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Capitan Tempesta

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CAPITOLO XV. La nipote d’Alì Pascià

La duchessa, quantunque col cuore trepidante, era entrata risolutamente nella ricchissima tenda, mentre il capitano, diventato improvvisamente assai ossequioso le alzava un lembo facendole un profondo inchino.

Una donna giovane e bellissima, stava ritta nel mezzo, con una mano appoggiata alla spalliera d’un divanetto scintillante di ricami d’oro.

Era una figura alta, slanciata, con occhi nerissimi che risaltavano vivamente sotto le bellissime sopracciglia meravigliosamente delineate, la bocca piccola dalle labbra rosse come ciliege mature, i capelli lunghi d’una tinta che aveva i riflessi delle ali dei corvi e la tinta della pelle leggermente abbronzata.

Aveva però in tutto l’insieme di tratti del viso, quantunque d’una purezza quasi greca, qualche cosa di duro e di energico che tradivano la donna che godeva fama di essere crudele ed inflessibile, la donna più abituata a comandare ed imperiosamente, che ad obbedire.

Come le grandi dame turche di quell’epoca, portava dei superbi calzoni larghi, imbottiti internamente in modo che le gambe non potevano trasparire, in seta bianca ricamata in oro; un giubbettino di seta verde con larghi bordi d’argento e bottoni formati da grosse perle d’un valore inestimabile ed ai fianchi un’alta fascia di velluto rosso, annodata sul davanti, con lunghe code che scendevano fino a toccare le piccole scarpe a punta rialzata, di pelle rossa con ornamenti d’oro.

Nessun gioiello nè agli orecchi, nè ai polsi; invece, passata nella fascia, teneva una piccola scimitarra coll’impugnatura d’oro incrostata di zaffiri e di smeraldi e la guaina d’argento con passanti di madreperla.

Vedendo entrare la duchessa, vestita nel pittoresco costume albanese, col viso pallidissimo che faceva doppiamente risaltare la vivacità degli occhi e la bellezza della nera capigliatura, un grido d’ammirazione era sfuggito, involontariamente forse, alla nipote del grande ammiraglio.

– Ah! Il bel capitano!

Poi, rimettendosi prontamente e facendo un gesto come di stizza per essersi lasciata uscire dalla bocca quella frase, disse con una ruvidezza un po’ studiata:

– Che cosa vuoi, effendi?()

– Ora te lo dirò, cadindyick() – rispose la duchessa, facendo un profondo inchino.

– Cadindyick! – esclamò Haradja, mentre uno scoppio di risa ironiche le irrompeva dalle labbra. – Questo titolo, serbalo, mio bel capitano, per le donne che s’invecchiano negli harem dorati e profumati e non già per la nipote di Alì Pascià.

– Sono arabo e non turco, – rispose la duchessa.

– Ah! Sei arabo! – esclamò la turca. – Sono tutti così belli i giovani del tuo paese, effendi? io credevo che gli arabi fossero tutt’altro che così piacevoli. Quelli che io ho veduto a bordo delle galere di mio zio, il grande ammiraglio, non somigliavano affatto a te. Chi sei tu dunque?

– Il figlio del pascià di Medina, – rispose la duchessa imperturbabile, avendo compreso perfettamente ciò che diceva Haradja la quale aveva parlato in lingua araba.

– Ah! – fece la nipote del pascià, sbozzando un sorriso, – È sempre in Arabia tuo padre?

– Lo conosceresti per caso, signora?

– No, quantunque abbia passati molti anni della mia infanzia sulle rive del Mar Rosso. Oggi non navigo che sul Mediterraneo. Chi ti manda, effendi?

– Muley-el-Kadel.

Un impercettibile trasalimento aveva fatto correre come un fremito sul viso della nipote del grande ammiraglio.

– Che cosa vuole da me? – chiese poi, aggrottando leggermente la fronte.

– Mi ha qui mandato per pregarti di cedergli uno dei cristiani fatti prigionieri a Nicosia.

– Un cristiano! – esclamò Haradja, facendo un gesto di stupore. – Chi è?

– Il visconte Gastone Le Hussière, – rispose la duchessa, con un leggero tremito nella voce.

– Quel francese ai servigi della Repubblica Veneta?

– Sì, signora.

