Za darmo

Attraverso l’Atlantico in pallone

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Capitolo 9. Trascinati verso l’equatore

Durante quella seconda giornata il Washington continuò a filare verso il nord-est, ma tendendo a prendere una direzione decisiva verso l’est, seguendo il 48° parallelo.

Pareva che la grande corrente d’aria studiata dall’ingegnere che si manteneva fra i 3000 e i 4000 metri, avesse la stabilità costante dei venti alisei, i quali soffiano fra le coste d’Africa e d’America, ma in direzione contraria. Ne avrebbe avuto anche la durata? Ecco quello che l’ingegnere non sapeva: però sperava molto. L’oceano si manteneva sempre deserto. Solamente gli uccelli marini lo solcavano, ma tenendosi sempre assai lontani dal pallone, che forse scambiavano per qualche mostro di nuova specie. Un grande albatros, le cui ali spiegate misuravano due metri e mezzo, spinto dalla curiosità, s’alzò fino agli aerostati, descrivendovi attorno due giri; e l’ingegnere, che temeva il robusto becco di quel volatile, che poteva lacerare con somma facilità la seta, lo mise in fuga con un colpo di rivoltella.

Di quando in quando, dalla superficie dell’oceano si vedevano emergere le teste di voraci pescecani, senza dubbio attirati dall’ombra immensa che l’aerostato proiettava sulle acque. Quei mostri, che misuravano perfino undici metri, mostravano le loro immense bocche irte di formidabili denti e capaci di contenere un uomo intero ripiegato, e mandavano rauchi sospiri, che facevano impallidire quel poltrone di Simone.

Verso le quattro pomeridiane, quando meno ci pensavano, la corrente aerea, che fino allora si era mantenuta rapida, spingendoli innanzi con la velocità di quarantadue miglia all’ora, bruscamente si ruppe, o meglio si divise in due, una che tendeva a rimontare verso il nord, l’altra che scendeva verso il sud-est. Il pallone, dopo essere rimasto alcuni minuti quasi immobile, ritornò indietro, come fosse respinto da un’altra corrente che soffiava dall’est, poi fu preso da quella che scendeva verso le regioni calde e trascinato in quella direzione con una velocità di sessanta miglia all’ora.

“Abbiamo virato di bordo?” chiese O’Donnell all’ingegnere, che aveva la fronte aggrottata.

“Sì,” rispose questi, incrociando le braccia.

“E andiamo…?”

“Per ora scendiamo verso il tropico; ma poi…?”

“Non andremo a cadere sulle coste africane?”

“Chi vi dice che questa corrente non cambi? Se ci porta fino ai venti alisei, noi torneremo verso l’America, poiché soffiano da levante a ponente.”

“È una cosa grave, Mister Kelly.”

“Lo so.”

“Sperate in un cambiamento?”

“Spero.”

“Non si può tentare nulla per cambiare direzione?”

“Che cosa volete tentare se non abbiamo direzione propria, né moto proprio? Dobbiamo lasciarci portare dalle correnti e finire dove esse vorranno.”

“C’è pericolo che ci trascinino per l’Atlantico fino all’esaurimento del nostro gas.”

“È possibile anche questo, O’Donnell. Fortunatamente noi possediamo la scialuppa, e l’oceano non c’inghiottirà!”

“Che pensate di fare ora?”

“Nulla, fuorché di lanciare i miei due piccioni messaggeri.”

“A quale scopo?”

“Ah! Non vi ho ancora detto che alcuni miei amici attendono mie notizie per mettersi in mare e venire, all’uopo, in mio soccorso. Hanno noleggiato un battello a vapore e si tengono pronti a salpare. Apprendendo che noi andiamo verso il sud-est, metteranno la prora in quella direzione per raccoglierci, se fossimo costretti a salvarci nella scialuppa.”

“Avete pensato a tutto, Mister Kelly.”

“Il vento poteva spingermi verso l’Atlantico meridionale o verso il Polo Nord, mettendomi in grave imbarazzo. Un pallone, per quanto ben costruito, non rimane in aria delle settimane, e il Washington poteva vuotarsi prima di toccare terra e io cadere in mezzo all’oceano e forse senza viveri.”

“Giungeranno fino all’Isola Brettone i vostri piccioni?”

“Distiamo in linea retta circa ottocento miglia: possono quindi, se non cadono sotto i colpi degli uccelli da preda, giungervi in meno di tredici o quattordici ore, calcolando la loro velocità media di sessanta miglia all’ora.”

