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I Corsari delle bermude

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5. IL BOMBARDAMENTO DI BOSTON

La fregata si prestava magnificamente per farsi crivellare di sorpresa, poiché offriva alle artiglierie della corvetta la sua sinistra, non avendo ancora avuto il tempo di virare, né di prendere alcuna precauzione contro un improvviso attacco.

I due pezzi da caccia di poppa della corvetta furono i primi a scagliarle attraverso l’alberatura quattro grosse palle incatenate, poi i dodici pezzi di dritta esplosero quasi nello stesso momento, battendole terribilmente il fianco.

Si udì, appena cessate le detonazioni, un fracasso orrendo di legnami che cadevano dall’alto, poi seguì un intensissimo fuoco di fucileria. Gli americani del castello di prora appoggiavano gli artiglieri del Corsaro.

La corvetta, approfittando della confusione che doveva aver causata quella improvvisa scarica, continuò la sua bordata per raggiungere la foce della Mistica e mettersi al sicuro, prima che altre navi sopraggiungessero. Ma non poteva ritenersi fuori di pericolo, poiché in un lampo era stato dato l’allarme.

Le batterie galleggianti che si trovavano ancora dinanzi alle gettate, intuendo che qualche importatrice di polveri e d’armi, approfittando dell’oscurità, era entrata nella baia avevano subito cominciato a sparare, ma a casaccio, perché la corvetta non era visibile e continuava a filare, allontanandosi rapidamente dal luogo della bordata. Anche la fregata aveva cominciato a far tuonare i suoi pezzi. I ridotti e i bastioni della città non tardarono ad imitare le navi.

– Ecco un magnifico spettacolo che offriamo gratuitamente agli abitanti di Boston – disse sir William a Testa di Pietra.

– Speriamo che ce ne siano grati – rispose il bretone. – Per il borgo di Batz! Le palle sono infuocate, capitano, Se una entra nel deposito delle polveri, salteremo allegramente ed offriremo ai bostoniani uno splendido fuoco che non sarà artificiale.

– Non ci vedono.

– Il caso talvolta…

– Se conti sul caso, è un’altra questione. Bada invece che non ti cada qualche palla sulla testa.

– È dura come la pietra la mia testa, signore; la farà rimbalzare in mare.

– Uhm!

Le palle fioccavano da tutte le parti, specialmente dagli spalti della città.

Già qualche palla era caduta sulla corvetta ammazzando più di un uomo, quando gli americani, annidati sulle due alture di Bunker’s Hill e di Breed’s Hill, avvertiti che una nave corsara era entrata con carico per loro, cominciarono a sparare terribilmente. I due ridotti, situati in due splendide posizioni e già ben difesi, parevano due piccoli vulcani.

Gl’inglesi avevano subito cambiata direzione ai loro pezzi e non sparavano più sulla baia. Tentavano, invece, di sopraffare i pezzi americani.

Per una ventina di minuti fu un furioso scambio di palle, mentre la corvetta continuò ad avanzare verso la foce del fiume senza sparare un colpo.

Il Corsaro assisteva impassibile a quel furioso bombardamento, col sorriso sulle labbra. Accanto a lui il bretone fumava tranquillamente la sua pipa secolare, più che mai convinto che, se anche una granata gli fosse piombata sulla. testa, non sarebbe riuscita a sfondarla. Diavolo! Non era forse figlio del paese delle teste dure?

Già il fiume era vicino; la corvetta, che marciava sempre velocissima, stava per imboccarla, quando quattro lampi balenarono dinanzi alla sua prora, quasi a fior d’acqua, seguiti da quattro detonazioni assordanti e dal ben noto crepitìo del legno che s’apriva sotto la violentissima percossa dei grossi proiettili.

– Batteria galleggiante dinanzi a noi!

– Che nessuno risponda! – gridò subito sir William.

Poi, volgendosi verso la poppa, aggiunse:

– Date pure addosso ed affondatela! Rispondo della robustezza della prora.

I due piloti americani, che stavano già per spingere la ribolla al largo perché non avvenisse un incontro, la rimisero subito a posto, mantenendo il filo della rotta. Trascorsi cinque secondi, avvenne un urto violentissimo che fece cadere sui ponti la maggior parte dei fucilieri e degli artiglieri. La corvetta aveva sfondato, col suo tagliamare a prova di scoglio, la batteria galleggiante. tagliandola proprio nel mezzo.

