Za darmo

Attraverso l’Atlantico in pallone

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Capitolo 22. La zattera dei naufraghi

Dormivano da due ore quando vennero bruscamente svegliati da urla acute, da spari e da alcune scosse violentissime che facevano sobbalzare l’imbarcazione, rovesciando i barili e le casse.

Sorpresi, non sapendo a che cosa attribuire quelle vociferazioni, che diventavano sempre più potenti, e quei colpi d’arma da fuoco, balzarono in piedi, precipitandosi verso i bordi della navicella.

Alle prime luci dell’alba, scorsero sotto di loro una grande massa oscura, che ancora non si poteva ben distinguere e sulla quale vedevano dimenarsi come ossessi parecchie forme umane.

“Una nave?” chiese O’Donnell.

“Ma no” rispose l’ingegnere. “Non vedo alcun albero.”

“La zattera! “esclamò il mozzo, impallidendo e rabbrividendo.

“Odo la voce di Mac-Canthy e di Niell!”

“Per mille fulmini!” urlò una voce ruvida. “Scendete, o facciamo fuoco!”

“Chi siete?” gridò l’ingegnere, facendo portavoce con le mani.

“Naufraghi!” urlarono dieci o dodici voci.

“E che cosa volete da noi?”

“Eh, per mille code di Belzebù!” tuonò una voce rauca.

“Qui si crepa di fame!”

“State tranquilli” disse l’ingegnere. “Appena farà un po’ chiaro cercheremo di soccorrervi.”

“Ah! Aspettate della luce, signor passeggero dell’aria!” ghignò quella voce. “Le mie budella non sono in grado di aspettare i vostri comodi, e nemmeno quelle dei miei compagni.”

“Gentile come un orso l’amico.” disse O’Donnell.

“È Mac-Canthy il più brutale dell’equipaggio, Mister O’Donnell” disse il mozzo. “Guardatevi da lui.”

“Dunque,” riprese il marinaio “Corpo di un vascello sventrato! Scendete, sì o no?”

“Ehi, quell’uomo!” gridò l’ingegnere “Ci prendete per dei negri, o per i vostri provveditori?”

“Negri o bianchi, noi ce ne infischiamo, e vi dico che giacché vi abbiamo incontrati, ci darete da mangiare. Non siamo cani noi, signor passeggero dell’aria.”

“Ed io vi dico che, se continuate su questo tono, taglio le funi e vi lascio senza una briciola di pane” ribatté Mister Kelly.

Quella minaccia produsse un grande effetto sui naufraghi e una furiosa reazione contro il ruvido marinaio.

“Chiudi il becco, corvo malaugurato!”gridarono alcuni.

“Abbasso Mac-Canthy! Signor aeronauta, abbiate compassione di noi che moriamo di fame! Non abbandonateci in nome di Dio!”

“Vi prometto di soccorrervi, ma lasciate andare le funi, o guasterete il mio pallone.”

“No, non ci sfuggirete, signore urlarono i naufraghi, con accento minaccioso.”

“Ve lo prometto, parola di yankee.”

“Siete un compatriota?… Viva l’America!”

L’alba si avvicinava rapidamente, facendo impallidire gli astri. Fra pochi minuti il sole doveva spuntare e versare i suoi ardenti raggi sull’oceano.

La zattera, poiché era proprio quella che il mozzo aveva abbandonata sei giorni prima, era ormai visibile.

Era un ammasso informe di legnami, di travi, di pennoni, di pezzi di fasciame, di tavole legate con cordami e catene, e sormontato da un troncone d’alberetto, da cui pendeva una vela stracciata.

Undici uomini montavano quella zattera, undici miserabili, coi volti bestiali, le membra ischeletrite dai lunghi digiuni, con le barbe arruffate e coperti di stracci Alcuni impugnavano delle scuri e due tenevano dei fucili; pareva che minacciassero il pallone, decisi a rovinarlo con una scarica, piuttosto di lasciarlo andare.

A prua di quello strano galleggiante, gli aeronauti scorsero, non senza un fremito d’orrore, gli avanzi di due scheletri umani gettati dietro a due barili sfondati. Non ci voleva molto a comprendere che quegli sciagurati, rosi dalla fame, si erano pasciuti delle carni di quelle due vittime.