“Non si stancheranno?”

“Hanno fatto delle traversate ben più lunghe i colombi messaggeri.”

“È un mezzo di comunicazione ammirabile, Mister Kelly, che fa molto onore a colui che per primo se ne servì.”

“È un mezzo antichissimo, O’Donnell.”

“Antichissimo? Io lo credevo affatto moderno.”

“Vi basti sapere che si servivano dei piccioni messaggeri gli antichi greci. I ginnasti e i lottatori che prendevano parte ai giochi olimpici, adoperavano i piccioni per avvertire i lontani parenti e amici delle loro vittorie. Si sa che Anacreonte, il quale visse cinquecentotrent’anni prima dell’era volgare, lasciò scritto che ai suoi tempi gli ateniesi si servivano dei piccioni per corrispondere coi paesi lontani. Anche i romani nelle guerre, e specialmente negli assedi, ne fecero uso.”

“In mancanza del telegrafo e delle ferrovie adoperavano le ali dei volatili. Gli antichi non erano poi tanto indietro quanto si dice.”

“Coi piccioni fu anche istituito un servizio regolare di posta; e questo avvenne in Oriente, sotto il califfo Mustafà fra il 1170 e il 1180. Venivano adoperati dei colombi della razza di Bagdad. Ma il merito di aver introdotto un vero servizio postale, sotto la direzione di veri maestri di posta, spetta al potente sultano Nur Eddin fra il 1146 e il 1174. Si dice che quei volatili fossero così pregiati, che si pagavano perfino mille denari. Quel servizio postale durò fino al 1258, cioè fino alla distruzione di Bagdad per opera dei Mongoli. In Egitto invece la posta coi piccioni durò fino al 1500.”

“E in Europa, quando venne introdotta?”

“Nei primi anni di questo secolo, per opera specialmente dei grandi banchieri. Si istituì un servizio postale regolare tra Parigi, Bruxelles e Anversa e un altro tra Londra, Anversa e Colonia. In quest’ultimo tragitto i colombi messaggeri impiegavano tutt’al più sei ore. Tale metodo durò fino all’introduzione delle ferrovie, poi fu dimenticato: si continuò tuttavia ad allevare i piccioni messaggeri, e nella guerra del 1870-71 tra la Francia e la Germania questi volatili resero grandi servigi. Fu col loro mezzo e coi palloni che Parigi, assediata dal nemico, poté corrispondere con le truppe dell’Ovest. Ora quasi tutti gli eserciti europei hanno dei piccioni viaggiatori.”

“E voi sperate di dare notizie ai vostri amici con quelli che avete?”

“Sì, se giungeranno all’isola senza venire presi dagli albatros o da qualche altro uccello di rapina. Affrettiamoci, O’Donnell: ogni minuto che passa ci allontaniamo vieppiù dall’Isola Brettone.”

Aprirono con precauzione la gabbia e trassero i due piccioni, ai quali l’ingegnere legò, sotto le ali, due biglietti accuratamente arrotolati e sui quali aveva già precedentemente scritto un riassunto delle vicende toccate all’aerostato e notato la sua direzione. Ciò fatto, li lasciarono liberi. I due piccioni, che non dovevano trovarsi a loro agio a quell’altezza, s’abbassarono precipitosamente verso la superficie dell’oceano, e giunti a circa seicento metri si misero a descrivere parecchi giri concentrici, come se fossero indecisi sulla direzione che dovevano prendere. Ad un tratto partirono di comune accordo verso il nord-est, con estrema rapidità. Alcune procellarie e alcuni alcioni si precipitarono verso di loro, attratti forse dalla curiosità; ma rimasero subito indietro. Per alcuni istanti, sullo sfondo azzurro cupo dell’oceano, si videro spiccare quei due punti bianchi, che rimpicciolivano rapidamente, poi sparvero verso il lontano orizzonte, confondendosi con le tenebre che cominciavano a calare.

“Buon viaggio, gentili messaggeri!” gridò O’Donnell. “Quanto v’invidio le vostre ali!”

“E anch’io, O’Donnell!” disse l’ingegnere. “Se avessi le loro ali, filerei verso l’Europa, mentre invece chissà dove andranno a terminare.”

“Vediamo, Mister Kelly: quanti giorni credete che si sosterranno i vostri palloni?”