Urla di spavento s’alzarono. I cannonieri inglesi affondavano insieme ai loro pezzi, travolti dalla corrente che il veliero si tirava sui suoi fianchi.

La corvetta, che si era per un momento fermata, riprese lo slancio sotto le violentissime sferzate del vento, disgregò completamente la batteria e passò oltre.

Era passata appena a tempo, poiché gli artiglieri della guarnigione che guardavano i pezzi volti verso il fiume avendo scorto quei quattro lampi, non avevano tardato a far piovere, in quella direzione una grandine di palle, ignorando che massacravano i loro compagni lottanti fra i rottami della batteria.

– Ora venite a prenderci – disse il Corsaro, stropicciandosi le mani. – Non sarà facile uscire da questa trappola, ma prima che abbia sbrigato i miei affari molte cose possono accadere. Che ne dici, Testa di Pietra?

– Che mio nonno, un famoso corsaro…

– Ah! quello che ti ha lasciata la pipa!

– No, capitano: era un altro, quello.

– Continua.

– Dico dunque che non avrebbe avuto maggior fortuna.

– Si vede che aveva anche lui qualche stella che lo proteggeva.

– Ma finì col penzolare all’estremità di un pennone!

– Bella fortuna! Ma ora, attenti ad affondare le àncore! Dobbiamo essere vicini alla cala; vero colonnello.

– Ancora cinque o seicento metri – rispose l’americano. – Tornate a issare i due fanali rossi.

L’ordine fu trasmesso ai gabbieri e le due lampade salirono fino ai pomi della maestra e del trinchetto. Era una precauzione necessaria, poiché gli americani, che occupavano già fortemente le due rive della Mistica, potevano, se non ricevevano a tempo l’avviso che si trattava d’una nave amica, scaricarle addosso cannonate.

La corvetta, sebbene ostacolata dalla corrente, avanzava abbastanza velocemente, sicché in cinque minuti raggiungeva una profonda cala sulla riva sinistra, dove gli americani avevano innalzato due piccoli, ma ben muniti ridotti.

Le àncore furono affondate, le vele prontamente imbrogliate, e i fanali di dritta e di sinistra accesi.

Una scialuppa montata dai sei rematori e da un timoniere, si era staccata dalla riva, abbordando la corvetta sotto la scala abbassata.

Il colonnello americano il pilota ed il Corsaro ricevettero il timoniere.

– Ah, voi, mister Pardell! – esclamò il colonnello. – Non credevo di trovarvi ancora qui!

– Corro sempre dove c’è da menar le mani – rispose il capitano.

– Ecco il Corsaro, il baronetto William Mac Lellan, di cui avrete già udito parlare, il più audace scorridore del mare delle Bermude.

– Vi aspettavamo impazientemente Sir, – rispose il capitano, stendendo la mano – e sono incaricato di portarvi i ringraziamenti del Congresso e quelli del generale Washington.

Il baronetto s’inchinò, poi disse:

– Vi porto quattrocento tonnellate di polvere, cinquemila fucili con relative baionette, duemila bombe e quattro grossi mortai. In più metto a disposizione della causa americana la mia corvetta ed i miei centocinquanta uomini, scelti fra i migliori corsari che scorazzino l’Atlantico.

– Il Congresso pagherà ogni cosa.

Sir William alzò le spalle.

– Dono tutto alla causa americana, – disse – ad una condizione però.

– Quale, sir? – chiese il capitano, stupito di tanta munificenza da parte d’un uomo che tutti credevano di puro sangue inglese.

– Mi si permetta di entrare, questa notte stessa, in Boston con un paio dei miei uomini.

– È impossibile, sir.

– Non è finita la galleria che doveva terminare sotto le casematte del gran bastione di Hamilton? – chiese il colonnello.

– Sì, mister Moultrie. Anche la mina per farlo saltare è stata preparata.

– Passeremo per di là – disse il Corsaro. – È assolutamente necessario.

– Incontrereste la morte, sir, – rispose il capitano. – Le nostre spie ci hanno informato che gl’inglesi questa notte tenteranno una sortita per cacciare i nostri compatrioti da Breed’s Hill e da Bunker’s Hill. A quest’ora gli assediati devono essere già in marcia e v’incontrereste subito con loro.

– Maledizione! – esclamò sir William.

