Za darmo

Attraverso l’Atlantico in pallone

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“Spegnete la candela,” disse l’ingegnere.

O’Donnell obbedì, poi calò le due àncore a cono per rallentare la discesa e frenare il pallone. Il Washington si abbassava con un largo dondolio, descrivendo di quando in quando dei giri concentrici.

“Basta,” disse l’ingegnere, lasciando andare le due funicelle.

Le due valvole si chiusero, ma l’aerostato continuò ad abbassarsi con notevole rapidità. I due coni e la guide-rope sommersero e tosto rallentarono la sua marcia discendente, mantenendolo a sessanta metri dalla superfìcie dell’oceano.

“Vedete nulla?” chiese O’Donnell all’ingegnere che aveva puntato un canocchiale da notte.

“Sì, mi pare di scorgere una piccola striscia nera scivolare sull’oceano.”

“È lontana?”

“Tre o quattro chilometri.”

“Allora fra poco il naufrago sarà qui. Come mai un ragazzo si trova perduto in mezzo all’Atlantico e solo?”

“Lo sapremo più tardi. Udite lo sbattere dei remi?”

“Mi pare di udire un lontano rumore. Ci vedrà quel mozzo ?”

“Accendete una torcia: gli servirà da faro.”

La sottile striscia nera avanzava sempre verso il pallone e si distingueva ormai senza bisogno di cannocchiale e si udiva anche nettamente lo sbattere dei remi. In capo a mezz’ora era lontana poche centinaia di metri, su di essa si scorgeva una forma umana di piccole dimensioni, la quale manovrava i remi con grande energia.

“Coraggio, giovanotto!” gridò Mister Kelly.

“Grazie signore,” rispose il naufrago.

In pochi minuti superò la distanza, abbandonò il canotto, si fermò alcuni istanti sul primo nodo della guide-rope per riposarsi, poi si arrampicò con l’agilità di un gatto e raggiunse la navicella.

O’Donnell lo afferrò per le braccia e lo depose nella scialuppa.

“Grazie,” ripeté il naufrago.

Poi, dopo aver girato lo sguardo ardente sulle casse e sui barili che ingombravano la scialuppa, mormorò: “Da bere!… Da bere, signori!… Muoio di sete!”

Capitolo 20. L’isola misteriosa

Quello sconosciuto raccolto solo, morente di sete in mezzo all’immenso oceano, poteva avere quindici anni. Era spaventosamente magro, di statura alta per la sua età, coi capelli biondi, gli occhi grandi, spalancati, di un azzurro profondo, i lineamenti energici ma alterati da una lunga serie di patimenti. Era molto se pesava quaranta chilogrammi, compresi gli stracci che avvolgevano le sue magre membra.

L’ingegnere e O’Donnell, vivamente commossi nel vedersi davanti quel ragazzo ridotto a pelle e ossa, s’affrettarono a portargli una bottiglia di vino e una tazza d’acqua.

Il mozzo respinse la prima ma vuotò tutto d’una fiato la tazza, ripetendo con un fil di voce: “Oh! datemene ancora, signori!…

“Bevi un sorso di questo vino, prima, povero ragazzo,” disse l’ingegnere, “dopo berrai quant’acqua vorrai.”

Il naufrago obbedì, poi vuotò un altro bicchiere d’acqua che l’irlandese gli porgeva. “Grazie, signori,” balbettò.

“Hai fame?” gli chiese l’ingegnere.

“Tanta, signore,” rispose il naufrago. “Sono tre settimane che vivo con un biscotto ogni ventiquattr’ore e tre giorni che il mio stomaco è vuoto.”

“Lo vedo dalla tua magrezza, povero ragazzo. Bagna per ora questi biscotti in un bicchiere di vino: una scorpacciata dopo tanti digiuni potrebbe esserti fatale.”

“Ah! Voi siete buoni, signori,” disse. “Non lo erano certamente quelli della zattera.”

“Di quale zattera intendi parlare?”

“Di quella che montava l’equipaggio.”

“Si è sfasciata?”

“No, signore.”

“Ma perché l’hai abbandonata?”

“Per non venire ucciso e divorato,” rispose il mozzo, battendo i denti per il terrore.

“Quale terribile dramma marino si è svolto in questi paraggi?” mormorò O’Donnell.

