchia di betulle.

– Un mongolo?

– Non ho potuto osservarlo bene.

– O l’orso che cercavamo?

– Non muoverti: aspettiamo.

Il russo ed il cosacco, un po’ inquieti, temendo d’aver da fare con qualche banda di mongoli, quantunque fossero certi di aver lasciato ben indietro quelli che li avevano inseguiti, si nascosero in mezzo ai cespugli, senza più occuparsi dei cigni.

Qualcuno, animale od uomo, si teneva celato fra le betulle.

Si vedevano i rami agitarsi e si udivano anche le foglie secche scrosciare.

– Che sia qualche altro leopardo delle nevi? – chiese Rokoff, che non poteva rimanere fermo.

– Preferirei un orso – rispose Fedoro. – Almeno si mangia.

– Prima che se ne vada andiamo a scovarlo.

– Volevo proportelo.

– Vieni Fedoro.

Strisciarono fuori dai cespugli e si diressero verso le betulle, le quali continuavano ad agitarsi.

Pareva che l’uomo o l’animale che fosse, cercasse d’aprirsi un passaggio.

– Tu a destra e io a sinistra – sussurrò Rokoff.

Stavano per separarsi, quando le betulle s’aprirono ed un animale comparve, arrestandosi subito e fiutando l’aria.

Doveva essere un orso, quantunque fosse molto piccolo per crederlo tale, essendo non più lungo d’un metro.

Aveva il muso assai corto e la testa piuttosto larga, le zampe basse, coi piedi massicci e rotondi ed il pelame foltissimo, biancastro al dorso e nero sulla testa e sul collo.

Essendo i due cacciatori nascosti dietro una piega del suolo, non poteva averli ancora scorti, però il vento che soffiava dal lago doveva aver portato fino a lui le loro emanazioni. Ed infatti non pareva molto tranquillo. Si alzava di frequente sulle zampe posteriori per spingere lo sguardo più lontano, raggrinzava il naso, aspirava l’aria, poi si lasciava ricadere a terra per poi tornare poco dopo ad alzarsi. Di quando in quando mandava una specie di grugnito che somigliava un po’ al nitrito d’un mulo.

– Che cos’è? – chiese Rokoff a Fedoro, il quale non aveva veduto che i giganteschi orsi neri degli Urali e quelli bruni delle steppe.

– Un melaneco – rispose il russo.

– Ne so meno di prima.

– Uno dei più piccoli orsi.

– Vado a prenderlo pel collo e lo porto vivo al capitano.

– Sei pazzo Rokoff?

– Non è più grosso d’un montone.

– Non vorrei provare le sue unghie.

– È dunque pericoloso!

– Assalito si difende al pari di tutti gli altri orsi.

– Sono buoni i suoi zamponi?

– Come quelli dei maiali.

– Allora prendi, mio caro.

Rokoff aveva afferrato il fucile, slanciandosi risolutamente contro il melanoteco.

Questi, scorgendo il cacciatore, si era alzato bruscamente sulle zampe deretane, spingendo innanzi quelle anteriori e sfoderando gli artigli.

A dieci passi, Rokoff aveva fatto fuoco.

Il melanoleco, quantunque colpito in direzione del cuore, si precipitò furiosamente, cercando di stringere l’avversario fra le poderose zampe e di soffocarlo. Fedoro, che si teneva a pochi passi dall’amico, fu pronto a puntare il fucile ed a scaricarlo.

La palla fracassò la mascella destra dell’animale e penetrò nel cervello.

– Morto! – gridò Rokoff, vedendolo cadere.

– Fulminato – rispose Fedoro, lieto del suo colpo.

Il povero melaneco aveva avuto appena il tempo di voltarsi su un fianco, rimanendo subito immobile.

– Ecco gli zamponi pel capitano – disse Rokoff. – Non credevo che avessimo tanta fortuna.

– Quell’uomo deve essere uno stregone – disse Fedoro. – Ci aveva promesso un orso e ce lo ha fatto subito trovare.

– Che sia venuto ancora qui a cacciare questi animali? Che cosa ne dici. Fedoro?