– Affare rimandato mio caro baronetto, – disse il colonnello. Una giornata passa presto e domani potrete tentare l’impresa, con maggior successo.

Il Corsaro era rimasto silenzioso e, come era sua abitudine, si era messo a passeggiare nervosamente per la tolda.

Ad un tratto un fracasso infernale ruppe il silenzio che regnava nella baia.

Fumo rossastro s’alzava sopra i bastioni, sopra le lunette, sopra un ridotto di Boston, attraversato da lunghi getti dì fuoco.

– Vedete – disse il capitano americano. – Gli assediati cercano di mascherare le loro mosse, bombardando le nostre posizioni. Domani ci sarà grossa battaglia, per ributtare dentro le mura gl’inglesi.

– Proprio questa notte! – disse il Corsaro con rabbia.

La galleria è ben simulata e per quella potrete sempre entrare, ora che è stata finita – rispose il colonnello.

– Testa di Pietra! – gridò sir William.

Il bretone era in quel momento occupato a tagliare, con una grossa forbice da una lastra di zinco, piccoli triangoli, sui quali legava fette di lardo, aiutato da Piccolo Flocco.

– Per il borgo di Batz! – esclamò, udendosi chiamare. – Che non possa dedicare nemmeno cinque minuti alla pesca degli albatros?

Lasciò cadere a terra tutto, e raggiunse il Corsaro, che seguiva con lo sguardo le faville che sprizzavano dalle palle infuocate scagliate dai forti di Boston contro le due alture occupate dagli americani.

– Non odi tutto questo baccano?

– Per il Borgo di Batz! Lo udrebbero anche tutti i morti sepolti lungo le coste della Bretagna, se tanti cannoni si sparassero a Brest, e non volete che giunga agli orecchi d’un vecchio artigliere?

 

– Che cosa facevi in questo momento?

– Preparavo, insieme con Piccolo Flocco, gli ami per catturare gli albatros. Ne vengono molti è vero, signor colonnello, alla foce del fiume?

– Si, – rispose Moultrie, ridendo.

– Allora spero di prenderne parecchi. I miei uomini si fabbricheranno splendide borse da tabacco ed anche meravigliosi bocchini con le ali di quei predoni degli oceani.

– E la guerra? Non odi?

– Huff! Quando gli inglesi saranno stanchi di sparare, lasceranno dormire i loro pezzi – rispose tranquillamente il bretone, levandosi di tasca la sua storica pipa e preparandosi a caricarla.

– Abbiamo imbarcato quattro mortai che ci hanno mandati i nostri amici francesi – disse il Corsaro. – Dirai al signor Howard di farli collocare sulla tolda: così proveremo il loro tiro d’arcata.

– Preferisco i cannoni da caccia.

– Alza più che puoi anche quelli e prendiamo parte alla festa di fuoco. Va’!

Tutti i forti di Boston infuriavano con un fragore assordante, assecondati da tutte le navi da guerra che si trovavano in porto e dalle batterie galleggianti.

I due ridotti americani piantati sulle due alture, tenevano coraggiosamente testa al fuoco degli assediati e coprivano di palle la città, scatenando incendi fra le case di legno, che la guarnigione inglese a malapena riusciva a spegnere.

Tutta la baia era in fiamme. Lampi partivano da tutte le parti. A fior d’acqua, sulla riva della Mistica e sulle alture di Brunker’s Hill e di Breed’s Hill.

La corvetta non aveva tardato a prendere parte a quella festa del fuoco come l’aveva chiamata sir William.

Il secondo di bordo, insieme con Testa di Pietra ed i più abili artiglieri aveva fatto disporre sul larghissimo cassero dietro i cannoni da caccia, i quattro mortai ricevuti dai corsari francesi ed avevano fatto aprire un magnifico fuoco contro il bastione di Workart, tempestandolo di granate del peso di quaranta chilogrammi.

Anche i cannoni da caccia erano entrati in scena e spazzavano le basi e lo specchio d’acqua per impedire alle scialuppe inglesi di avvicinarsi.

Lo spettacolo era spaventoso ed il rimbombo assordante.

Nonostante il pericolo, gli abitanti di Boston si erano rovesciati in massa verso i bastioni, per godersi quel terribile bombardamento che doveva più tardi rammentare agl’inglesi quello celebre di Gibilterra.

