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Capitan Tempesta

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CAPITOLO XX. Il tradimento del polacco

Sul piazzale del castello, al di là del ponte levatoio, due schiere di cavalieri stavano immobili, aspettando la nipote del pascià ed il figlio del Pascià di Medina.

Una era composta dei rinnegati greci, Perpignano, El-Kadur, papà Stake ed il suo giovine marinaio; l’altra di due dozzine di giannizzeri armati fino ai denti e colle micce degli archibugi accese.

Fra i due gruppi, montato su un cavallo nero, stava un uomo sulla trentina, di statura piuttosto alta, col viso pallido ed emaciato, con lunghi baffi bruni e occhi neri, ma molto infossati. Invece d’avere indosso delle vesti smaglianti, ricamate d’oro o d’argento, come solevano portare i turchi di quell’epoca, non aveva che una ruvida casacca di panno oscuro e ampi calzoni e sul capo un fez semisdrucito col fiocco che aveva perduto la sua tinta fiammeggiante.

I suoi sguardi, che brillavano intensamente, si erano subito fissati sulla duchessa, mentre un tremito convulso aveva fatto sussultare tutto il suo corpo. Nessun grido gli era sfuggito; anzi, per tema che qualche parola gli uscisse, si era stretto le labbra coi denti, facendole sanguinare.

Eleonora, che l’aveva notato subito, era diventata dapprima livida, poi un improvviso rossore le aveva colorite le gote; come se tutto il sangue le fosse improvvisamente affluito alla testa.

– Ecco il cristiano, – disse Haradja, indicandoglielo. – Lo avevi mai visto prima?

– No, – rispose la duchessa, facendo uno sforzo supremo per apparire calma.

– È un po’ febbricitante, mi hanno detto. Già, le arie degli stagni morti non sono molto salubri, – disse Haradja con noncuranza. – Un po’ d’aria marina gli farà bene e giungerà a Famagosta in non troppe cattive condizioni.

Penserai tu, effendi, a curarlo meglio che puoi, onde non faccia troppa cattiva figura e che si dica che io tratto troppo crudelmente i prigionieri cristiani.

– Te lo prometto, – rispose Eleonora, con voce un po’ sorda.

Due cavalli riccamente bardati e che dovevano avere il fuoco nelle vene, vennero condotti dinanzi alle due donne, le quali s’affrettarono a salire.

– Badate al cristiano! – gridò Haradja ai giannizzeri, – Le vostre teste risponderanno per lui.

Otto turchi si misero intorno al visconte, poi i due drappelli, preceduti da Haradja e dalla duchessa, partirono al galoppo, dirigendosi verso la rada.

La scorta di Eleonora chiudeva la marcia, lasciando uno spazio d’una cinquantina di metri fra sè e la retroguardia dei giannizzeri.

Perpignano e Nikola erano alla testa del secondo gruppo.

– Che tutto finisca davvero bene? – disse il veneziano al greco. – Mi sembra impossibile che noi possiamo avere tanta fortuna.

– Se Belzebù non ci mette le corna, io spero che il giuoco sarà pienamente riuscito, – rispose il greco. – Lo sciabecco ormai si troverà in fondo al mare.

– Che la scomparsa di quel veliero non susciti qualche sospetto nell’anima della nipote del pascià?

– Non lo credo. Noi non possiamo rispondere delle mosse dell’equipaggio turco.

– Fra un paio d’ore noi prenderemo il largo; che la nipote del pascià ci prenda, se sarà capace.

– Navi in questi dintorni non mi pare che ve ne siano e la squadra del pascià deve trovarsi sempre nella baia di Nicosia.

Che cosa ne dite del signor Le Hussière?

– Ho ammirato il suo sangue freddo. Temevo che vedendo la duchessa non riuscisse a frenare un grido di gioia, d’altronde naturalissimo. Deve essere stata una grande sorpresa per lui. L’avevate avvertito?

– El-Kadur con una mezza parola l’aveva messo in guardia.

– La nipote del pascià ha ben abusato del visconte. Scommetterei che lo ha fatto servire da esca alle sanguisughe, al pari degli altri.