“Orrore!” esclamò O’Donnell. “Questa è una seconda edizione del naufragio della Medusa…”

“La fame non discute, O’Donnell” disse l’ingegnere. “Orsù, cerchiamo di soccorrerli nel limite delle nostre forze.”

“Ci lasceranno liberi poi?”

“Taglieremo le funi.’“

“E le nostre àncore?”

“Piuttosto di farmi trascinare sulla zattera, preferisco sacrificarle.”

“Temo che quest’incontro ci porti sfortuna, Mister Kelly.”

L’ingegnere non rispose. Esaminò rapidamente la sua dispensa, scelse parecchie scatole di carne conservata, ammucchiò in una cassa qualche decina di chilogrammi di biscotti, vi unì dello zucchero e delle scatole di tonno.

“Caliamo questi viveri” disse. “Mettendosi a razione, quegli uomini possono vivere qualche giorno e guadagnare le Canarie, che non sono lontane.”

“Ma non abbiamo funi per calare questa cassa” disse O’Donnell.

“La faremo scorrere lungo una fune di un’ancora. Aiutatemi, amici.”

I naufraghi, comprendendo che il soccorso stava per giungere, avevano cessato le loro grida minacciose, ma non abbandonarono i due coni, che avevano tratti presso la zattera per impedire la fuga dell’aerostato.

Coi visi in aria, gli occhi fissi, non perdevano di vista una mossa degli aeronauti.

L’ingegnere e O’Donnell, legata la cassa attorno alla fune dell’ancora poppiera, la lasciarono andare gridando: “Attenti alle teste!”

La cassa filò lungo la fune e piombò sopra il cono. I naufraghi vi si precipitarono sopra urtandosi e respingendosi per essere i primi a metter le mani su quei viveri, la tirarono a bordo e con pochi colpi di scure la sfondarono. Ad un tratto un urlo di furore scoppiò fra quei disgraziati.

“E l’acqua!… Noi vogliamo dell’acqua!” urlarono, tenendo le mani raggrinzite verso gli aeronauti.

“Ne abbiamo appena per noi” disse l’ingegnere.

“Dateci la vostra acqua, canaglie!” tuonò Mac-Canthy.

“Ti schiaccio nel cranio una palla, brigante!” urlò O’Donnell. “La canaglia sarai tu!”

“A me amici!” gridò il marinaio. “Tiriamoli giù!”

“Sì, giù, giù, o dateci la vostra acqua!” urlarono i marinai furiosi.

L’ingegnere raccolse il winchester e lo armò risolutamente, mentre O’Donnell impugnava una scure, pronto a tagliare le funi.

“Il primo che tocca le àncore lo uccido come un cane!” tuonò Mister Kelly con tono minaccioso.

I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l’aerostato di parecchi metri.

“Tagliate, O’Donnell!” gridò l’ingegnere.

L’irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l’aerostato, il quale fece un balzo in aria.

Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco.

Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l’altra non fu udita.

O’Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l’ingegnere lo trattenne. “È inutile” disse. “Lasciateli: la fame e la sete non ragionano.”

“Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy.”

“È lui che voleva mangiarmi’’’’ disse il mozzo.

“Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter” disse O’Donnell.

Il Washington intanto s’innalzava rapidamente, alleggerito com’era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l’aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: “Scendi, cane di un mozzo!”

Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s’armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell’inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista.

“Che l’oceano v’inghiotta, canaglie!” esclamò O’Donnell che era ancora esasperato. “Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato.”

“Le privazioni li hanno resi feroci, O’Donnell disse l’ingegnere. “Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente.”

“Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo.”

“Questo é vero, O’Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti.”

“Perdita grave e …” Si era arrestato col viso in aria, fiutando l’atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione.

“Mister Kelly” disse con voce alterata “sentite odore di gas.”

“Sì, sì” disse l’ingegnere.

“Che una valvola si sia aperta o che… ?”

“Una valvola?… È impossibile. O’Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni.”

“Una palla di quelle canaglie, forse?”

Kelly, che non era meno agitato dell’irlandese, salì sull’asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento.

In alto, udì dei leggeri scoppiettii.

“Infami!” esclamò. “E io li ho soccorsi!”

Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O’Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina.

“Ebbene?” chiese l’irlandese con ansietà.

“L’idrogeno fugge” rispose l’ingegnere.

“Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?”