Le due posizioni americane tenevano valorosamente testa a quel diluvio di palle, senza per questo interrompere i lavori che dovevano metterli in grado, all’alba, di respingere energicamente l’assalto nemico.

Le perdite erano considerevoli, ma maggiori quelle degli inglesi. i quali si lasciavano stoicamente mitragliare dai quattro pezzi da caccia del Tuonante, senza sparare un solo colpo di fucile, per non far conoscere le loro mosse agli americani. Tutta la notte le artiglierie dei forti, delle trincee, dei ridotti e delle navi rimbombarono con un crescendo orribile, poi, verso l’alba i colpi a poco a poco divennero più radi, finché cessarono completamente.

Gl’inglesi avevano lasciato la piazza e si preparavano animosamente ad assalire le due alture, le cui artiglierie recavano tanto danno alle case ed alle fortezze.

6. LA BATTAGLIA DI BREED’S-HILL

Il generale Howe, comandante supremo della piazza ed i suoi sottocapi, avevano deciso di tentare una sortita per riconquistare le due alture.

La notte del 17 giugno, dieci compagnie di granatieri condotti dallo stesso generale Howe e dal generale Pigot, col marchese d’Halifax, rinforzati da altrettante compagnie di fanti e da buon numero di artiglierie leggere, avevano raggiunto silenziosamente le rive della baia, dove molte scialuppe li aspettavano, e traghettavano a Moreton’s Point senza aver incontrata alcuna resistenza.

Essendo quel punto assai battuto dalla flotta, gli americani, che possedevano un numero limitato di artiglierie, non avevano creduto opportuno innalzare alcun ridotto, il quale d’altronde non avrebbe potuto resistere a lungo ai fuochi incrociati.

Giunti però colà, gli inglesi, sostarono e, formate le ordinanze su due file, mandarono a chiedere nuovi rinforzi a Boston.

Il disegno loro era questo: mentre l’ala sinistra guidata da Pigot e dal marchese d’Halifax, tutta di fanteria pesante, composta per la maggior parte di mercenari tedeschi, assaltava Charlestown, il grosso doveva attaccare i due ridotti e l’ala sinistra, e tentare di forzare il passo della Mistica, che era difeso dalla corvetta del Corsaro e da due batterie. Credevano così di prendere alle spalle gli avversari e di mandarli con furiosi assalti alla baionetta, a catafascio.

Gli americani, consapevoli dei disegni dei generali inglesi, avevano appoggiato la loro ala diritta contro le case di Charlestown; l’ala sinistra, lungo le trincee che avevano alzate sulle rive della Mistica; il grosso, presso l’imboccatura.

Durante la notte non avevano cessato di lavorare e, temendo di non poter reggere ad un corpo a corpo su un terreno piano, si erano rafforzate le spalle con alte stecconate piantate su due file e riempite nel mezzo di erbe e di terra.

I massacciuttesi occupavano Charlestown, il ridotto ed una parte della trincea; quelli del Connecticut, agli ordini del capitano Nolken, e quelli del Nero-Hampire capitanati dal colonnello Stark, tutto il resto della trincea.

Non erano che un’accozzaglia di piantatori e di marinai, quasi nuovi al fuoco, armati di archibugi di diversi calibri e quasi tutti privi di baionetta.

Durante la notte però avevano mandato numerosi corrieri a chiedere soccorsi in varie direzioni ed erano giunti al campo il dottor Warren, nominato di recente generale per le sue ottime qualità di condottiero audace ed avveduto, ed il generale Pertnam. Tanto l’uno come l’altro avevano condotto seco alcune bande di contadini, racimolati frettolosamente nei dintorni, abilissimi tiratori.

Gl’inglesi furono i primi, a impegnare la battaglia, rovesciando le dieci compagnie del generale Garge contro il borgo di Charlestown. Erano così sicuri di sopraffare gli avversari, che corsero all’assalto senza quasi sparare un colpo di fucile, sebbene gli americani li avessero accolti con nutrite scariche. Non s’erano ingannati, poiché i provinciali, vedendosi correre addosso quella massa di saldi assiani e brunswickesi e non avendo nessuna baionetta da opporre all’attacco violentissimo, furono pronti a volgere le spalle, anche perché temevano di venire presi fra due fuochi. Il ridotto fu quindi occupato dai vincitori insieme al borgo.