“Si è affondata la tua nave?” chiese Mister Kelly.

“Sì, è andata a picco tre settimane fa a milletrecento miglia dalle isole Canarie,” disse il mozzo. “Si chiamava Florida ed era salpata da Baltimora con un carico di bazzeccole, destinata ai porti della Sierra Leone. Una notte si aprì una falla sotto la ruota di prua e il brick cominciò a fare acqua in tale quantità da rendere inutile il lavoro delle pompe. Si misero in acqua le imbarcazioni, ma il caldo aveva disgiunto le tavole e affondarono tutte, eccetto il piccolo canotto che io montavo poco fa. Allora, mentre una parte dell’equipaggio manovrava le pompe, gli altri marinai improvvisarono una zattera. Non avevano ancora terminato di costruirla, che il brick affondò, trascinando con sé il capitano e il secondo di bordo. Nella confusione che accadde in quel supremo istante, furono dimenticati i viveri che erano stati accumulati sul ponte del legno affondante, e si poterono a grande stento salvare tre casse di biscotti e due barilotti d’acqua che ancora galleggiavano. Fu deciso di fare rotta verso l’est, per approdare alle isole Canarie o in qualche punto della costa africana, ma le calme ci sorpresero e rimanemmo lunghi giorni immobili sotto un calore spaventevole. L’acqua ben presto mancò, poi mancarono i biscotti, quantunque venissero misurati con grande parsimonia.

Io avevo notato che i marinai tenevano sovente gli occhi fissi su di me e che poi si radunavano, discutendo calorosamente, ma procurando sempre che la loro voce non giungesse fino a me. Mi nacque un sospetto orribile: che tramassero di uccidermi e poi pascersi delle mie carni. Cinque notti orsono, mentre fingevo di dormire, vidi avvicinarsi a me il mastro d’equipaggio, seguiti da due marinai e udii il primo dire: “È magro come un merluzzo secco: preferisco che la sorte decida.”

“No,” risposero i compagni. “Questo fanciullo sarà la prima vittima della fame. Perché attendere che muoia? Prima o dopo è tutt’uno e noi potremo forse salvarci.”

Poi si allontanarono dicendo: “A domani.”

“Miserabili,” esclamò O’Donnell. “Uccidere un ragazzo!”

“La fame non ragiona, amico mio,” disse l’ingegnere. “Continua, ragazzo.”

“Avevo messo in serbo alcuni biscotti e un mezzo litro d’acqua che avevo nascosto nel cavo di una trave, sotto il tavolato della coperta. Decisi di fuggire senza perdere tempo. Attesi che tutti dormissero, poi salii nel canotto che era ormeggiato a poppa della zattera, m’imbarcai portando con me le poche provviste e mi allontanai dirigendomi verso il sud. Arrancai disperatamente tutta la notte, e all’alba avevo percorso tanto cammino da non scorgere più la zattera. Due giorni dopo avevo consumato i miei viveri, ma continuai a remare, con la speranza di incontrare qualche nave in rotta dall’Europa all’America, finché, stremato di forze, morendo di sete e di fame, stramazzai in fondo al canotto. Mi ero rassegnato a morire, quando, aprendo gli occhi vidi brillare una luce e presso a questa disegnarsi una forma umana…”

“Ero io che avevo acceso una torcia,” disse l’ingegnere. “Devi essere rimasto assai sorpresero nel vedere un uomo in aria.”

“Sì, signore,” rispose il mozzo. “Credetti di sognare, ma avendo scoperto sopra di voi una grande massa nera che rifletteva qua e là i bagliori della torcia, quantunque la cosa mi sembrasse strana, indovinai subito che sopra di me passava un pallone e lancia il mio primo grido.”

“Sei americano?’ gli chiese Kelly.

“Sì, signore, sono virginiano, nato a Richmond e mi citiamo Walter Chidley.”

“Hai parenti a Richmond?”

“No, signore, sono solo al mondo e non li ho mai conosciuti.”

“Ti prendo come mio figlio.”

Gli occhi azzurri del povero mozzo si empirono di lacrime.

“Signore… signore.” balbettò. “Voi siete buono… e vi offro la mia vita.”