– Haradja è sempre stata crudele; io lo so per prova, essendo stato nelle sue mani per tre mesi, – rispose Nikola. – Quella ha ben poco da perdere in confronto alle tigri e se non avesse condotto con sè questi giannizzeri, non l’avrei lasciata certo ritornare al castello, senza averle cacciata nel petto una buona palla di piombo, per vendicare i poveri cristiani che tratta così crudelmente.

– Non commettete imprudenze, Nikola, – disse Perpignano. – I giannizzeri sono più forti di noi e potremmo perdere tutto.

– Lo so e per questo mi asterrò da qualsiasi atto e non darò fuoco alla miccia delle mie pistole, quantunque provi una rabbia furiosa di gettarmi su quei cani e di farli a pezzi a colpi di jatagan. Ho troppo sofferto come cristiano e come rinnegato.

– Vi è la duchessa di mezzo.

– Una spada che vale meglio di tutte le nostre riunite. Ho saputo che ha vinto e disarmato perfino Metiub.

– E anche il Leone di Damasco, Nikola, tuttavia noi dobbiamo rimanere tranquilli.

– Sì, per precauzione. Non conviene guastare le uova ora che sono ben collocate nel paniere.

Le due scorte nel frattempo continuavano a galoppare, non già sullo stretto sentiero che costeggiava il mare, accessibile solamente ai pedoni, bensì su una larga via tracciata sulla cima di quell’ammonticchiamento di rupi e di scogliere che formavano il promontorio, estendentesi, in forma di semicerchio, dinanzi alla baia d’Hussif.

Nè Haradja, nè Eleonora parlavano. Sembravano entrambe assai preoccupate e pensierose.

Solamente l’ultima, di quando in quando, certa di non essere veduta dalla turca, volgeva la testa indietro per lanciare sul visconte un rapido sguardo, come per rassicurarlo e pregarlo di non tradirsi.

Il francese che pareva lo aspettasse, rispondeva con un sorriso. Verso le sette del mattino le due scorte, che non avevano rallentato nemmeno un momento, scendevano le ultime alture per raggiungere le spiagge della rada.

– Ecco laggiù la mia nave disse la duchessa, indicando alla turca la gagliotta che si trovava ancorata ad una sola gomena dalla riva, colle vele semimbrogliate.

– To’! – esclamò Haradja. – Come mai non si scorge il mio sciabecco? Devi averlo veduto tu, Hamid, quando sei giunto qui.

– Sì, vi era, – rispose la duchessa. – Un piccolo veliero montato da qualche dozzina d’uomini, è vero?

– Era ancorato nella rada?

– Anzi, i suoi uomini volevano impedirci di sbarcare.

– Stupidi! Non sanno distinguere gli amici dai nemici, quegli scopatori del Mediterraneo.

– È sempre meglio essere diffidenti, Haradja.

– Quanti uomini hai lasciato a guardia del tuo legno?

– Tre.

– L’assenza dello sciabecco m’inquieta, – disse Haradja, aggrottando la fronte. – Che sia avvenuto qualche cosa di grave lungo la costa?

– Che cosa temi, Haradja?

– I veneziani non mancano di galere, – rispose la turca.

– Che cosa potrebbero fare o tentare ora che su tutte le città dell’isola sventola trionfante la bandiera del Profeta e che i cristiani sono stati interamente distrutti?

– I tuoi uomini mi sapranno ben dire qualche cosa.

– Lo spero, Haradja.

Scesero verso la spiaggia e la turca per la prima balzò d’arcione, senza più occuparsi del suo cavallo.

Tutti gli altri avevano messo piede a terra, mentre dalla gagliotta si staccava una scialuppa montata dai due marinai lasciati a guardia del veliero e da Olao.

– Vi era uno sciabecco qui, – disse Haradja, quand’ebbero preso terra.

– È vero, signora, – rispose colui che durante la notte aveva lasciato il castello. – Ha spiegato stamane le vele, dicendoci che andava a perlustrare le coste.

– Avete veduto nessuna galera nemica veleggiare all’orizzonte?

– Ieri sera, prima del tramonto, una nave si è mostrata al sud, puntando verso l’isola. È probabile che lo sciabecco abbia preso il largo per accertarsi se era turca o cristiana.

– Allora tornerà presto, – disse Haradja. – Imbarcate innanzitutto il cristiano e legatelo bene nel frapponte o meglio chiudetelo in qualche cabina, mettendo una sentinella dinanzi alla porta.