– Per quale motivo il Leone di Damasco s’interessa di quel cane di giaurro?

– Lo ignoro.

– La sua fede di buon seguace di Maometto si sarebbe per caso scossa?

– Non lo credo.

– L’ho trovato troppo generoso, il Leone di Damasco.

– Puoi dire cavalleresco.

– In un turco non va, – rispose asciuttamente la nipote del pascià. – Che cosa vorrà farne di quell’uomo, mio bel capitano?

– Non te lo saprei dire, tuttavia sospetto che lo si voglia mandare come ambasciatore a Venezia.

– Chi lo manderà?

– Mustafà, io credo.

– Il gran vizir ignora dunque che quel cristiano appartiene a mio zio? – chiese Haradja quasi con collera.

– Mustafà è il supremo comandante dell’armata turca, signora, e tutto quello che fa è approvato dal Sultano.

– Che importa a me del gran vizir, – disse la nipote del pascià, alzando le spalle. – Comando io qui e non già lui.

– Sicchè rifiuteresti, signora?

Invece di rispondere, Haradja batté le mani. Due schiavi negri entrarono tosto, inginocchiandosi dinanzi a lei.

– Avete nulla da offrire a questo effendi? – chiese loro, senza degnarsi di guardarli.

– Dello youghurth() padrona, – rispose uno dei due.

– Portate, vili schiavi.

Quindi, rivolgendosi nuovamente verso la duchessa, con un sorriso amabile, le disse:

– Qui tutto manca, ma ti offrirò al castello migliore ospitalità, mio bel capitano. Oh! Non mi fuggirai troppo presto, spero.

Quindi, diventando bruscamente seria, sdraiandosi mollemente, in una posa seducentissima sul divanetto, con una mano sotto la nuca, immersa nei suoi lunghi capelli neri, chiese:

– Che cosa fa Muley-el-Kadel al campo di Famagosta?

– Si riposa e cerca di guarire della ferita ricevuta, – rispose la duchessa.

Haradja era balzata in piedi come una leonessa ferita, dardeggiando sulla giovane uno sguardo di fuoco.

– Ferito! – esclamò, – Da chi?

– Da un capitano cristiano.

– Quando?

– Giorni sono.

– In un assalto?

– No, in un duello.

– Lui! L’invincibile Leone di Damasco! La prima e la più formidabile lama dell’armata! Oh! È impossibile!

– Ciò che ti dico è vero, signora.

– E da un cristiano?

– Da un giovane capitano.

– Era un dio della guerra quel giovane?

– Forte di certo, signora.

– Ah! Come avrei voluto vederlo! – esclamò Haradja col viso acceso.

– Era un cane d’un cristiano, signora.

– Cristiano o turco, quello doveva essere un grande eroe, un semidio!

La duchessa ebbe un indefinibile sorriso ironico, che sfuggì alla nipote del grande ammiraglio.

Fra le due donne successe un lungo silenzio. Haradja, immobile in mezzo alla tenda tormentava nervosamente l’impugnatura della sua scimitarra ed i suoi occhi, che avevano in quel momento un cupo lampo, erano fissi su un enorme leone che era disegnato su uno splendido tappeto di Rabat, il quale copriva tutto il suolo.

– Vinto! – mormorò come parlando fra sè. – Lui, l’invincibile Leone di Damasco! Vi è dunque in Cipro un uomo più forte e più valente di lui? Il Leone! Solo una tigre avrebbe potuto abbatterlo! Chi sarà costui? Oh! Come vorrei conoscerlo!

– Ti ho detto che chi ha atterrato Muley-el-Kadel è stato un cristiano disse la duchessa.

Haradja alzò le spalle con un gesto di dispetto.

– La fede! La Croce o l’Islam che importa alla donna? Non ha nulla a che fare col cuore.

– Forse hai ragione rispose la duchessa.

Haradja alzò gli occhi fissandoli sulla duchessa e dopo d’averla contemplata per parecchi istanti, le chiese a bruciapelo:

– E tu, sei un eroe, mio bel capitano?

La duchessa, presa alla sprovvista, rimase un momento muta, poi disse:

– Se tu, signora, nel tuo castello, hai degli spadaccini di vaglia, puoi dir loro che si provino con me, due contro uno solo e li abbatterò. Quando vorrai!