– Non so che cosa risponderti, amico Rokoff. Posso solamente dirti che quell’uomo diventa ogni giorno più straordinario. Prima pareva che non fosse mai venuto in Cina, ora conosce il deserto a menadito, sa che vi sono delle trote squisite nei laghi del Caracorum e degli orsi sulle sue rive, come se avesse soggiornato a lungo in questi paraggi. Domani ci dirà forse che in mezzo a queste macchie ha confezionato dei pasticci di carne di cigno o che ha fumato la pipa coi Chalkas. Io non capisco più nulla.

– Ed io capisco meno di te, Fedoro – rispose Rokoff.

– Scommetterei che quando attraverseremo il Tibet, troverà degli amici fra i Lama.

– Che abbia già fatto il giro del mondo con il suo «Sparviero»?

– Non mi stupirei, Rokoff.

– Lasciamo il capitano e occupiamoci del nostro orso.

– Portiamolo all’accampamento, intero. Non pesa molto, forse cento chilogrammi.

– Costruiamo una barella?

– Sì, Rokoff; faticheremo meno.

Tagliarono alcuni rami di pino e di betulla, intrecciandoli alla meglio e legandoli colle loro fasce di lana, caricarono il melaneco e si diressero verso l’accampamento costeggiando il lago, onde non smarrirsi fra le macchie che diventavano sempre più fitte.

 

Quando vi giunsero, non trovarono che il macchinista, il quale lavorava febbrilmente a riparare la disgraziata ala.

– Ed il capitano? – chiesero.

– Eccolo che ritorna – rispose il giovane.

Infatti il comandante saliva in quel momento la riva, portando un canestro che pareva molto pesante e un ammasso di reti.

– Vedete che non mi ero ingannato – disse, quando vide l’orso che Rokoff stava già scuoiando. – Anch’io però ho mantenuto la promessa e porto delle superbe trote che domani assaggeremo.

– E perché non questa sera? – chiese Fedoro.

– Perché domani voglio offrirvi un pranzo veramente squisito. —

– Si festeggia qualche lieto avvenimento?

– Può darsi – rispose il capitano col suo solito sorriso enigmatico. – Oh, non vi lamenterete di questo ritardo; ho ucciso un magnifico cigno che sta già cucinando al forno, è vero macchinista?

– Deve essere già pronto, signore.

– Allora prepara la tavola, mentre io lo dissotterro.

– L’avete sepolto? – chiese Rokoff.

– Io cucino la grossa selvaggina alla moda africana – rispose il capitano. – Non avete mai assaggiato un piede d’elefante od un pezzo di proboscide cucinato dai negri?

– Mai, capitano.

– Ed io sì.

– Voi dunque siete stato in Africa? – chiese Fedoro.

– Sì.

– Col vostro «Sparviero»?

Il capitano invece di rispondere a quella domanda girò intorno al fuso, si armò d’una corta zappa e mostrò al cosacco ed al russo un fuoco che ardeva sopra un piccolo rialzo di terra.

– Il mio forno – disse. – Il cigno deve essere arrostito a perfezione. Sbarazzò il suolo dai tizzoni e dalle braci, poi scavò dolcemente la terra e mise allo scoperto una massa avvolta fra larghe foglie avvizzite, che mandava un profumo così appetitoso da far venire l’acquolina in bocca al cosacco.

Tolse le foglie e mise allo scoperto un grosso cigno, cucinato intero e che depose su un gigantesco piatto d’argento, portato dal macchinista.

– Andiamo a dare l’assaggio – disse. – Sarà squisito.

La tavola era stata preparata presso il fuso, accanto ad un allegro fuoco di rami di pino e col solito lusso. L’assalto dato dai quattro aeronauti fu tale, che dopo mezz’ora del superbo arrosto non ne rimaneva che un terzo.

– Capitano – disse Rokoff, che aveva divorato per quattro. – Siete un cuoco ammirabile!

– Vedremo che cosa direte domani delle mie trote – rispose il comandante, con un leggero accento ironico.

Passarono buona parte della serata attorno al fuoco, fumando e sorseggiando dell’eccellente ginepro e del whisky, poi verso le dieci si ritirarono nelle loro cabine.