– Ne rispondo io, signora, – disse Nikola.

Il visconte, che si manteneva freddo e tranquillo, guardando solo di quando in quando e di sfuggita Eleonora, entrò nella scialuppa scortato da papà Stake, da Simone e da quattro greci.

– Hamid, – disse Haradja, accostandosi alla duchessa che seguiva cogli sguardi l’imbarcazione – ecco il momento della separazione. Non dimenticare, effendi, che io ti aspetto con impazienza e che conto sul tuo braccio per vendicarmi di Muley-el-Kadel.

Se tu lo vorrai, ti farò nominare governatore del castello d’Hussif dal Sultano, coll’appoggio di mio zio, ti farò avere onori e gradi quanti vorrai. Tu sarai un giorno il pascià più potente dell’impero mussulmano. Mi hai compreso, mio bel capitano? Haradja aspetterà il tuo ritorno pensando sempre a te.

– Tu sei troppo buona, signora, – rispose la duchessa.

– No, signora, Haradja ti ho detto di chiamarmi.

– È vero: in questo momento me n’ero scordato.

– Addio, Hamid, – disse la turca, porgendole la destra e dandole una stretta vigorosa. – I miei occhi ti seguiranno sul mare.

– Ed il mio cuore batterà per te, Haradja, – rispose la duchessa con sottile ironia. – Quando avrò ucciso il Leone di Damasco mi vedrai tornare.

La scialuppa che aveva condotto sulla gagliotta il visconte Le Hussière era tornata, seguita da un caïcco.

Eleonora balzò nella prima con Perpignano, El-Kadur, Ben-Tael, lo schiavo di Muley-el-Kadel, ed alcuni greci e prese subito il largo, mentre gli altri s’imbarcavano sul secondo.

Haradja, appoggiata al suo cavallo che teneva per le briglie, la seguiva cogli sguardi. Una nube di tristezza si era diffusa sul bel viso della crudele donna.

I rinnegati, che erano rimasti a bordo, avevano già spiegate le vele e stavano salpando l’àncora grossa che era affondata a prora.

Papà Stake, appena messo piede sulla coperta, aveva ripreso il comando, gridando:

 

– Lesti, ragazzi! La brezza dal nord-est e fileremo come pescicani! Che ci diano la caccia coi loro arabi puro sangue, se ne sono capaci. Ah! La bella burla! Ah! La bella burla! Ne riderò per un bel po’!

L’àncora, coll’aiuto dei greci sopraggiunti, era stata subito strappata.

La gagliotta, le cui vele latine si erano subito gonfiate, indietreggiò d’una decina di passi, poi girò lentamente su se stessa, sotto l’azione del timone, maneggiato dalle robuste braccia di Nikola e s’avanzò dolcemente verso l’uscita della rada.

– T’aspetto, Hamid! – gridò un’ultima volta Haradja.

La duchessa fece un saluto agitando il fazzoletto, mentre uno scoppio di risa le usciva dalle labbra, coperto subito dalla voce grossa di papà Stake che urlava:

– Stringete le scotte, ragazzi! Ai turchi l’abbiamo fatta!

Haradja attese che la gagliotta avesse superato il promontorio, poi salì sul suo cavallo arabo e riprese al passo la via del castello, seguita dai suoi giannizzeri.

Una profonda ruga solcava la sua fronte e, pur allontanandosi dalla spiaggia, di quando in quando arrestava il suo cavallo per guardare verso il Mediterraneo. La gagliotta, che il vento spingeva rapidamente al largo non era però più visibile, navigando al di là del promontorio.

Giunta sulla via ripida, spronò furiosamente il suo arabo, spingendolo a corsa sfrenata.

Mezz’ora dopo giungeva sul piazzale del castello. La scorta, che non era riuscita a tenerle dietro, era rimasta lontana.

Stava per passare, a gran galoppo, sul ponte levatoio, quando dalla via che conduceva agli stagni morti, vide sbucare improvvisamente un capitano dei giannizzeri, alto, grosso, con lunghi baffi neri, che montava un bellissimo cavallo baio coperto di schiuma.

Haradja si era fermata, mentre i giannizzeri che erano di guardia sotto la torre, udendo quel galoppo, accorrevano cogli archibugi già muniti di micce accese.