– Anche Metiub?

– Chi è costui?

– La migliore lama della flotta.

– Venga.

– Vorresti tu, effendi, rivaleggiare anche con Muley-el-Kadel? – chiese Haradja con stupore.

– Si provino tutti.

– Ma Muley è tuo amico.

– È vero, signora.

– Ti sei mai misurato con lui?

– No.

– Ti vedrò questa sera alla prova, effendi. Io non amo che i valorosi che sanno vincere ed uccidere.

– Quando me l’ordinerai, signora, ti mostrerò come si batte il figlio del Pascià di Medina.

Haradja tornò a guardarlo, mormorando fra sè:

– Bello e prode? Più prode o più bello? Lo vedremo.

In quel momento i due schiavi erano entrati portando su un vassoio d’oro due recipienti d’argento, finemente cesellati, pieni di yougurth.

– Accetta questo pel momento, effendi, – disse la nipote del pascià – mentre dò l’ordine di preparare il mio cavallo. Tu sei mio ospite e all’hisar() saprò trattarti diversamente. La tua compagnia mi piace e rimarrai qualche giorno con me.

– E Muley-el-Kadel?

– Quello aspetterà, – rispose Haradja, con un po’ di noncuranza.

– Ti ho detto che è forse Mustafà che ha dato l’ordine di condurre a Famagosta il visconte.

– Aspetterà anche lui. Non sono abituata a ricevere ordini da nessuno, nemmeno dal Sultano. Cipro non è Costantinopoli; il Mediterraneo non è il Bosforo. Vili schiavi, preparate il mio arabo.

– Una domanda ancora, signora, – disse la duchessa.

– Parla pure, effendi.

– Non potrei io vedere il visconte?

– Non è qui, – rispose Haradja. – L’ho mandato stamane a perlustrare uno stagno un po’ lontano, dove mi hanno detto che le sanguisughe abbondano.

– Ed incaricherai lui della pesca? chiese la duchessa, frenando a malapena un gesto d’orrore.

– No, dirigerà solamente il lavoro. Mustafà e Muley-el-Kadel non lo troveranno troppo deteriorato.

Quel gentiluomo mi ha interessato più degli altri, quantunque sia anche lui un cane d’un cristiano. E poi lui può pagare forse un bel riscatto e per la gente ricca anche la nipote del grande ammiraglio ha qualche riguardo.

 

Spicciati, mio bel capitano. Si sta meglio al castello che fra queste paludi pestifere.

La duchessa vuotò la coppa del latte cagliato, guardando un po’ beffardamente, di soppiatto, la nipote del Pascià, poi quand’ebbe finito, disse:

– Quando vorrai partire, signora, io sono pronto. Le donne non si fanno attendere, dicono i gentiluomini occidentali.

Haradja parve che fermasse il suo pensiero su quella frase, poichè chiese:

– Avresti viaggiato attraverso i paesi dei cristiani, tu?

– Sì, signora: mio padre ha voluto farmi conoscere la Spagna, la Francia e anche la bella Italia.

– A quale scopo?

– Perchè mi perfezionassi nel maneggio delle armi.

– Sicchè tu saresti capace di batterti ad armi diritte, se si presentasse l’occasione.

– Anzi, valgono meglio delle scimitarre turche, a mio giudizio, – rispose la duchessa.

– Bada! Metiub è un gran maestro d’armi e la spada italiana o francese o la scimitarra turca non lo spaventano.

– Chissà, signora.

– Sei ben sicuro del tuo polso, effendi! Eppure sei molto giovane!

– Che cosa importa? – rispose la duchessa. – È l’arte ed il braccio sicuro che valgono e non la gioventù.

– Ti vedrò questa sera contro Metiub, effendi.

– Non avrò paura di lui.

– La prima e la più formidabile, lama della flotta!

– Me lo hai detto, – rispose la duchessa col suo sorriso fra il bonario ed il beffardo. – Ci misureremo, signora, se ciò ti potrà far piacere.

– Ci tengo a conoscere le migliori lame dell’armata mussulmana. Kafir!

– Signora, – rispose uno dei due schiavi rientrando.

– Il mio cavallo?

– È già pronto.

– Capitano, la colazione ci aspetta al castello d’Hussif.