Il macchinista invece aveva continuato il suo lavoro, punto seccato dal vento freddissimo che soffiava dalle non lontane vette dei Kentei.

All’indomani la riparazione era finita. L’ala era stata rinforzata così robustamente, da non temere che dovesse cedere anche dinanzi al vento più furioso.

– Resisterà quanto e forse più dell’altra – disse il capitano, che aveva osservato attentamente il lavoro compiuto dal macchinista.

Poi, senza aggiungere altro, diede mano a preparare il pranzo che doveva far stupire i suoi ospiti.

Questi, avendo appreso che la partenza non si sarebbe effettuata che nel pomeriggio, si erano recati sulle rive del lago a fucilare le oche, le anitre ed i cigni che si mostravano sempre numerosi nelle piccole insenature, dove trovavano abbondante nutrimento.

Quando tornarono, così carichi di selvaggina da non potersi quasi reggere, il capitano stava levando dai suoi forni gli zamponi del melaneco, mentre il macchinista si aggirava fra cinque o sei pentole dove friggevano o bollivano pesci, anitre e legumi. La tavola, questa volta, era stata preparata sul ponte dello «Sparviero», anzi era stata levata perfino la tenda che era servita al macchinista per ripararsi dal freddo durante il lavoro notturno ed era stato imbarcato anche il fornello.

– Pranzeremo in aria? – chiese Rokoff.

– Ma… ah! Udite?

– Che cosa, signore?

– Queste grida.

– Per le steppe del Don! Ancora i mongoli?

In lontananza, verso l’est, si vedevano alzarsi sulla pianura sabbiosa dello Sciamo un nuvolone di polvere e si udivano echeggiare delle urla.

– Sì, i mongoli – disse il capitano. – Fortunatamente arrivano troppo tardi.

Fece portare a bordo gli zamponi e le pentole, gli avanzi dell’orso e la selvaggina uccisa dal russo e dal cosacco, poi disse:

– Innalziamoci.

La macchina era già sotto pressione. Le eliche orizzontali cominciarono a funzionare elevando il fuso, poi le due immense ali si misero in movimento. Lo «Sparviero» saliva veloce, un po’ obliquamente, fendendo rumorosamente l’aria.

I mongoli giungevano a corsa sfrenata urlando e sparando, ma era troppo tardi. La preda tanto agognata, ancora una volta sfuggiva loro.

– Buon viaggio! – gridò ironicamente il capitano, salutandoli col berretto, mentre lo «Sparviero» s’allontanava velocemente verso il nord. – Badate di non storpiare i vostri cavalli.

Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro aggiunse:

– A tavola, signori e fate onore al mio pranzo.

Il capitano, che doveva essere un buongustaio raffinato, aveva preparato un pranzetto veramente luculliano: zuppa di anitra con legumi, lingua di orso, zampone al forno, trote in salsa bianca e fritte nel burro, ananas di Tahiti, banane della Nuova Caledonia e ignami mostruosi, pasticci di varie specie e pudding.

Attese che i suoi ospiti avessero finito, poi offrì loro dei sigari di Manila e un certo liquore color dell’ambra, dicendo:

– Ebbene, che cosa ne dite delle mie trote?

– Squisite, capitano – rispose Rokoff, che era ancora entusiasmato di quel pranzo. – Quelle che si pescano qui non uguagliano certo, per sapore e anche per grossezza, quelle che si prendono nei fiumi e nei laghi del mio paese.

– Ve lo avevo detto – disse il comandante ridendo. – E questo liquore? L’avete assaggiato?

– Delizioso! L’avete fatto voi?

– Sì, e la ricetta me l’ha data un monaco del monte Athos.

– Ma dove siete stato voi? Si direbbe che nessun angolo del mondo vi sia sconosciuto. Avete attraversato l’Asia Minore col vostro «Sparviero»?

– Mi sembra – rispose il capitano, con un sorriso misterioso. – Bevetene pure, non vi farà male, anzi.

Guardava i suoi ospiti sempre ridendo, senza però accostare alle sue labbra il suo bicchierino che rimaneva sempre pieno.