– Alt! Signora! – aveva gridato il cavaliere, facendo fare al suo destriero un fulmineo volteggio per arrestarlo in piena volata. – Sareste voi, per caso, la nipote del grande ammiraglio Alì Pascià?

– Chi sei? – gli chiese Haradja, aggrottando la fronte e squadrandolo poco benignamente.

– Come vedete, un capitano dei giannizzeri, – rispose il cavaliere – e vengo difilato dal campo di Famagosta.

Giuraddio! Sono sette ore che cavalco il mio bravo Kaeser e deve essere rattrappito o poco meno.

– Io sono la nipote del grande ammiraglio, – rispose Haradja.

– Ecco una bella fortuna. Temevo che non foste al castello. Ci sono ancora i cristiani?

– Eh! Capitano, mi pare che tu m’interroghi, – disse Haradja un po’ piccata. – Non sono già un ufficiale qualsiasi di Mustafà, io.

– Perdonate, signora, ma io ho fretta, – rispose il cavaliere. – Siamo tutti così, noi.

– Noi! Chi sei?

– Una volta ero un cristiano polacco; ora sono un turco seguace fedele del Profeta.

– Ah! Un rinnegato, – disse Haradja con un certo disprezzo.

– Si può pentirsi, signora, di essere stato un credente della croce, – rispose il cavaliere con voce rude. – Comunque sia, oggi sono un turco e sono venuto qui per rendervi un prezioso servigio.

– Di quale specie?

– Vi ho chiesto se i cristiani sono ancora qui.

– Quali?

– Quelli che sono venuti a trovarvi per liberare un certo visconte Le Hussière.

– I cristiani! – esclamò Haradja, impallidendo.

– Me lo immaginavo che si sarebbero spacciati per turchi.

– Chi sei tu?

– Mi chiamavano il capitano Laczinki, quand’ero cristiano, – rispose il polacco. – Ora porto un nome turco che già voi non avrete mai udito risuonare ai vostri orecchi. Vi sono tanti capitani mussulmani che è impossibile ricordarli tutti, anche alla nipote del grande ammiraglio. Sono ancora qui? Rispondete, signora.

– Che io sia stata mistificata? – gridò Haradja, con uno scoppio d’ira tremenda. – Hamid…

– Ah, si! Hamid! Era questo il nome che aveva assunto Capitan Tempesta!

– Capitan Tempesta!

– Signora, – disse il polacco, vedendo sopraggiungere i giannizzeri di scorta. – Mi sembra che questo non sia il luogo opportuno per fare delle confidenze.

– Hai ragione, – disse Haradja che impallidiva a vista d’occhio. – Seguimi!

Attraversarono il cortile, scesero da cavallo ed entrarono insieme in un salotto pianterreno, ammobiliato con eleganza tutta orientale.

– Parla, – gli disse Haradja con voce fremente, dopo d’aver chiusa impetuosamente la porta. – Tu mi dicevi che Hamid è un cristiano?

– È il famoso Capitan Tempesta, che dinanzi a Famagosta abbattè, in un duello magnifico, il Leone di Damasco che si era spinto sotto le mura della città assediata, sfidando le migliori lame dei cristiani.

– Hamid ha vinto il Leone? – esclamò Haradja.

– E lo ha anche ferito, signora, – rispose il polacco. – Avrebbe anzi potuto ucciderlo; invece preferì donargli la vita.

– Sicchè non è vero che quel giovane cristiano sia amico di Muley: ha mentito.

– Tutt’altro, signora: il turco ed il cristiano non sono più avversari, anzi, vi dirò che fu il primo che salvò il secondo, quando Mustafà, entrato in Famagosta ordinò la strage generale dei difensori della povera piazza.

– Hamid un cristiano! – mormorò a più riprese Haradja, che appariva pensierosa.

Ad un tratto alzò le spalle dicendo:

– Turco o seguace della Croce poco importa. È sempre bello, fiero e generoso ed il Profeta non deve entrare nei cuori nè degli uni, nè degli altri.

Il polacco ebbe un sogghigno.

– Bello o bella, signora, – disse, con un risolino sardonico.

La nipote del grande ammiraglio aveva guardato il polacco quasi con terrore.

– Che cosa vuoi dire tu, capitano? – chiese con voce tremante.