– Sono ai tuoi ordini, – rispose la duchessa, inchinandosi dinanzi alla terribile turca. – Ed il visconte Le Hussière?

– Ci raggiungerà domani rispose Haradja. – Ci tengo alle sanguisughe dei miei stagni.

Vi è qui una grande ricchezza da sfruttare, che i ciprioti non avevano compresa.

Strana cosa! Si direbbe che quelle bestioline amano meglio il sangue cristiano piuttosto che quello mussulmano! Che sia più delicato?

– Può darsi, – rispose la duchessa, lanciando sulla nipote del pascià uno sguardo cupo.

– Mio bel capitano, partiamo!

Uscirono dalla tenda. Uno schiavo, negro anche quello, teneva per le briglie un cavallo arabo tutto bianco, con una lunga gualdrappa rossa ricamata in oro ed un pennacchio sulla testa, tempestato di piccoli diamanti.

– Il mio destriero di battaglia, – disse Haradja. – Me lo hanno mandato da Gebel Schamar e credo che sia il più veloce che si trovi in Cipro.

Lo amo più d’un arabo e tu che sei pure arabo, sai meglio di me che i tuoi compatrioti dànno il primo posto, nel loro cuore, al cavallo ed il secondo alla moglie. Che sia proprio vero, capitano?

– Sì, signora, – rispose la duchessa.

– Strani uomini gli arabi! Eppure si dice che le belle donne non manchino nel loro paese. Il Profeta non doveva essere di cattivo gusto. Ah! Dimmi come ti chiami?

– Hamid.

– E poi?

– Eleonora.

– Eleonora! – esclamò la nipote del grande ammiraglio. – Che cosa significa questo nome?

– Non te lo saprei dire.

– Non è nè arabo, nè turco, mi sembra.

– Pare anche a me rispose la duchessa con fine ironia.

– Che sia cristiano?

– Lo ignoro.

– Eleonora! Quale strano capriccio o quale bizzarra fantasia ha indotto tuo padre ad importelo? Comunque sia, è bello e sonoro! Sali sul tuo cavallo, Hamid Eleonora. A mezzodì saremo al castello d’Hussif.

La nipote del pascià montò in sella del suo arabo, senza che nessuno l’aiutasse, con l’agilità e la sveltezza d’una vera cavallerizza, poi allentò le briglie, gridando:

– Seguimi! Al mio fianco, bel capitano! Faremo correre la tua scorta!

CAPITOLO XVI. Le bizzarrie d’Haradja

Il drappello era partito a corsa sfrenata, avendo Haradja lanciato il suo arabo, tormentandolo con dei leggeri colpi di mano ed aizzandolo con delle grida selvagge.

Pareva che quella strana donna provasse una vera ebbrezza in quella corsa furiosa, che forse le ricordava le bordate delle galere di suo zio e il fischio furibondo dei venti del Mediterraneo.

Nè i soprassalti improvvisi del suo destriero, costretto a superare talvolta dei crepacci, nè le scosse, la muovevano o la impressionavano. Si manteneva ritta in sella come se il suo corpo formasse un essere solo con quello del cavallo.

Col volto animato, gli occhi neri ardenti, la capigliatura lunghissima svolazzante, spingeva senza posa il suo arabo, respirando a pieni polmoni l’aria e gridando, fra uno strappo delle briglie ed una carezza rude sulla folta criniera del destriero:

– Aizza il tuo cavallo, mio capitano! Un arabo non può rimanere indietro!

La duchessa che cavalcava superbamente, forse meglio d’un uomo, faceva fare al suo animale degli sforzi prodigiosi per mantenerlo a fianco di quello che montava la nipote del Pascià.

La scorta invece, a poco a poco, rimaneva indietro, allungandosi sempre più, nonostante le grida ed i colpi di sperone dati senza misericordia ai poveri animali.

Solamente il capitano turco e Perpignano riuscivano a tenersi vicini alle due donne.

Quella corsa infernale durò venti minuti e non cessò che sul piazzale del castello.

La duchessa, dopo d’aver fatto fare al suo cavallo un volteggio fulmineo per arrestarlo, era balzata a terra per aiutare Haradja a scendere, ma questa l’arrestò con un gesto imperioso, dicendo poi:

– La nipote di Alì pascià scende da cavallo e monta all’arrembaggio senza aver bisogno nè di scudieri, nè di marinai.