Né Rokoff né Fedoro vi avevano fatto caso. Quel liquore era eccellente e da veri russi, che sono i più famosi bevitori dell’Europa, ne approffittavano per digerire meglio quel troppo copioso pasto.

Rokoff soprattutto, sempre assetato come lo sono tutti i cosacchi, cacciava giù un bicchierino dietro l’altro, non stancandosi mai di lodare l’aroma di quel liquido.

– Se i frati del monte Athos ne fanno uso, non devono essere lugubri – diceva celiando. – Se mi nominassero loro cantiniere, non so quali vuoti farei nelle loro riserve. Vi deve essere dentro dell’essenza dei famosi e antichissimi cedri del Libano. Squisito! Delizioso! Capitano, un altro bicchierino che vuoterò alla salute vostra.

– Ed un altro a me che berrò alla buona riuscita del vostro viaggio – diceva Fedoro, che diventava d’un’allegria strana.

– Anche dieci – rispondeva il capitano. – Ne ho parecchie bottiglie e poi colla famosa ricetta ve ne posso fare quanto voglio.

– Quel frate era più bravo di papà Noè – riprendeva Rokoff, i cui occhi rilucevano come quelli degli ubriachi. – Se lo conoscessi gli bacerei la barba. Scommetto che qui c’entrano delle gocce d’acqua del Giordano.

– No, del Mar Morto – rispondeva Fedoro, che aveva il viso acceso.

– Ma che! Saprebbe di bitume questo meraviglioso elixir! Quanto deve prolungare la vita!

– Sì, Rokoff, perché tutti i monaci del Monte Athos diventano vecchissimi. Me lo ha narrato un viaggiatore mio amico.

– Vecchissimi! T’inganni Fedoro! Non muoiono mai.

– Buono questo liquore, è vero Rokoff?

– Capitano, un altro bicchierino ancora?

– Una bottiglia!

– Anche dieci bottiglie, Fedoro! Il capitano ha la ricetta!

Il Comandante dello «Sparviero» non aveva cessato di ridere. Aveva fatto portare una seconda, poi una terza bottiglia e pareva che si divertisse immensamente dei discorsi dei suoi ospiti e che gradisse assai gli elogi fatti a quel meraviglioso liquore.

Già Rokoff e Fedoro avevano tracannato il, decimo od il quindicesimo bicchiere, quando uno dopo l’altro si rovesciarono sulle loro sedie, pallidissimi e come morti. Il macchinista ad un cenno del capitano, era accorso.

Prese la bottiglia ancora semipiena ed il bicchiere del suo padrone che non era stato toccato e gettò l’una e l’altro fuori dalla navicella.

– Portiamoli nelle loro cabine – disse il comandante. – Non si sveglieranno, signore?

– Il narcotico è potente.

– Che cosa diranno poi?

– Non sono forse io il padrone qui? Non devo rendere conto a chicchessia delle mie azioni. Aiutami.

Presero prima Rokoff e lo portarono entro il fuso, deponendolo nel suo letto, poi fecero altrettanto con Fedoro. Né l’uno, né l’altro avevano fatto un gesto durante quel trasporto. Parevano morti.

– A tutta velocità – disse il capitano, quando risalì. – Non dobbiamo essere lontani più di centosessanta miglia e ci si aspetta.

– E il telegramma del russo? – chiese il macchinista.

– Andrò a spedirlo io. I cavalli non mancano in questa regione ed entrerò in città senza che nessuno se ne accorga. Aumenta più che puoi. In quattro o cinque ore vi saremo.

I MISTERI DEL CAPITANO

Quanto Rokoff e il suo amico Fedoro dormirono? Non lo seppero mai e non si curarono nemmeno di saperlo, perché una sorpresa ben più interessante li attendeva al loro risvegliarsi ed una sorpresa assolutamente inaspettata. Quando ricomparvero sul ponte, ancora un po’ assonnati e colla testa molto pesante per l’effetto del narcotico loro somministrato dal capitano e anche pel troppo alcool ingoiato, lo «Sparviero» non fuggiva più verso il nord, bensì verso il sud-ovest, con una velocità vertiginosa.

Ma non era tutto. L’equipaggio della macchina volante, chissà in qual modo, era aumentato d’un nuovo personaggio.