– Vi chiedo, signora, se è bello o bella, fiero o fiera, generoso o generosa, – rispose il polacco con sottile sarcasmo. – Potreste esservi ingannata sul vero essere di Capitan Tempesta.

– Tu dici!… – gridò Haradja, mentre il sangue le affluiva al viso imporporandole le gote.

– Tu dici? – ripeté, afferrando il capitano per un braccio e scuotendolo furiosamente.

– Che quel bell’Hamid o quel bel Capitan Tempesta si chiama invece Eleonora duchessa d’Eboli.

– Una donna!

– Sì, una donna.

Haradja aveva mandato un urlo come di belva ferita a morte e si era portata ambo le mani sul cuore.

Stette immobile per parecchi istanti, cogli occhi dilatati, pallidissima, poi ebbe uno scoppio d’ira tremenda.

– Giuocata! Ingannata! Derisa!

Aprì impetuosamente la porta e gridò:

– Metiub!

Il mussulmano, che stava fumando in un angolo del cortile, sdraiato su un tappeto, fu pronto ad accorrere.

Vedendo Haradja col viso alterato, gli occhi fiammeggianti, la schiuma alle labbra, credette che il polacco l’avesse offesa e allungò la destra per afferrarlo pel collo, mentre colla sinistra si levava il jatagan che portava alla cintura.

– No, questo, – disse Haradja. – Dov’è la tua galera?

– Sempre all’àncora entro la rada di Doz.

– Parti subito col mio miglior cavallo, fa’ spiegare le vele e da’ la caccia alla gagliotta che ha condotto qui quell’Hamid… Sono cristiani… e… hanno ingannato tutti… corri, parti e portami Hamid, vivo, m’intendi, Metiub, vivo lo voglio.

– Va bene, signora, – rispose il turco. – Prima che il sole tramonti la mia Namaz avrà catturata la gagliotta ed io avrò vendicato il colpo di spada che quell’impertinente ragazzo mi ha dato.

CAPITOLO XXI. Viva la Capitana!

Mentre il capitano turco e il rinnegato polacco cavalcavano furiosamente verso la spiaggia, onde catturare i fuggiaschi, la gagliotta, spinta da una fresca brezza navigava rapidamente verso il sud onde raggiungere, prima di lasciare definitivamente l’isola, la baia di Suda.

La duchessa aveva già deciso di rivedere un’ultima volta il Leone di Damasco, a cui doveva la propria vita e la liberazione del visconte e poi doveva rimettergli la nave e cercarne un’altra, quantunque i greci avessero esposto il loro desiderio di accompagnarla in Italia dove avrebbero avuto l’occasione di prendere imbarco su qualche veliero o di arruolarsi in qualche compagnia di ventura.

Appena la gagliotta ebbe superato il promontorio, mettendosi al coperto degli sguardi dei giannizzeri e della castellana, la duchessa era scesa precipitosamente nel quadro dove il visconte, con un’ansietà facilmente immaginabile, l’aspettava.

Due grida erano subito echeggiate nel piccolo salotto:

– Eleonora!

– Gastone!

Il visconte aveva preso fra le mani il bello e fine viso della duchessa e lo guardava cogli occhi ardenti, resi più fiammeggianti dalla febbre che torturava quel povero corpo semidissanguato dai morsi delle avide sanguisughe.

– Io avevo saputo che voi, Eleonora, eravate giunta in Cipro – disse il visconte. – Ed è stata la speranza di potervi un giorno rivedere che mi ha sorretto e che mi ha incoraggiato a subire, senza cedere, le orribili miserie fattemi provare dai vili mussulmani.

– Voi lo sapevate, Gastone! – esclamò la duchessa.

– Sì, le gesta di Capitan Tempesta erano giunte fino a Hussif o meglio fino agli stagni morti.

– Ma come?

– Mi aveva parlato di Capitan Tempesta un cristiano fatto prigioniero dai turchi durante una sortita degli assediati e datomi per compagno nella pesca delle sanguisughe.

Dalla descrizione che mi aveva dato sul vostro volto e soprattutto dalla presenza di El-Kadur, io avevo subito supposto che quel capitano, che tutti i cristiani di Famagosta ammiravano, foste voi.

Quel giorno, credetemi Eleonora, fui lì lì per impazzire per la gioia. Voi in Famagosta! Mai più lieta notizia poteva giovare all’animo mio, scoraggiato da tante umiliazioni e da tanta sofferenza.