Saccheggiate le case e vuotate le stalle del bestiame, diedero fuoco a tutto. Le case, erano quasi tutte di legno di pino. In un momento tutta la borgata avvampa fra gli urli degli abitanti che fuggono a stento. Lo spettacolo è terrificante. Più di ottocento fattorie fiammeggiano, lanciando fumo e scintille, che il vento spinge verso la baia. È un crollare, un crepitare sinistro, uno scaturire di lingue di fuoco da tutte le parti. Anche le piantagioni di cotone bruciano.

Gl’inglesi peraltro non avevano avuto fortuna, poiché mentre speravano di affumicare gli americani, a causa d’un brusco cambiamento del vento si trovavano a loro volta affumicati.

Malgrado ciò, granatieri assiani e brunswickesi avevano stretto le loro linee e si erano messi in moto per scacciare i nemici anche dalle alture.

Gli americani avevano pure stretto le loro colonne, ed essendo favoriti dal vento, appena scorsero gli alti cappelli dei loro nemici, aprirono un fuoco così ben aggiustato da costringerli a ritirarsi precipitosamente oltre le case di Charlestown.

Molti, anzi, vedendo navi ancorate presso la riva, vi si erano gettati dentro, rifiutando di misurarsi con un nemico che aveva sì valenti bersaglieri.

Gli ufficiali si erano prontamente gettati fra le compagnie disordinate, sforzandosi ora con promesse, ora con minacce, di raccoglierle alla meglio e di spingerle nuovamente all’assalto. Vi riuscirono infatti, coll’aiuto dei mercenari tedeschi, ed ordinatisi alla meglio, tornarono all’attacco del ridotto, sebbene con meno slancio di prima. Gli americani li aspettavano a piè fermo, risoluti a non lasciarsi strappare le due alture. Con un fuoco nutritissimo di archibugi, sparati quasi a bruciapelo, rompono nuovamente le ordinanze e costringono gli avversari a ripiegare un’altra volta verso la spiaggia. I cotonieri, abilissimi cacciatori, fanno veri miracoli.

Il generale Howe, fa chiamare alla riscossa le forze del generale Clinton, che fino allora erano rimaste passive spettatrici della disfatta.

Clinton godeva fama di espertissimo condottiero. Vedendo le forze del comandante della piazza distrutte e sapendo di quale importanza sarebbe stata per l’onore delle armi inglesi quella vittoria, accorre prontamente con tutti i suoi uomini e per la terza volta riesce a ricondurli ad un assalto furioso.

La tenacia delle truppe mercenarie tedesche, doveva dare agl’inglesi un effimero trionfo. I figli della Germania, montano all’assalto ed investono il primo ridotto.

Gli americani, oppongono per un po’ un’accanita resistenza coi calci dei loro archibugi, poi, impotenti a resistere a tanta furia, cedono e si ritirano.

Mentre si combatteva con tanto accanimento intorno alle rovine di Charlestonwn, un’altra compagnia inglese si era diretta verso la foce della Mistica per assalire la bastita costruita frettolosamente dagli americani.

Un gran numero di barche, cariche di granatieri e guidate dai marinai della flotta, con grande velocità aveva risalito il fiume, credendo di non trovare alcun serio ostacolo. S’ingannavano, perché dinanzi a loro, nascosta nella cala, stava la corvetta.

Sir William, accortosi a tempo dei disegni dei nemici, aveva collocato la sua nave attraverso il fiume e piazzato in quella direzione i suoi quattro grossi cannoni da caccia, carichi di mitraglia; poi aveva disposto i cinquanta americani dietro le impagliettature insieme con due dozzine di scelti fucilieri.

– Ecco il momento di scaldarci un po’ e di dare una mano ai nostri amici! – disse al suo luogotenente.

Si era quindi appoggiato tranquillamente alla ringhiera del ponte di comando, senza degnarsi di armare le pistole, né di snudare la sciabola d’abbordaggio, tanto si teneva sicuro del fatto suo. Intanto gl’inglesi, avanzavano, premendo loro soprattutto d’impadronirsi dei due piccoli ridotti innalzati sulle sponde della cala. Era il momento atteso dal Corsaro. La sua voce metallica copre per un istante il rumoreggiare della moschetteria che infuria ancora verso Charlestown:

– Ragazzi! Scatenate i vostri pezzi!