Quello sconosciuto, raccolto chi sa dove, era un uomo di oltre sessant’anni, dalle spalle un po’ curve, col viso molto abbronzato e anche assai patito, con una lunga barba brizzolata ed incolta che gli giungeva fino a mezzo petto.

Aveva gli occhi grigiastri, che teneva semi-socchiusi come se non potessero affrontare la luce intensa del sole e attraverso il viso una lunga cicatrice che pareva prodotta da un tremendo colpo di sciabola o di scure.

Era ancora vegeto, nonostante l’età, con membra vigorose, petto ampio e spalle da ercole, un uomo insomma che poteva, per sviluppo e forza, stare a pari con Rokoff.

Fedoro ed il cosacco, scorgendolo, si erano arrestati, guardandosi l’un l’altro, poi fissando il comandante dello «Sparviero» il quale stava offrendo a quello sconosciuto, con una certa deferenza, un sigaro di Manila.

– Un altro uomo! – aveva esclamato il russo.

– Dove avrà pescato costui? – si era domandato il cosacco. – Se sotto di noi vi è sempre il deserto!

Il capitano accortosi della loro presenza, si era avanzato col sorriso sulle labbra, dicendo con una leggera ironia:

– Signor Rokoff, che cosa ne dite del liquore dei frati del monte Athos?

– Per le steppe del Don! – esclamò l’ufficiale, a cui non era sfuggito quell’accento beffardo. – Mi ha fatto dormire come un orso! Se anche ai frati fa questo effetto, non devono abbondare in preghiere.

– Mi perdonate, signori?

– Di che cosa! – chiesero ad una voce Fedoro e Rokoff.

– Di avervi fatto bere troppo?

– Ah! Signore! – esclamò Rokoff. – Io spero invece che ci farete assaggiare ancora di quel liquore.

– Sì, ma senza narcotici – rispose il capitano.

– Ci avete messo un sonnifero dentro?

– Sì, signor Rokoff. Pensate che avete dormito trentasei ore.

– Fulmini del Don! Ecco il perché mi sento indosso un appetito da lupo rabbioso.

– Abbiamo ancora delle trote e un altro prosciutto d’orso.

– Che noi mangeremo assieme a quel signore… – disse il cosacco, accennando lo sconosciuto.

– Ah? Mi scordavo di presentarvelo – disse il capitano. – Un mio amico e soprattutto un valoroso.

– E pescato dove, se è permesso saperlo? – chiese Fedoro.

– Mi rincresce di non potervelo dire – rispose il capitano. – Non vi avrei addormentati.

– È un segreto che noi non vogliamo conoscere, signore – disse Rokoff.

 

– Sì, non ne abbiamo il diritto – aggiunse Fedoro.

– Non ci darà impaccio – proseguì il capitano. – Attraversato il deserto ci lascerà, non avendo alcun desiderio di tornarsene in Europa.

Lo sconosciuto ad un cenno del comandante si era fatto innanzi. – Il signor Rokoff, tenente dei cosacchi… un brav’uomo…

L’incognito fece un gesto come di sorpresa, poi, dopo una breve esitazione, porse la mano al cosacco, guardandolo però attentamente e corrugando impercettibilmente la fronte.

– Ben felice – disse in cattivo russo.

Poi strinse la mano a Fedoro, limitandosi ad inchinarsi. Ciò fatto si ritrasse a poppa senza aver pronunciata nessuna altra parola, sedendosi presso il macchinista.

– Sapete dove andiamo! – chiese il capitano, che pareva premuroso di fare una diversione.

– Mi pare che lo «Sparviero» abbia cambiato rotta – disse Fedoro.

– Sì, marciamo verso il sud-ovest con una velocità di quaranta miglia. Sono curioso di vedere gli altipiani del Tibet. Si dice che siano meravigliosa.

– E verrà anche quel signore? – chiese Rokoff.

– Andremo a visitare il paese dei Lama – continuò il capitano, fingendo di non aver udito la domanda – una regione che ben pochi europei hanno percorsa e viaggiando sempre lontani dalle città. Farà molto freddo su quegli immensi altipiani, spazzati sempre da venti freddissimi che screpolano la pelle e che gelano le mani ed il naso come al Polo Nord…

– Avete qualche altro da raccogliere lassù? – chiese Rokoff.