“Sì e forse tutti e due.”

“Sono ferite gravi?”

“Sì, O’Donnell, perché fra poco quei fori s’ingrandiranno, e noi cadremo sull’oceano.”

“Se provassimo a turarli? Non v’è qualche mezzo?”

 

“Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?”

“Io, Mister Kelly.”

“No, Mister O’Donnell” disse il giovane Walter, “è affar mio.”

“Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?” chiese l’ingegnere .

“Sono un mozzo, Mister Kelly.”

“Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri.”

“Non avrò paura” rispose il ragazzo con voce ferma.

“Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell’oceano” disse O’Donnell.

“Lascia che vada io.”

“Voi siete troppo pesante, O’Donnell” disse l’ingegnere “e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto.”

“Grazie, Mister Kelly” rispose il ragazzo.

L’ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: “Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge.”

Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s’arrampicò coraggiosamente sull’asta sostenente la scialuppa.

“Hai paura?” gli chiesero O’Donnell e l’ingegnere. “Se ti coglie un principio di vertigine, scendi.”

“Il vuoto non mi spaventa” rispose il ragazzo con voce ferma.

S’aggrappò alla rete e s’innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla.

Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l’esterno, ma essendo solidamente legato all’altro non si rovesciò.

“Ci sei?” chiese l’ingegnere, che non scorgeva più il mozzo.

“Sì, Mister Kelly” rispose Walter.

“È un buco o uno strappo?”

“E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull’altro fuso.”

“Puoi turare le ferite?”

“Lo spero, Mister Kelly.”

Il mozzo si mise subito all’opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l’ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l’operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo.

Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l’apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l’ingegnere e O’Donnell preparavano i cilindri contenenti l’idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi.

Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s’abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora.

L’ingegnere che vedeva avvicinarsi l’oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri.

Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l’operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell’altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente.

“Hai finito?” gli chiese l’ingegnere.

“Sì, Mister Kelly.”

“Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso.”

“Resisteranno le cuciture?” cinese O’Donnell.

“Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas” disse l’ingegnere, “ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora.

“E poi?… il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana.”’

L’ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

Capitolo 23. Gli ultimi sforzi del Washington

La situazione degli aeronauti del Washington diventava di momento in momento più grave, e la riuscita della grandiosa traversata stava per naufragare, quando già stavano per avvistare al costa del continente africano.

Pareva proprio che la fatalità perseguitasse quegli audaci figli dell’aria. Afferrati dalla grande corrente degli alisei, che li trascinava verso il sud e che più tardi doveva respingerli nell’Atlantico centrale, appena toccato il 30° parallelo, potevano considerarsi come perduti.

Il Washington, già infiacchito dalla continua perdita di gas, che ora diventava più rapida a causa di quelle disgraziate palle, non doveva sorreggersi ancora molto. I suoi giorni, forse le sue ore di vita erano contate. Fra breve, consumata la poca zavorra che ancora restava e i pochi metri cubi d’idrogeno che possedevano nei cilindri, gli aeronauti sarebbero caduti in mezzo all’immenso Atlantico per non più sollevarsi. È bensì vero che possedevano la scialuppa, ma con quella scarsa provvista d’acqua si preparavano per loro tristi giorni.

E la corrente lungi dal calmarsi, aumentava rapidamente la corsa, come se fosse ansiosa di ricacciarli lontano da quelle coste da loro tanto sospirate e delle quali avevano scorto le prime isole! Quale ironia del destino!..

Il Washington filava alla velocità di sessantadue chilometri all’ora, mantenendosi ad una distanza di circa quattrocento chilometri dal continente africano. Alle otto aveva già raggiunto il 20° parallelo e correva in direzione delle Isole del Capo Verde, che dovevano fra breve comparire sull’orizzonte meridionale. Alle dieci l’ingegnere, che interrogava ansiosamente la superficie dell’oceano, le segnalò verso il sud-est. Apparivano come punti nebbiosi ma ingrandivano rapidamente, prendendo maggior consistenza.