“È impossibile precisarlo: tutto dipende dalle circostanze e dalla impermeabilità più o meno esatta della nostra seta. Se tutto va bene, gettando la nostra zavorra, che ha un peso considerevole, ed adoperando il mio idrogeno compresso nei cilindri, io spero i sorreggermi una dozzina e forse più di giorni.”

“In dodici giorni possiamo percorrere una distanza immensa e toccare qualche terra.”

“Ma crederete che questa corrente d’aria si mantenga regolare? Può spezzarsi, un’altra corrente spingerci verso l’ovest, una terza più tardi verso l’est, un’altra al sud, una quinta al nord, e via di questo passo. Noi possiamo errare innanzi e indietro, a destra e a sinistra, attraverso l’immenso oceano, fino all’esaurimento del nostro gas e senza aver incontrato una terra. Finché la corrente del nord-est si manteneva costante, io speravo di giungere in Europa in pochi giorni: ora siamo in balìa dei venti e nelle mani di Dio.”

“La prospettiva non è bella. Mister Kelly: ma nel caso che la nostra situazione diventasse disperata e che l’aerostato si abbassasse per non più rialzarsi, getteremmo l’ultima riserva. Sessanta chilogrammi sono qualche cosa, per un pallone.”

“Di quale riserva intendete parlare?”

“Della mia, Mister Kelly. Per Bacco! Spiccherò un bel salto e voi risalirete.”

“Siete pazzo, O’Donnell. Non avremo bisogno di ricorrere a un sì terribile espediente. Ci rimane la scialuppa, e quella può portarci tutti, comodamente, alla costa più vicina. Orsù, bando ai tristi pensieri e mettiamoci a tavola.”

Mentre divoravano la cena, l’aerostato ricominciava la discesa. La notte era calata, abbassando bruscamente la temperatura, e l’idrogeno si condensava con pari rapidità. Alle nove il Washington da 3500 metri era disceso a soli 400. Colà una nuova corrente d’aria, che soffiava radendo la superficie dell’oceano, lo avvolse e lo trascinò verso il sud con una velocità di trenta chilometri all’ora. L’ingegnere che temeva di venire trascinato nell’Atlantico meridionale ad incrociare i venti alisei, fece gettare le ancore. Come la prima sera, Simone montò il primo quarto di guardia. Alla mezzanotte lo sostituì O’Donnell, e alle tre del mattino l’ingegnere gli diede il cambio. Il Washington filava lentamente verso il sud, con un leggero dondolamento, e di quando in quando si abbassava di parecchi metri, rimontando quasi subito. I due coni, trascinati, opponevano sempre una forte resistenza.

 

Verso le cinque, mentre l’ingegnere stava accendendo una sigaretta, l’aerostato provò una scossa così brusca da rovesciare alcuni barili e parecchi altri oggetti. Il battello si era inclinato verso prua, e i due immensi fusi si erano abbassati di parecchi metri, risalendo poscia lentamente.

“Che cosa accade?” si chiese il Mister Kelly, al colmo dello stupore. “Se non ci trovassimo in pieno oceano direi che il battello ha urtato, ma contro che cosa?” Guardò attorno e non vide nessun ostacolo. L’atmosfera sola circondava il vascello aereo. Alzò il capo e s’accorse che i due palloni erano immobili; sentiva la brezza mattutina sibilare attraverso i cordami.

“Cosa può averci arrestati?” si domandò, maggiormente stupito. “Che i due coni si siano arenati su qualche banco situato a fior d’acqua?” Stava per spiegare la carta dell’Atlantico settentrionale, al fine di accertarsi se in quella latitudine e longitudine segnalasse qualche scoglio o qualche banco, quando una seconda scossa, più violenta della prima, lo atterrò. L’inclinazione della scialuppa verso prua fu tale, che O’Donnell e il negro Simone rotolarono l’uno addosso all’altro.

“By God! “esclamò l’irlandese, sbarazzandosi precipitosamente della coperta di lana che lo copriva. “Si cade?”

“Massa!…massa! Aiuto!” si mise a strillare Simone, il quale credeva che il pallone precipitasse nell’oceano.

“Il caso è strano!” esclamò l’ingegnere, che si era prontamente rialzato. “Se le mie ancore fossero munite di punte, si potrebbe supporre che qualche pescecane avesse addentato qualche braccio; ma sono coni lisci.”