Saltò agilmente a terra, senza servirsi delle staffe e volgendosi verso la duchessa le disse con un sorriso provocante:

– Mio bel capitano, sei mio ospite nel mio castello ed ogni tuo desiderio sarà per me un ordine.

– Troppo gentile, signora: cercherò di non abusare troppo della tua ospitalità.

– Anzi: esigo che ne abusi, – rispose Haradja.

– Allora non sarò più io che comando, – disse la duchessa, ridendo.

La nipote del grande ammiraglio parve che pensasse un momento su quella risposta, poi disse pur ella ridendo:

– Hai ragione, capitano. Cominciavo invece io a dare dei comandi. È una pessima abitudine; ma che cosa vuoi? Sono sempre stata abituata a dare degli ordini e mai a riceverne. Sèguimi, la colazione è pronta, perchè odo il muezzin ad intonare la preghiera del mezzodì.

Poi, facendo un gesto colla destra ed alzando impercettibilmente le spalle, aggiunse a mezza voce:

– Il Profeta si accontenterà delle preghiere del suo sacerdote. Dio è grande e può fare a meno delle nostre, almeno per un giorno.

– Che specie di donna è questa? – mormorò la duchessa che l’aveva udita. – Feroce contro i cristiani, perchè non sono mussulmani, e se ne ride della religione del Profeta e d’Allah. È un enigma? Stiamo in guardia, Capitan Tempesta!

Haradja abbandonò i due cavalli a due palafrenieri, che erano usciti dal castello correndo, raccomandò loro la scorta, poi, prendendo familiarmente la duchessa per una mano, attraversò il cortile, salì uno scalone ed entrò in una vasta sala dinanzi alla cui porta vegliavano due arabi avvolti in lunghi mantelli di lana bianca, con grandi fiocchi rossi ai cappucci e colle scimitarre snudate in mano.

– È pronta la colazione? – chiese Haradja, senza nemmeno guardarli in viso.

– Sì, signora, – risposero i due guardiani, inchinandosi fino a terra.

La sala era, come tutte quelle turche, assai elegante, quantunque ammobiliata semplicemente, non essendovi nè grandi tavole nè mobili massicci scolpiti.

Pochi divani di seta fiorata a vivaci colori, molte tende, molti tappeti scintillanti di ricami d’oro e d’argento, delle mensole leggerissime agli angoli e panoplie d’armi disposte artisticamente sulle pareti, appartenenti a tutti i paesi dell’Europa e dell’Asia, essendovi archibugi grossi dalla canna lunghissima senza arabeschi nè intarsi sui calci, archibugi turchi e persiani, superbi per dorature e sculture, scimitarre, jatagan, spade francesi e italiane, pugnali, «misericordie» ecc.

Nel mezzo vi era una tavola elegantemente imbandita, con una tovaglia di seta gialla a grandi fiori bianchi, piatti d’argento meravigliosamente scolpiti e bicchieri e bicchierini e vasi di cristallo di Murano.

– Siedi, mio bel capitano, – disse Haradja, accomodandosi su una poltroncina di broccato antico. – Faremo colazione soli, così potremo discorrere liberamente senz’essere disturbati.

– Non preoccuparti, effendi, della tua scorta. Avrà trattamento scelto, e non potrà lagnarsi dell’ospitalità ricevuta nel castello d’Hussif, avendo dei cuochi abili e dei provveditori che mi portano ciò che vi è di meglio a Costantinopoli e nelle isole dell’Arcipelago.

Ah! Sei giunto anzi in un buon momento. Ti farò assaggiare i pesci miracolosi di Baloukla.

– Di Baloukla! – esclamò la duchessa – Che pesci sono?

– Come! Non conosci quella leggenda?

– Niente affatto, signora.

– Allora te la racconterò mentre li assaggeremo, effendi.

– Che strana creatura, – mormorò la duchessa.

Haradja prese dalla tavola un martelletto d’argento e batté un colpo su una campana d’oro.

Tosto una tenda che nascondeva una porta si alzò e quattro schiavi negri si avanzarono, recando una quantità di piatti d’argento contenenti dei minuscoli pasticcini dolci, dei pasticcini profumati con diverse essenze e che piacciono così tanto alle donne mussulmane.