Le scialuppe, numerosissime e zeppe di granatieri e di fanti leggeri, si erano fermate titubanti. I dodici pezzi di dritta approfittano di quella sosta per lanciare una bordata che ne affonda subito una quindicina coi relativi equipaggi.

Subito i quattro pezzi da caccia rovesciano sulle altre una grandine di mitraglia, mentre Testa di Pietra, che ha terminato il suo amo per acchiappare gli albatros e che non vuol rimanere inoperoso, fa tuonare i quattro grossi mortai, scagliando le granate al di là della foce della riviera, con una superba arcata.

Sul fiume si alzano urla terribili. Più di duecento uomini cadono in mare. La flottiglia dà di volta, abbandonando i disgraziati alla loro sorte, per non compromettere l’esito della spedizione, poiché la guerra ha le sue crudeli esigenze, e si dirige rapidamente verso la riva per mettersi al coperto dai tiri della corvetta.

Hurrà fragorosi, lanciati dagli americani, salutano la splendida difesa dei corsari la cui nave continua a sparare, tirando ora verso i forti di Boston, ora verso la foce del fiume per impedire un nuovo tentativo.

Non era però una vittoria definitiva. Il generale Howe, accortosi del pericolo, chiama nuovi rinforzi, fa sbarcare le sue genti alla foce e rinunciando, per il momento, all’idea d’impadronirsi dei due ridotti, attacca risolutamente la bastita.

Gli assiani ed i brunswickesi, furibondi per quella prima batosta e sapendo che i loro compagni hanno cacciato i nemici da Charlestown, dànno un assalto formidabile.

Incoraggiati dalle grida degl’inglesi, i quali ormai hanno occupato il ridotto di Bunker’s Hill, ed aiutati da uno stuolo di fanti leggeri, si fanno sempre innanzi, gelosi della vittoria dei loro compagni.

Le baionette, temute dagli americani, hanno finalmente ragione sui calci dei fucili e le truppe mercenarie entrano nella bastita, pur subendo perdite gravissime.

Anche in quella parte i generali americani fanno suonare la ritirata e le bande provinciali, dopo un’ultima scarica, si ritirano con un ordine così perfetto, che nessuno si sarebbe aspettato da parte di soldati raccogliticci e che combattevano per la prima volta. La battaglia era perduta per le truppe federali, ma non era stata nemmeno per gl’inglesi una vera vittoria, poiché se erano riusciti ad espugnare la altura di Bunker’s Hill, non si erano impadroniti di quella di Breed’s Hill.

 

Gli americani non erano ancora giunti alla fine delle loro disgrazie. Una sola via era rimasta loro per ritirarsi, quella serpeggiante attraverso la penisola di Charlestown, dove gl’inglesi avevano collocata una grossa fregata. Per di più il nemico li incalzava alle spalle colla speranza di sbaragliarli prima che riuscissero a mettersi in salvo.

Gli americani, peraltro, passando attraverso i boschetti che coprivano le coste dell’istmo, non soffrivano gran danno dalle bordate della fregata e dalle due batterie galleggianti che la spalleggiavano.

Anima della ritirata era il dottor Warren, un uomo che avrebbe potuto competere anche con Washington in fatto di arte guerresca. Infaticabile, malgrado la rotta, non cessava di raccogliere i ritardatari, gridando loro con voce stentorea:

– Ricordatevi delle nostre insegne: esse portano da una parte il motto: Appello al cielo e dall’altra: Qui sustulit sustinet, – ciò che voleva significare che la Provvidenza, la quale aveva condotto in salvo i loro antenati in mezzo a tanti pericoli, avrebbe provveduto a salvare i loro pronipoti.

Non doveva però sopravvivere quel valoroso a così triste giornata. Un ufficiale dell’avanguardia inglese, che lo aveva riconosciuto, strappò ad un granatiere l’archibugio appena caricato, prese la mira e con un colpo ben aggiustato lo colpì in mezzo al petto fulminandolo.

La ritirata degli americani si effettuava rapidissima. Alle otto di sera gl’inglesi bivaccavano sulla posizione conquistata, cantando a squarciagola l’inno inglese, mentre gli americani, vinti sì, ma non disfatti, ripiegavano verso le rive della Mistica, mettendosi sotto la protezione della corvetta, i cui pezzi continuavano a tuonare con grande furia per impedire alle navi nemiche di accostarsi.