“Un pescecane?” chiese O’Donnell. “Siamo presi a rimorchio, Mister Kelly?”

“No, poiché siamo perfettamente immobili.”

“Che cosa accade dunque?”

“Ecco quello che cerco di spiegare, ma invano, O’Donnell.”

“Diamine! che qualcuno si sia aggrappato ai coni?”

“Chi mai?”

“Non vedete alcuna nave?”

“No, non vedo che l’oceano.”

Un’altra scossa fece inclinare i due aerostati verso la prua. Non vi era più da dubitare. Qualche mostro aggrappatosi al cono che era stato calato a prora del battello cercava di trascinare con sé il Washington, il quale, però, data la sua forza eccezionale, non cedeva, tornando sempre al precedente livello. Quelle scosse potevano causare qualche grave danno: o guastare la seta dei due fusi, o spezzare le funi, o disarticolare la scialuppa. I tre aeronauti afferrarono la guide-rope di prua e operarono una energica trazione, ma il mostro che imprimeva all’aerostato quelle scosse doveva essere estremamente pesante e dotato di una forza eccezionale, poiché non abbandonò il cono.

“Ma in che modo è rimasto aggrappato?” chiese O Domiell. “Che qualche pescecane di gran mole lo abbia inghiottito?”

“Un pescecane non può avere tale gola da assorbire un cono che contiene duecento trenta litri.”

“Sarà una balena.”

“Nemmeno, poiché la balena ha il canale tanto stretto da non poter inghiottire dei pesci più grossi del nostro braccio.”

“Sarà un capodoglio. So che quei cetacei hanno delle gole enormi.”

“A quest’ora ci avrebbe trascinati sottacqua o avrebbe troncato la fune.”

“Ma quale mostro volete che sia?”

“Non lo so.”

“Che cosa decidete di fare? Tagliare la corda e abbandonare l’ancora?”

“Sarebbe una grande imprudenza perdere uno dei nostri coni. Manderò Simone a vedere.”

“Lui!… quel pauroso!… Con il vostro permesso, andrò a vedere io, Mister Kelly.”

“Ci sono trecentocinquanta metri da discendere, e voi non potete tentare una così pericolosa impresa, O’Donnell. Simone è agile come una scimmia delle foreste africane e può toccare il cono senza stancarsi.”

“Ma come salirà poi?”

“Lo solleveremo noi fino alla navicella, ritirando la fune. Orsù, Simone, prendi una rivoltella e và a vedere che cosa accade laggiù.”

Capitolo 10. Un polipo gigante

Contrariamente alle previsioni di O’Donnell, il negro non si fece ripetere due volte l’ordine ricevuto dal padrone. Una paura ben più tremenda, quella cioè di veder precipitare il pallone nell’oceano, aveva soffocato l’altra, oppure quel ragazzo, che finora non aveva dato prove di coraggio, almeno dinanzi all’irlandese, possedeva dell’audacia nei momenti estremi?

Comunque sia, il negro accettò senza esitare la proposta di andare a liberare l’ancora, lasciandosi scivolare per quella fune, che si allungava per 350 metri. Si passò nella cintola la rivoltella che l’ingegnere gli porgeva, strinse con ambo le mani la guide-rope, incrociò le gambe e cominciò quella pericolosa discesa, che solo un africano o un marinaio poteva tentare con buona riuscita.

“Bada a tenerti stretto e fermati a riposare sui nodi che incontrerai,” gli disse l’ingegnere.

“Sì, massa” rispose il negro, con voce però malferma.

“Se scorgi qualche pericolo, fermati sull’ultimo nodo e carica la rivoltella”

“Sì,” rispose ancora Simone.

O’Donnell e l’ingegnere, curvi sulla prua, in preda a una viva ansietà, seguivano con gli occhi l’africano; il quale continuava a discendere senza però guardare all’intorno, forse per tema di venir preso dalle vertigini. Di quando in quando il mostro, che si teneva ostinatamente attaccato al cono, imprimeva all’aerostato delle brusche scosse, obbligando il negro ad arrestarsi e gli altri due a tenersi aggrappati alle funi di sostegno per non venire sbalzati fuori dalla scialuppa. Invano l’ingegnere aguzzava gli occhi per riconoscere a quale specie il mostro appartenesse. La distanza era troppo grande, e poi esso si manteneva sotto l’acqua che, ancora cupa a causa della semi-oscurità, nulla lasciava trasparire. Si vedeva però attorno al cono di prua, a spumeggiare e ad alzarsi, come se quel misterioso abitante dell’oceano si dibattesse e facesse degli sforzi prodigiosi per attirare a sé l’aerostato.