Quelle isole si trovano a circa 500 chilometri dalla costa africana; esse sono quattordici ed hanno complessivamente una superfìcie di 43.385 chilometri quadrati e una popolazione di 70.000 anime, per la maggior parte negri. Sono isole di origine vulcanica, d’aspetto montuoso, coperte di boscaglie, il clima è caldissimo e poco salubre. Malgrado ciò, producono riso, granturco, banane, agrumi, poponi e anche dell’uva, che sotto quel clima bruciante matura due volte all’anno. La loro principale ricchezza consiste però nel sale, che gli abitanti ricavano in grande copia mediante l’evaporazione.

Se il Washington si fosse trovato sul filo delle isole, l’ingegnere si sarebbe affrettato a scendere piuttosto di lasciarsi trasportare in mezzo all’Atlantico, ma il vento lo spingeva fra esse e la costa africana, mantenendolo ad una distanza di oltre quaranta chilometri da Bonavista, che è l’isola più avanzata verso l’est.

Alle nove gli aeronauti distinguevano nettamente il monte Fogo, che s’innalza per 2982 metri sull’isola omonima, e con l’aiuto dei cannocchiali scorsero anche parecchi punti biancastri agitarsi sulle onde dell’oceano e dirigersi verso di loro.

“Che quegli abitanti ci abbiano visti?” disse O’Donnell.

“Lo credo” rispose l’ingegnere. “L’atmosfera è pura e il nostro Washington si può distinguere ad una grande distanza.”

“Che disgrazia il non poterci fermare!” disse O’Donnell, sospirando. “Saremmo certi di venire raccolti.”

“Non possediamo più le àncore, mio povero amico.”

“Dannati naufraghi! Ci è costato caro, ben caro l’averli aiutati!”

“E vero, O’Donnell, ma inutili sono i rimpianti.”

“Credete che quei naufraghi riescano a salvarsi?”

“Lo credo, avendoli incontrati a breve distanza dalle Canarie; e poi questo tratto d’oceano è frequentato dalle navi a vela che scendono fino alle isole del Capo Verde per approfittare degli alisei.”

“Potessimo incontrarne una anche noi!”

“Speriamo!”

“Continuando a scendere in questa direzione, non troveremo più alcuna terra?”

“Nessuna. Ma la nostra direzione non tarderà a cambiare, O’Donnell, e verremo spinti verso l’ovest.”

“Pure, Mister Kelly, mi sembra che il vento ci spinga invece verso l’est. Guardate il monte dell’isola Fogo, che pare si allontani sulla nostra destra.”

“By God!” esclamò l’ingegnere. “È vero.”

“Che qualche nuova corrente ci abbia presi?”

“Non lo credo, ma è un fatto, però, che noi ci avviciniamo alla costa africana, descrivendo una linea obliqua. Che l’aliseo vada ad urtare contro il Capo Verde, prima di piegare verso l’occidente? Sarebbe una bella fortuna, amico mio.”

“Se giungeremo in tempo ad avvistarla.”

“Perché?”

“Perché cadiamo, e rapidamente Mister Kelly.”

“Ancora!” esclamò l’ingegnere, con accento di dolore. Si chinò sul bordo della navicella e fece un gesto di rabbia. “Miserabili!” esclamò. “Quei naufraghi ci hanno rovinati.”

“Che si siano riaperti gli strappi?”

“Non credo, ma il gas sfugge attraverso le cuciture.”

“Volete, signore, che vada a spalmarle di vernice?” chiese il mozzo.

“È inutile, Walter: fra mezz’ora saremmo da capo. Rinforziamo i fusi col gas che ci rimane.”

“Quanta zavorra ci rimane da gettare?”

“Circa duecento chilogrammi. Aiutatemi, amici.”

“Una parola, Mister Kelly. Se si introducesse il gas nei palloncini interni, non si otterrebbe un effetto migliore e più durevole?”

“Avete ragione, O’Donnell. L’idea è buona e non so come mi sia sfuggita. Affrettiamoci, che l’oceano ci è vicino.”

Il Washington cadeva. Il suo gas, dopo tanti giorni. perdeva rapidamente la sua forza ascensionale, come un uomo che un lungo digiuno sfinisce.

Scendeva di minuto in minuto, descrivendo delle larghe oscillazioni e virando frequente di bordo.

Gli aeronauti che udivano sempre più distinti i muggiti delle onde, diedero prontamente mano alla manovra, che doveva essere l’ultima, perché dopo non doveva rimanere nella navicella più di un metro cubo d’idrogeno.