– Ti stuzzicheranno l’appetito, – disse Haradja alla duchessa. – I famosi pesci giungeranno poi.

La gentildonna ne assaggiò alcuni, lodandone la squisitezza, poi entrarono altri due schiavi portando su un piatto d’oro una dozzina di pesci colle scaglie dorate e che, particolare strano, avevano tutti una grossa macchia nera sul fianco destro.

– Ecco un piatto raro, che sono felice di offrirti, effendi, – disse Haradja. – Credo che nemmeno Selim, il nostro Sultano, ne mangi sovente, essendo i mollah eccessivamente avari nel cederli. Mi costano assai: anzi credo che l’oro pesi molto meno di questi abitanti delle vasche del monastero di Baloukla.

– Un monastero che non conosco, non avendo mai guerreggiato fuori dell’Arabia e dell’Asia Minore.

– Assaggiali prima, – disse Haradja, porgendo alla duchessa un coltello dalla lama dorata.

La gentildonna ne squarciò uno e si mise a mangiare.

– Squisito, signora disse poi. – Nel Mar Rosso non vi sono pesci così eccellenti.

– Sfido io!… I monaci non li vendono a tutti, preferendo mangiarseli loro rispose Haradja, sorridendo. – Ora comprendo perchè li vendano così cari! Tuttavia non rimpiango affatto il denaro speso, trattandosi di offrirti un piatto degno dei Sultani di Costantinopoli. Chi direbbe che questi pesci un giorno sono saltati da soli fuori dalla padella?

– Questi pesci! – esclamò la duchessa.

– I loro avi, – rispose Haradja.

– Che cosa mi racconti, signora?

– Una storia autenticissima, effendi. Si racconta dunque, – riprese Haradja senza interrompere il pasto – che Maometto II, il nostro Grande Sultano, aveva deciso di assalire Costantinopoli in un giorno fissato.

– Il 29 maggio del 1453, – disse la duchessa.

– Conosci molto bene le epoche, mio bel capitano. Saresti anche molto istruito?

– Molto poco, signora. Ti prego di continuare.

– Allora, giacchè sai che cosa è accaduto nei tempi passati, non ignorerai che i greci di Costantino XIV, soprannominato Dracosès e che doveva essere l’ultimo dei Paleologhi, aveva organizzata una poderosa difesa dopo d’aver fatto pubblica penitenza nella chiesa di Santa Sofia.

– Sì, ho udito raccontare ciò dai vecchi incaricati d’istruirmi, – disse la duchessa.

– Le truppe di Maometto, che avevano giurato d’impadronirsi a qualunque costo della vecchia Bisanzio e di formare della chiesa di Santa Sofia la più superba moschea dell’Oriente, ai primi chiarori dell’alba si erano slanciate furiosamente all’assalto, espugnando con valore più che sovrumano le torri, nonostante la difesa accanita che opponevano i guerrieri del Paleologo.

Vedendosi finalmente i greci sopraffatti dalle armi dei nostri impavidi soldati, i quali s’avanzavano senza tregua, noncuranti degli uragani di frecce che venivano scagliate contro di loro, un soldato fu incaricato di recarsi nei conventi, onde avvertire quei sacerdoti della caduta della città.

In uno di quelli, chiamato il convento di Baloukla, stavano cucinando dei pesci d’una razza speciale, molto apprezzati per la delicatezza delle loro carni, che quei monaci allevavano in certe piscine.

 

– Il cuciniere che stava per levare dalla padella colma d’olio bollente alcuni di quelli, udendo la notizia recata dal soldato, alzò le spalle, parendogli impossibile che i mussulmani fossero riusciti ad impadronirsi della città, poi si mise a gridare:

– Se ciò che si dice è vero vorrei vedere questi pesci, già fritti, saltare a terra e nuotare. Diversamente non credo a ciò che ha detto quell’uomo.

Aveva appena pronunciate quelle parole, quando, fra lo stupore generale di tutti i presenti, si videro quei pesci balzare fuori dalla padella, ritornare immediatamente vivi e mettersi a guizzare sul lucido pavimento.

La notizia di quel miracolo non tardò a giungere agli orecchi di Maometto e, credendo di vedere in quello un segno della potenza del Profeta, fece ricercare quei pesci e avendoli ritrovati ancora vivi, li fece mettere in una vasca del suo palazzo.