– Ah! Poi andremo a visitare la gigantesca catena dell’Himalaya la più superba di tutte quelle che si ammirano nel mondo. Voi non l’avete mai veduta, signor Fedoro?

– No, mai – rispose il russo.

– Poi…

– Signore – disse Rokoff – andremo anche in India?…

– Toh! Mi dimenticavo che avete fame! Trentasei ore a digiuno! Macchinista, preparaci la colazione! – gridò il capitano. – I miei carissimi ospiti faranno onore al pasto! Fortunatamente ho fatto una buona pesca nel Caracorum e le trote sono al fresco! Non avranno perduto nulla della loro squisitezza con trenta gradi sotto lo zero. Vi pare, signor Rokoff?

– Oh! Ne sono convinto – rispose il cosacco che avrebbe invece preferito lasciarle a gelare, per trovarsi solo con Fedoro e scambiare le sue impressioni sul misterioso personaggio caduto sullo «Sparviero» quasi per opera magica.

Fu però un pio desiderio, perché il capitano, quasi avesse indovinate le loro intenzioni, durante tutta la giornata non li lasciò un momento soli, parlando dei suoi viaggi, delle regioni che si proponeva di attraversare, delle tribù che popolano il deserto, dei Lama del Tibet, della guerra che combattevano in quell’epoca gl’inglesi contro le tribù montanare dell’India, facendo scappare più volte la pazienza al cosacco, che ne aveva invece così poca.

Lo sconosciuto, durante quelle spiegazioni, si era tenuto costantemente da parte, sempre seduto presso il timone.

Aveva mangiato con buon appetito, senza mai parlare o limitandosi a rispondere con dei semplici cenni al cosacco ed al russo e facendo loro comprendere che conosceva male la loro lingua, poi aveva accesa una vecchia pipa di porcellana, simile a quelle che usano i tedeschi e gli olandesi e non si era più mosso dal suo posto. Solamente verso le dieci di sera, i due amici poterono trovarsi soli in una delle loro cabine.

Lo «Sparviero» si era arrestato sulla cima d’un enorme ammasso di rupi, quasi al confine del deserto, a non molta distanza dalla via carovaniera che va da Sa-ciou, città cinese, a Uromei, grossa borgata mongolica, passando per Artsi e Pigian.

Il capitano, dopo essersi accertato che nessuno poteva minacciarli, in causa della ripidità delle rupi, aveva lasciato il ponte per ritirarsi nella sua cabina assieme allo straniero, ma non aveva ancora discesi due gradini che era tornato indietro, dicendo a Fedoro.

– Oh! mi ero dimenticato di darvi comunicazione d’una cosa che per voi è della massima importanza.

– Quale capitano? – chiese il russo, un po’ sorpreso.

– Il vostro dispaccio è già stato spedito e la vostra casa di Odessa a quest’ora deve essere informata che voi state per ritornare in Europa attraversando l’Asia.

– Il mio dispaccio spedito! – esclamò Fedoro. – E da quale ufficio telegrafico?

– Da uno che ho potuto raggiungere – rispose il capitano, che pareva si divertisse dello stupore del suo ospite.

– Se siamo nel deserto!

– Costui deve essere il diavolo – pensava intanto Rokoff, guardandolo sospettosamente.

– Il deserto! – disse il capitano. – Qui, sotto di noi, vi è infatti lo Sciarno; più lontano vi sono anche delle città che in poche ore possono metterci in comunicazione coll’Europa. Vi rincresce?

– Tutt’altro, signore. E che cosa avete telegrafato alla mia casa?

– Che voi, per circostanze inaspettate, non avete potuto fare i vostri acquisti e che l’imperatore di Cina vi rimanda in Europa attraversando l’Asia, sotto pena di farvi decapitare.

– Su una macchina volante?

– Questo lo direte voi, quando giungerete a Odessa.

– E da dove avete spedito ii dispaccio?

– Che v’importa di saperlo?