Simone intanto continuava a lasciarsi scivolare lungo le guide-ropes, fermandosi solo pochi istanti ogni volta che sotto i piedi incontrava un nodo.

“Vedi nulla?” chiedeva allora l’ingegnere.

Il negro non rispose. Aggrappato convulsamente alla fune, guardava sotto di sé senza muoversi, né aprire le labbra. Cercava di distinguere il mostro, o la paura l’aveva paralizzato?

“Simone!” gridò l’ingegnere.

“Aiu…to…, mas…sa!” si udì gridare.

La voce del negro era strozzata e il suo accento era improntato del più profondo terrore. Che cosa aveva veduto? Senza dubbio un mostro spaventevole, perché il disgraziato pareva inebetito.

Ad un tratto si vide l’acqua agitarsi burrascosamente attorno alla fune e si videro sette o otto braccia smisurate allungarsi verso il negro, il quale emetteva gemiti strazianti.

“Scarica la rivoltella!” tuonò l’ingegnere, che era diventato pallido.

Il negro non era in grado di muoversi: la paura lo aveva paralizzato, e impiegava le sue ultime forze per stringere la fune tra le mani e le ginocchia.

“A me,” disse O’Donnell.

Il coraggioso irlandese, armatosi della seconda rivoltella e di una scure, afferrò la guide-rope, superò il bordo del battello e si spinse fuori; ma l’ingegnere lo trattenne violentemente.

“Disgraziato, che cosa fate?” gridò.

“Vado a soccorrerlo, Mister Kelly,” rispose l’irlandese.

“E come salirete poi?”

“È affar mio.” E si lasciò andare con velocità vertiginosa, dopo aver passato il proprio berretto attorno alla fune per non rovinarsi le mani. In dieci secondi egli si trovò addosso al negro, il quale gettava urla strozzate, strabuzzando gli occhi, come se fosse improvvisamente impazzito.

“Tieniti fermo,” gli disse O’Donnell “Bada che se cadi, sei perduto.” Lo circondò con un braccio per sorreggerlo, poi guardò sotto di sé. Solo allora comprese che la paura orribile che aveva invaso il povero giovanotto, non era senza motivi.

Là, sommerso a metà, un mostro enorme di colore biancastro, fusiforme, con una testa arrotondata, munita d’una specie di becco somigliante a quello dei pappagalli e armato di otto braccia lunghe almeno bei metri e coronate di ventose, lo fissava con due grandi occhi, piatti e dai glauchi colori.

Quel mostro, che doveva pesare due tonnellate, stringeva con due braccia il cono che serviva da ancora e con le altre cercava di afferrare il negro. O’Donnell, quantunque si sentisse come affascinato da quei grandi e orribili occhi e un fremito fortissimo lo avesse preso, non abbandonò il negro, anzi lo strinse con suprema energia, poi con la mano sinistra, rimastagli libera, scaricò uno dopo l’altro i sei colpi della rivoltella nella bocca del mostro.

Il polipo gigante lasciò andare il cono e scaricò sui due disgraziati aeronauti un torrente di liquido nero, che puzzava di muschio, inondandoli dalla testa ai piedi.

“Puah!” fece l’irlandese, scuotendosi di dosso quella specie d’inchiostro.

Il negro invece emise un urlo così acuto, da far temere che stesse per abbandonare la fune.

“Ohè, saldo in gambe!” gridò O’Donnell. “Vuoi cadere fra le braccia del polipo? Mille bombe…! La faccenda diventa seria!” Guardò giù e mandò un lungo sospiro di sollievo, non scorgendo più l’orribile mostro. Senza dubbio era stato ferito o ucciso dalle sei pallottole e si era inabissato negli immensi baratri dell’oceano.

“Era tempo!” mormorò O’Donnell. “Se avesse continuato ancora un po’ a scuotere la corda, ci avrebbe fatto fare uri bel capitombolo.”

“O’Donnell!” gridò l’ingegnere, che dall’alto della navicella aveva seguito con angoscia inesprimibile quella scena.

“Presente, Mister Kelly” rispose l’irlandese, che aveva sentito riacquistato il suo solito buon umore.

“L’ancora è libera?”

“Sì.”