E questi sarebbero i discendenti di quelli? – chiese la duchessa.

– Sì, effendi: guardali bene e vedrai che tutti hanno una macchia nera al lato sinistro.

Sarebbe come la loro marca di fabbrica.

Credi tu che quel miracolo straordinario sia veramente accaduto?

– Ho i miei dubbi, signora.

– Ed io non ci credo affatto, – disse Haradja che rideva allegramente. – Il Profeta doveva avere ben altro da fare quel giorno, per occuparsi dei pesci del convento di Baloukla. Comunque sia, non negherai che sono veramente eccellenti.

– Squisiti, – rispose la duchessa, che guardava con crescente meraviglia, osservando quella donna che pareva si deridesse perfino del Profeta e che anzi, cosa inaudita in una turca, si divertisse a canzonarlo.

Ai pesci seguirono altri piatti, tutti serviti in tondi d’oro o d’argento, poi delle frutta deliziose dell’Egitto e della Tripolitania, dei dolciumi fortemente profumati, quindi uno schiavo servì del vero moka, che anche la duchessa gustò moltissimo, essendo il caffè piuttosto raro in quell’epoca e solo usato dai grandi signori turchi, costando quasi a peso d’oro.

Haradja non aveva cessato di chiacchierare con molto brio, provocando sovente delle risa, poi quando le chicchere furono portate via, si fece recare un ricchissimo cofanetto d’argento, meravigliosamente cesellato e adorno di pietre preziose di molto valore e levò due piccoli rotoli bianchi offrendone uno alla duchessa.

– Che cosa sono? – chiese questa, osservandoli con curiosità.

– Si fumano, perchè sotto questa leggera carta vi è del tabacco. Non ne hai mai vedute nel tuo paese, effendi?

– No, signora.

– Non fumano in Arabia?

– Sì, alcuni usano la pipa, ma di nascosto, onde non correre il pericolo di farsi tagliare le labbra od il naso. Sai che Selim ha proibito l’uso del tabacco e che ha dato ordini severissimi contro coloro che ne fanno uso.

Haradja proruppe in uno scoppio di risa.

– E tu credi che io abbia paura di Selim? Lui è a Costantinopoli ed io sono qui. Mandi i suoi giudici a condannarmi e vedrà come li tratterò io. Ho dei pali piantati sulla cima delle Torri e quelle genti potrebbero servire benissimo da mostra-vento.

Fuma liberamente, mio bel capitano. Ci troverai piacere ad inebriarti un po’ con questo fumo dolcissimo e profumato.

Accese la sigaretta – le prime che si cominciavano a fabbricare allora – aspirò una boccata di fumo, che poi lasciò sfuggire lentamente attraverso le sue belle labbra, rosse come corallo, appena socchiuse, quindi riprese:

– Selim! Un sultano indolente, che per evitare ogni fatica, si fa condurre in lettiga attraverso i giardini del suo serraglio e che non possiede altra forza, che quella di ordinare continuamente dei massacri per compiacere le belle del suo harem.

Oh! Non somiglia certo a Maometto II, nè a Solimano. Se non avesse due grandi capitani come Mustafà e mio zio Alì, Cipro sarebbe ancora nelle mani dei veneziani e forse le galere della Repubblica minaccerebbero nuovamente Costantinopoli.

– Eppure ho udito raccontare, signora, che anche a te non spiacciono le stragi.

– Io sono una donna, effendi.

– Non ti comprendo rispose la duchessa.

– Nell’Arabia che cosa fanno le tue donne?

– Si occupano a preparare il pranzo ai mariti ed accudire le tende ed i cammelli.

– Sicchè hanno delle distrazioni, – disse Haradja, che continuava a fumare placidamente la sigaretta con studiata lentezza.

– È vero, signora.

– E le donne turche quali distrazioni hanno? Rinchiuse nei loro harem, lontane dai rumori della città, quasi sepolte vive, si stancano ben presto e dei profumi e delle danze delle schiave e dei racconti delle vecchie. Una noia profonda si impadronisce di loro ed un prepotente bisogno di emozioni forti, siano pure crudeli, le prende.