– Vedervi finalmente libero, qui, dinanzi a me, dopo tante paure e tanti orrori… non si direbbe un sogno, visconte?

– Sì, e sono fiero di dovere a voi, alla vostra audacia, al valore del vostro braccio, la mia libertà.

– Ho fatto ciò che qualunque altra donna avrebbe potuto e dovuto tentare e null’altro, mio Gastone.

– No, – disse il visconte con vivacità. – Solo una duchessa d’Eboli poteva possedere tanto coraggio. Nessuna altra avrebbe osato venire qui, in questo covo di tigri e di leoni che mette lo sgomento anche nei più forti cuori dei guerrieri cristiani, mia Eleonora.

– Credete che io non abbia saputo che voi avete vinto perfino la prima lama dell’esercito mussulmano?

– Come voi lo sapete, Gastone?

– Il soldato che m’informò della presenza vostra e di El-Kadur, mi raccontò anche del vostro duello.

– Una inezia, – disse la duchessa, sorridendo.

– Che spaventava i capitani cristiani rispose il visconte.

– I quali non avevano avuto la fortuna di aver imparato il maneggio della spada sotto la direzione del miglior tiratore di Napoli – disse la duchessa scherzando. – Quella vittoria la debbo a mio padre.

– Ed al vostro coraggio, Eleonora.

– Bah! Non parliamone più, Gastone. Vi farò anzi conoscere fra poco il mio avversario.

– Chi? Il Leone di Damasco? – chiese Le Hussière con sorpresa.

– Andiamo da lui, essendo sua la nave. Io debbo la mia salvezza al Leone di Damasco. Senza il suo aiuto non sarei uscita viva da Famagosta.

– Non ci tradirà? – chiese il visconte, che pareva preoccupato.

– No, è troppo generoso e poi se io gli devo la mia salvezza, egli mi deve la vita.

– Lo so: lo avete risparmiato, mentre avreste potuto ucciderlo. Tuttavia io non mi fiderei di quel turco.

– Non temete, Gastone: quello è un mussulmano diverso dagli altri.

– Poi salperemo subito per l’Italia, è vero, Eleonora?

– Sì, Gastone. Ormai più nulla abbiamo da fare a Cipro. La Repubblica ha abbandonata l’isola al suo destino, nè si sente per ora più in caso di ritentarne la conquista.

Andremo a Napoli e là vivremo felici e dimenticheremo le sofferenze passate.

Il dolce clima del golfo vi rimetterà presto dalle torture infami fattevi subire da quella crudele Haradja.

Saliamo sul ponte, Gastone: io non sarò pienamente tranquilla finchè non rivedremo le coste italiche.

– Quale altro pericolo ci può minacciare, Eleonora? – chiese il visconte.

– Non sono tranquilla, Gastone, – ripeté la duchessa. – Temo qualche vendetta da parte di Haradja. Quella donna è crudele ed energica e può contare sulle galere di suo zio.

– Mi hanno detto che la squadra mussulmana è sempre ancorata nel porto di Nicosia, – disse il visconte. – Prima che giunga qui noi saremo ben lontani.

– Noi non ci fermeremo che il tempo appena necessario per noleggiare una nave e veleggeremo subito nel Mediterraneo verso l’Occidente.

 

– Saliamo, Eleonora: l’aria del mare mi farà meglio che quella mefitica degli stagni morti.

La prese per mano e la condusse sulla tolda.

La gagliotta era già lontana dalla rada e scivolava leggera leggera sulle acque azzurre del Mediterraneo, dirigendosi verso il sud.

Le coste di Cipro, molto dirupate in quel luogo e tagliate da piccoli fiords, si delineavano a sette od otto gomene.

– Come andiamo, papà Stake? – chiese la duchessa al vecchio marinaio che s’avvicinava col berretto in mano.

– Benissimo, signora: la gagliotta va meglio d’una galera. Il signor visconte è soddisfatto del nostro colpo di testa?

– Dammi la mano, marinaio, – rispose il signor Le Hussière.

– È troppo onore, signor visconte, – disse papà Stake, che sembrava assai imbarazzato.

– Stringi senza timore: sono due mani cristiane che s’incontrano.