L’ingegnere, aiutato dai suoi amici, aprì le due manichette dei palloncini e lasciò sfuggire l’aria, provocando una nuova e più rapida caduta dei fusi e introdusse, invece di quella, l’idrogeno che ancora possedeva.

La forza ascensionale del Washington si manifestò bruscamente, come per incanto. L’aerostato, che si trovava già a soli venticinque o trenta metri dall’oceano, fece un balzo immenso nell’aria elevandosi a duemilacinquecento. Il lancio in mare della pompa premente, che non era più di nessuna utilità, ora che i palloncini interni non potevano più ricevere l’aria, e di alcune casse vuote, lo portò a 3000 metri.

Quel salto straordinario ebbe il vantaggio di far trovare una nuova corrente aerea, che spingeva diagonalmente, sopra gli alisei, in direzione della costa africana. La speranza, per un momento perduta, cominciò a rinascere nei cuori degli aeronauti.

La velocità di quella corrente era molto considerevole, più forte di quella che spirava anteriormente, poiché toccava i settanta chilometri all’ora.

Essendo lontani circa quattrocento chilometri dalla costa africana, potevano giungervi prima delle quattro pomeridiane.

“Come dormirei volentieri sotto un frondoso albero!” esclamò O’Donnell. “E forse questa sera potrò distendere le mie gambe sopra un soffice e fresco tappeto d’erba!”

“Se il vento non cambia direzione, noi ceneremo in Africa, O’Donnell” aggiunse l’ingegnere.

“E accenderemo un bel fuoco!”

“E fors’anche vi metteremo sopra un arrosto. La selvaggina abbonda in Africa”

“Mangerei una bistecca di leone, Mister Kelly. Ma dove cadremo?”

“Nella Senegambia, se manteniamo la rotta attuale.”

“C’è pericolo di venire massacrati dai negri?”

“No: quei negri sono sudditi francesi e non ardiranno toccarci.”

“Hurrah per la Senegambia, dunque!”

“Non ci siamo ancora.”

“Ci giungeremo, Mister Kelly: il cuore me lo dice.”

“Ma il cuore sovente s’inganna, O’Donnell.”

Intanto il Washington continuava la sua corsa verso la costa africana, mantenendo la diagonale che pareva dovesse passare nei pressi del Capo Verde. Per quanto il gas continuasse a sfuggire attraverso le cuciture, pure si manteneva a quella grande altezza mercé i due palloncini, che serbavano la forza ascensionale sempre a quel livello.

Alle due, O’Donnell, che puntava dì frequente il cannocchiale verso l’est, volendo scoprire la costa africana, segnalò delle macchie grigiastre che apparivano sulla superfìcie dell’oceano e verso il nord a una grande distanza.

“L’Africa!” esclamò con voce alterata dalla commozione.

 

“Di già?” chiese l’ingegnere.

Prese il cannocchiale che O’Donnell gli porgeva e guardò attentamente nella direzione indicata.

“Sì,” diss’egli “laggiù si stende il continente africano. Quella striscia che si vede al nord dev’essere il Capo Verde.”

“E quelle isole?” chiese O’Donnell. “Sono quelle che si stendono dinanzi alla foce del Gambia: Santa Maria e Sanguonar, ne sono certo.”

“Dunque noi ci troviamo ora?…”

“A 13° 30’ di latitudine e a 19° di longitudine.”

“Troveremo dei bianchi laggiù?”

“Sì, e numerosi. I francesi hanno parecchie fattorie sulle isole degli Elefanti, degli Ippopotami degli Uccelli e di Saffo, e una importantissima ad Albreda; e ne hanno pure gl’inglesi lungo il fiume, e posseggono una piccola colonia, quella di Bathurst, sull’isola di Santa Maria.”

“Mi spiacerebbe cadere nelle loro mani, Mister Kelly. Voi sapete che sono ricercato dalla polizia.”

“Cadremo su territorio francese o sulle terra del piccolo reame di Bar. Ecco la foce del fiume, chee comincia a disegnarsi nettamente. Fra venti minuti ci libreremo sopra le isole dell’estuario.”

“No, Mister Kelly.”

“Perché?”

“Mi pare che il vento abbia fatto un salto, come dicono i marinai.”

“Ma ci spinge sempre all’est.”

“No, Mister Kelly” disse O’Donnell con voce soffocata. “Pieghiamo verso il sud.”