Sentono allora il bisogno di vedere degli esseri umani soffrire, sognano sangue e stragi e diventano cattive.

Io ho passata la mia gioventù nell’harem di mio zio. Potevo diventare diversa dalle altre donne turche?

D’altronde, tutte si rassomigliano, siano turche o cristiane.

– Oh! – fece la duchessa, con un energico gesto di diniego.

– Ascoltami, effendi: una sera una giovine e bellissima cristiana, appena sedicenne, giocava sulle rive del Mediterraneo, assieme ad una delle sue governanti.

Ad un tratto dalle scogliere vicine sbucano, ratti come gazzelle, dei pirati turchi, e sfidando le frecce dei guardiani del vicino castello, trucidano la governante e rapiscono la fanciulla.

Non era una turca quella, bensì una cristiana, anzi una nobile italiana.

La portano, malgrado le sue lagrime e le sue preghiere, a Costantinopoli e la offrono come schiava ai provveditori di Solimano.

Quella bellezza colpisce il Sultano e ne fa la sua sposa favorita.

La fanciulla dimentica la sua patria, la sua religione, suo padre, che forse la piangeva ancora, e non tarda a venire colta da quella noia profonda, che non è una malattia esclusiva delle donne turche.

Quella cristiana diventò un mostro di crudeltà. Allorché s’accorse di essere invidiata pel fasto inaudito che ella amava sfoggiare, non visse che per far eseguire condanne di morte.

Le favorite del suo sposo, padrone e signore ad un tempo, furono da lei fatte strangolare dai lacci di seta dei muti e gettate di notte nel Bosforo: nemmeno le Figlie di Solimano ebbero grazia dinanzi a quella tigre in gonnelle e furono di notte gettate nel Mar Nero, rinchiuse in un sacco di pelle insieme ad un gallo e ad un gatto, onde la loro agonia fosse più tormentosa.

Che più? Fu col sorriso sulle labbra che fece strozzare le figlie maggiori del Sultano, sotto la stessa tenda di lui, trovandosi egli in quell’epoca al campo: e fu pure ridendo che tentò di avvelenare il giovane erede al trono, offrendogli un piatto di frutta candite.

Era quella donna turca o cristiana? Dimmelo, effendi!

– Come si chiamava?

– Kourremsultana.

– Roxelana, vuoi dire.

– Sì, la chiamavano anche così, – disse Haradja.

– Forse l’aria che si respira sul Bosforo l’aveva avvelenata, – rispose la duchessa.

– Può essere vero. Ah!

– Che cosa vuoi, signora?

– Mi ero scordata d’una cosa assai interessante.

– Quale?

– Tu sei l’amico del Leone di Damasco.

– Te lo dissi.

– Aggiungesti anzi che quel formidabile guerriero non ti avrebbe fatto paura, è vero, effendi?

– Mi sembra, – rispose la duchessa che si teneva in guardia, non riuscendo a sapere dove quella strana creatura andasse a finire, nè a che cosa mirasse.

– Vedi, effendi, qualche volta, dopo aver pranzato, mi sento prendere anch’io da quella noia sanguinaria che coglieva così sovente Kourremsultana. Io sono turca, quindi ho più ragione che quella Sultana.

– Non ti comprendo, signora, – disse la duchessa.

– Vorrei vederti, effendi, misurare col capitano Metiub, che si vanta di essere il migliore spadaccino della squadra di mio zio.

– Se lo vuoi, signora, – rispose la duchessa, aggrottando lievemente la fronte.

Poi mormorò fra sè:

– Fa pagare un po’ cari i suoi pranzi, questa donna. Che ci voglia sempre qualche morto per prepararle l’appetito per la cena?

Haradja si era alzata e accostandosi ad una panoplia piena d’armi, disse:

– Guarda, effendi, qui ci sono tutte le specie d’armi che un guerriero come te può desiderare: scimitarre, jatagan, kangiar persiani, lame diritte di Francia e d’Italia e pugnali. Il mio capitano sa adoperarle tutte: quindi non avrai che da scegliere quella che meglio ti conviene.

– Per meglio dimostrare la maestria d’uno spadaccino è più acconcia la spada dalla lama diritta, – disse la duchessa.

– Metiub sa maneggiare la scimitarra come la spada, – disse Haradja, quasi con trascuranza.