– E leali, signore, – disse l’orso marino, afferrando la destra che il visconte gli porgeva – e sempre pronte a dare addosso a quei porci mussulmani. Huff! Non so perchè il buon Dio abbia messo al mondo quelle bestie rabbiose!

Vorrei affogarle tutte, – riprese il marinaio grattandosi furiosamente la punta del naso – e farle divorare dai pescicani… no, dai granchi di mare!

Una voce lo interruppe:

– Buon giorno, padrone.

– Ah! Il pezzo di pan bigio, – mormorò papà Stake, vedendo l’arabo rizzarsi dietro il visconte. – Hum! Che aria da funerale ha quel selvaggio.

El-Kadur si era accostato silenziosamente al visconte. Il suo volto non sembrava davvero troppo allegro ed i suoi occhi nerissimi erano umidi.

– Tu, mio bravo El-Kadur! – esclamò il visconte. – Quanto sono felice di vederti!…

– Ed io non meno di te, signor visconte, – rispose l’arabo, sforzandosi di dare al suo viso un’espressione gioconda, – Ero più che certo che noi saremmo riusciti a strapparti dalla schiavitù. Ecco, ora sei felice, signore.

– Sì, immensamente felice, – rispose il visconte. – Spero che ormai i mussulmani non mi divideranno più mai dalla donna che amo.

Uno spasimo intenso, indescrivibile, alterò il viso dell’arabo, ma ebbe la durata d’un lampo. La duchessa che l’osservava attentamente, lo aveva però notato.

– Signore, – disse – tu ora non hai più bisogno dei miei servigi. Il mio compito è ormai finito e vorrei chiederti una grazia che la padrona mi ha rifiutata.

– Quale? – chiese il visconte un po’ sorpreso.

– Di non ricondurmi in Italia.

– El-Kadur! – disse la duchessa con accento imperioso.

– Il povero schiavo vorrebbe ritornare nel suo paese, – riprese l’arabo, fingendo di non aver udito il grido della sua padrona. – La mia vita sta forse per tramontare, poichè mi sento sfinito e immensamente stanco e vorrei tornarmene laggiù.

Sogno tutte le notti gli sconfinati deserti dell’Arabia, i verdi palmizi dalle foglie piumate, le tende nereggianti sulle aride, eppur così belle pianure, baciate dal sol bruciante e lambite dalle onde del Mar Rosso.

Noi, figli delle regioni ardenti, abbiamo la vita breve e quando sentiamo giungere la morte non abbiamo che due soli desideri: un letto di sabbia e l’ombra d’una delle nostre piante.

Prega la donna che ami che dia la libertà al povero schiavo.

– Sicchè tu, El-Kadur, vorresti lasciarci? – chiese la duchessa.

– Sì, se me lo consenti.

– Perchè tu, allevato a fianco della mia fidanzata, suo protettore e sua guida, vorresti lasciarci, El-Kadur? – chiese il visconte. – Napoli vale meglio dell’Arabia: il palazzo dei duchi d’Eboli meglio della tenda. Parla.

L’arabo aveva socchiusi gli occhi. La duchessa, che aveva già ormai capito quale segreta fiamma divorava il cuore del selvaggio figlio dei deserti, lo guardava fisso.

– Lo vuoi, El-Kadur? – gli chiese.

– Sì, padrona, – rispose l’arabo con voce sorda.

– E non rimpiangerai la tua signora? Tu che sei stato il suo compagno di infanzia?

– Dio è grande.

– Quando avremo lasciato Cipro tu sarai libero, mio fedele El-Kadur.

– Grazie, padrona, – rispose l’arabo.

Non aggiunse nessuna altra parola, s’avvolse strettamente nel suo mantellone ed andò a sedersi a prora, mentre il visconte e la duchessa salutavano i marinai che facevano ala sul loro passaggio.

Papà Stake insieme a Nikola era tornato ad avvicinarsi a loro.

– Signora, – disse – vi siete dimenticata dell’equipaggio dello sciabecco?

– Dei marinai turchi? rispose Eleonora.

– Quei cani rognosi sono sempre rinchiusi e ben legati nella sentina della gagliotta e siccome potrebbero costituire per noi un grave pericolo, vengo a chiedervi che cosa dobbiamo fare di loro.

– Che cosa ci consigliereste? – chiese la duchessa, rivolgendosi ad entrambi.