“Siete feriti?”

“No, ringraziando Iddio; ma quel dannato mostro ci ha profumati con una certa materia che si direbbe inchiostro, o qualcosa di simile. I caimani non puzzerebbero più di noi, ve l’assicuro.”

“Era un cefalopodo?”

“Lo credo.”

“L’avevo sospettato. Fate salire Simone, poi tireremo su voi.”

“Ma se è mezzo morto di paura! Temo anzi di vederlo svenire da un momento all’altro.”

Ed era proprio vero. Pareva che il negro fosse diventato ebete per lo spavento provato. La sua pelle era grigia, cioè pallidissimo; dalle sue labbra uscivano parole tronche e senza senso, e i suoi occhi, stravolti, parevano fissi su di un punto immaginario e si illuminavano di quando in quando di certi lampi, simili a quelli che animano gli occhi dei pazzi.

“Ehi, Simone!” disse O’Donnell. “Su, per Bacco! Coraggio! Vuoi rimanere qui fino a domani?”

Il negro rispose con uno scroscio di risa; ma era uno di quegli scrosci che invece di mettere allegri fanno male.

“Che sia diventato pazzo per la paura?” si chiese l’irlandese, impallidendo. “Non ci mancherebbe che questo per peggiorare la nostra situazione.”

“Ebbene?” chiese l’ingegnere. “Affrettatevi, che l’idrogeno comincia a dilatarsi.”

“Mister Kelly,” disse O’Donnell, “io temo che il vostro servo deliri. Ride come un negro ubriaco o pazzo, e se l’abbandono sono certo che cada in mare.”

“Provate a scuoterlo.”

“È inutile: è un uomo mezzo morto. Mandatemi una corda con cui legarlo per bene, e poi cercherò di risalire io.”

“Ma vi sono trecentocinquanta metri.”

“Riposando sui nodi, spero di raggiungervi. Affrettatevi, che le mie forze se ne vanno.”

“Attento alla testa!” L’ingegnere circondò le guide-ropes di una fune e la lasciò scorrere: O’Donnell fu lesto ad afferrarla prima che gli precipitasse sulla testa.

“Non muoverti, Simone.” disse.

Gli passò la corda sotto le ascelle più volte, poi attorno alle gambe, legandolo solidamente alla guide-rope. Quando fu certo di averlo assicurato in modo da impedirgli di cadere, anche se uno svenimento lo avesse colto, stringendo le mani e le ginocchia attorno alla fune, si mise a salire.

La via era lunga; ma l’irlandese possedeva dei muscoli di ferro e un’agilità pari a quella del negro. Si riposò alcuni minuti sul primo nodo, poi raggiunse il secondo, che era lontano quindici metri, poi il terzo, quindi gli altri, impiegando quasi un’ora.

L’ingegnere, appena lo vide sotto la navicella, lo afferrò tra le braccia e, facendo uno sforzo erculeo, lo trasse a bordo.

 

“Auff!” esclamò O’Donnell. lasciandosi cadere di peso su una cassa. “Non no posso più, Mister Kelly. Se vi fossero stati altri venti metri, sarei caduto in fondo all’oceano.”

“Un marinaio non avrebbe fatto di più, mio bravo amico,” disse l’ingegnere, porgendogli una bottiglia di whisky.

“Grazie, Mister Kelly.” rispose l’irlandese dopo aver ingollato parecchi sorsi.

“E Simone?”

“È sempre in fondo alla corda. Non si muoverà: l’ho legato come un salame. Temo che la paura gli abbia sconvolto il cervello.”

“Lo credete, O’Donnell?” chiose l’ingegnere, con emozione.

“Temo: mi guardava in modo da farmi venire i brividi.”

“Affrettiamoci a issarlo, allora…Chi avrebbe sospettato che quel negro fosse così pauroso? Eppure mi aveva dato qualche prova di coraggio.”

“Questo viaggio lo ha scombussolato.”

“Tuttavia, quando gli feci la proposta di seguirmi, egli accettò con grande gioia. Mi spiacerebbe assai avergli causato una disgrazia simile.”

“Sarà forse una esaltazione momentanea, causata dalla paura. Vi assicuro però che quel mostro faceva venire la pelle d’oca anche a me, per non dire che mi gelava il sangue. Per Giove e Saturno! Che occhi! Non li dimenticherò mai, dovessi vivere mille anni! Orsù, issiamo quel povero Simone.”