– Capitano, vi ringrazio della vostra gentilezza.

– Bah! Una cosa facile! Non ho impiegato che due minuti! A voi la ricevuta e buona notte, signori. Spero domani di farvi vedere la Mongolia meridionale.

Ciò detto il capitano era sceso nella sua cabina, dove già lo aveva preceduto lo sconosciuto. Rokoff e Fedoro non trovarono di meglio che d’imitarlo, premurosi di trovarsi soli per poter parlare liberamente.

– Finalmente! – esclamò Rokoff, quando si trovò nella sua cabina che era la più lontana da quella occupata dal capitano. – Potremo parlare senza testimoni. Che cosa ne dici tu di quell’uomo? Da dove viene? O meglio, da dove è caduto costui? È un mistero che sarei ben lieto di poter chiarire.

– Che rimarrà, almeno per noi, sempre un mistero – rispose Fedoro.

– Chi credi che sia? Un abitante di questo deserto?

– Lui! È un uomo di razza bianca come noi, mio caro Rokoff. Ha tutti i tratti dei caucasi e nulla affatto dei mongoli. Mi è anzi venuto un sospetto.

– E quale?

– Che possa essere invece un russo.

– Oh!

– Sì, Rokoff. Dalle poche parole che ha pronunciate nella nostra lingua, quantunque orrendamente storpiate, ho sorpreso un accento che noi soli russi possediamo; e poi quella barba, quegli occhi azzurri, quella faccia un po’ larga con zigomi un po’ salienti, affatto speciali della razza slavo-tartara… no, non devo ingannarmi. Quell’uomo deve essere un nostro compatriota.

– E perché non dirlo? Che cosa può aver da temere da noi?

– Ho notato un’altra cosa, Rokoff.

– Quale?

– Che quando il capitano ti ha presentato come ufficiale dei cosacchi, sulla sua fronte è passata come una nube e che nei suoi occhi è balenato un cupo lampo.

– Perché dovrebbe odiare i cosacchi? – disse Rokoff, stupito.

– Come tutti gli esiliati che nostro padre, lo Zar, manda a marcire nelle orribili miniere della gelida Siberia – disse Fedoro. – Tu sai e te lo dico senza che tu abbia ad offendertene, che i cosacchi sono i tormentatori di quei disgraziati, anzi i loro più feroci aguzzini.

– Sicché tu sospetti?…

– Che sia un evaso delle miniere d’Algasithal o di altre peggiori.

– Raccolto nel deserto per combinazione?

– No, doveva esistere qualche accordo: diversamente non saprei spiegare questa corsa dello «Sparviero» verso il settentrione, mentre avrebbe dovuto dirigersi costantemente verso il sud-ovest per condurci nell’Europa meridionale, come ci ha promesso.

– Allora sarà andato a prenderlo in qualche città della frontiera siberiana.

– Ah! Stupido!

– Che cos’hai, Fedoro?

– La ricevuta del telegramma!

Si frugò nelle tasche e trovatala, la spiegò rapidamente, gettandovi sopra uno sguardo.

– Maimacin – disse. – È stato spedito dall’ufficio telegrafico di quella città, che è l’ultima della Mongolia e che si trova proprio sul confine della Siberia, di fronte alla città russa di Kiachta. Ecco la chiave del mistero.

– E tu vuoi che lo «Sparviero» si sia spinto fino in Siberia in così breve tempo?

– Abbiamo dormito trentasei ore – disse Fedoro. – Colla velocità che sviluppano le macchine dello «Sparviero», la cosa non mi sembra affatto straordinaria.

– Briccone d’un liquore! – esclamò Rokoff, ridendo. – Ce l’ha fatta bella!

– Più che il liquore, il narcotico che il capitano vi aveva messo dentro – disse Fedoro.

– Quell’uomo dunque sarà un amico del comandante.

– Certo.

– Fuggito da Kiachta e rifugiatosi a Maimacin.

– Sì, Rokoff, deve essere così.

– E come l’avrà saputo il capitano?

– Ecco quello che noi non sapremo mai.

– Altro che le famose trote del Caracorum!

– Una scusa per salire verso il nord, senza metterci in sospetto.