– Io li annegherei colle zampe e le braccia ben legate, – rispose papà Stake senza esitare.

– Ed io li appiccherei ai pennoni aggiunse il greco.

– Costoro non hanno combattuto contro di noi, – disse la duchessa. – Nulla ci hanno fatto di male.

– Sono dei turchi, signora.

– È vero, papà Stake ed è perciò che noi, cristiani, dobbiamo mostrarci generosi, è vero, Gastone?

Il visconte approvò con un gesto.

– Allora dovremo sbarcare quei furfanti? – chiese il lupo di mare, un po’ contrariato da quella generosità che trovava inopportuna. – Se noi ci fossimo trovati nelle loro zampe scommetterei il mio berretto contro un pezzo di canapo che i pescicani a quest’ora avrebbero fatta un’abbondante scorpacciata di carne umana.

– Tu potrai avere ragioni da vendere, ma io, come donna, non posso permettere che si assassinino a sangue freddo quei prigionieri.

Il marinaio crollò il capo come un uomo niente affatto contento, poi riprese:

– Mi dimenticavo di dirvi una cosa, signora. I marinai che hanno affondato lo sciabecco hanno trovato nella stiva di quel legno due grosse casse che sembra fossero destinate alla castellana d’Hussif.

– Le hai fatte aprire?

– Sì e vi ho trovato degli splendidi vestiti da donna turca. Devo farle portare nel quadro? Mi sembra che non abbiate ormai più bisogno d’indossare un costume maschile, ora che il signor visconte è qui, pronto a difendervi. Spetta a noi uomini, servirvi di scudo coi nostri petti.

– Mi sorride l’idea di diventare una dama mussulmana, – rispose la duchessa. – Capitan Tempesta ed Hamid non hanno più ragione di sussistere.

– Sareste più attraente, Eleonora, – disse il visconte – e non fareste più girar la testa alle donne. So che Haradja si era pazzamente innamorata di voi, credendovi in buona fede un principe mussulmano.

– Un idillio che mi avrebbe fatto ridere assai, se voi non foste stato prigioniero, – rispose la duchessa. – Se ella avesse saputo la verità, chissà come mi avrebbe fatto pagare caro quell’inganno.

– Non sareste certo uscita viva dalle unghie di quella jena.

– Spero che ormai non mi vedrà più, a meno che non venga a cercarmi a Napoli od a Venezia.

– E ciò sarà un po’ difficile, signora, – disse papà Stake, che era subito ritornato, dopo d’aver dato ordine ad alcuni marinai di portare nel quadro lecasse destinate ad Haradja – quantunque non siamo ancora tanto lontani da poterci ritenere al sicuro dalle sue grinfie.

– Nessuno può averla informata che io sono una donna.

– Eh! Chissà, signora. I traditori non mancano mai.

– Diventate pessimista, papà Stake?

– Oh, no, signora; vorrei tuttavia essere già in vista delle coste dell’Italia, o per lo meno della Sicilia, mentre i capricci di questa brezza m’inquietano. Tende a scemare ed ho timore che una calma improvvisa ci arresti qui.

– Siamo già lontani da Hussif, – disse il visconte.

– Una ventina di miglia, signore; ben poca cosa.

– Nessun pericolo ci minaccia.

– Finora no.

– Allora fate preparare la colazione, papà Stake.

– Mentre io vado a saccheggiare le casse della mia fidanzata, – disse la duchessa ridendo.

Gastone attese che fosse scomparsa per la scaletta che metteva nel piccolo quadro, poi prendendo il vecchio marinaio per un braccio e traendolo verso prora, gli chiese con una certa apprensione:

– Ditemi, mastro, temete qualche cosa?

– No, signor visconte; un inseguimento da parte dei marinai turchi mi sembra, almeno per ora, improbabile, avendo già noi affondato lo sciabecco. Ma forse è appunto la scomparsa di quel piccolo veliero che potrebbe far nascere qualche sospetto nell’animo di Haradja. Quella donna è troppo furba.

– Potrà supporre che sia naufragato.

– Hum! Con un mare così tranquillo!

– Siete certo di non aver veduto altre navi nei dintorni d’Hussif?

– La costa, signore, io non l’ho visitata che per un brevissimo tratto. Io non vi potrei affermare se in qualche seno od in qualche canale potesse celarsi qualche altro veliero.