“Conservala, mio povero ragazzo,” disse l’ingegnere, commosso. “Benedico questo viaggio che mi ha fatto incontrare due buoni amici.”

“Grazie, Mister Kelly,” disse O’Donnell, stringendogli la mano che gli porgeva. “Questi due amici, come voi volete chiamarli, vi devono la vita.”

“E a voi forse devo la mia salvezza, O’Donnell. Senza di voi non so cosa sarebbe accaduto di me, in compagnia di quel disgraziato Simone.” Poi, volgendosi al mozzo:

“È al nord che si trova la zattera?” gli chiese.

“Lo credo, Mister Kelly.”

“Quanti uomini la montano?”

“Quando l’abbandonai si trovavano a bordo quattordici marinai, ma temo che ora non siano tutti vivi. Qualcuno sarà stato divorato.”

“Se la incontreremo cercheremo di aiutare quei disgraziati. Possiedo ancora dei viveri sufficienti per nutrirci un mese e spero di non aver bisogno di tanto per raggiungere la costa. Coricati su quel materasso, ragazzo mio e riposati: tu devi essere sfinito. Quando ti sveglierai potrai mangiare a piacimento.”

In quell’istante un urto violento fece oscillare fortemente la scialuppa e un nembo di spuma balzò sopra i bordi.

“Le onde!” esclamo O’Donnell, che si era curvato sull parapetto. “Tocchiamo la superficie dell’oceano.”

“Ci eravamo dimenticati di scaricare della zavorra,” disse l’ingegnere. “Questo ragazzo non pesa molto, ma gli aerostati non vogliono saperne di sopraccarichi.”

O’Donnell prese un sacco di zavorra di cinquanta chilogrammi e lo precipitò nell’oceano. Il Washington subito si rialzò, tendendo le corse delle àncore e la guide-rope.

“Vento da sud-ovest,” disse l’ingegnere, gettando uno sguardo sul mostra-vento appeso all’asta della bandiera e un altro alla bussola. “Partiamo!”

Rovesciarono i due coni e trassero a bordo la guide-rope. I due immensi fusi salirono lentamente e, raggiunti i quattrocento metri, si misero a filare verso il nord-est, in direzione delle Canarie.

Il mozzo, stremato dalle lunghe veglie e dai lunghi digiuni, si era coricato e dormiva tranquillamente sul materasso un tempo occupato dal disgraziato Simone; l’ingegnere, che aveva terminato il suo quarto di guardia, l’aveva imitato e O’Donnell si era collocato a prua, fumando. La notte era oscura assai. Uno strato di vapori, che a poco a poco si erano accumulati nelle profondità degli spazi celesti, intercettava completamente la debole luce degli astri. Giù, in fondo, l’oceano brontolava sordamente e si udivano le onde, sollevate dal vento che era diventato assai fresco, urtarsi e sfasciarsi. Di quando in quando, su quei flutti d’inchiostro si vedevano balenare dei punti luminosi che tosto scomparivano. Probabilmente erano pesce-cani, le bocche dei quali, di notte, diventano fosforescenti. Il Washington marciava con rapidità di venti chilometri all’ora, ma la sua direzione non era stabile. Sovente la corrente d’aria cambiava e lo spingeva ora verso il nord ora verso l’est e qualche volta lo ricacciava verso il sud. Alle dieci del mattino, però, la corrente del sud-ovest ebbe il sopravvento e trascinò l’aerostato verso il nord-nord-ovest, con una velocità superiore ai quaranta chilometri all’ora. Se continuava in quella direzione, gli aeronauti non dovevano tardare a scoprire qualche terra.

 

Alle quattro, mentre cominciava a disegnarsi verso oriente una bianca striscia di luce, una pioggia violenta si scatenò sull’oceano. I vapori che durante la notte si erano condensati sopra quella porzione dell’Atlantico, si scioglievano rapidamente.

Quei grossi goccioloni, cadendo sulla seta dei due palloni, producevano degli strani crepitii e rendevano pesante il vascello, il cui gas non aveva ancora cominciato a dilatarsi.

O’Donnell, che era sempre di quarto, s’accorse ben presto che scendeva verso l’oceano con notevole velocità. Dopo pochi minuti scorse le onde dell’Atlantico a sole quaranta braccia. Svegliò Mister Kelly e lo informò di quella rapida caduta.

“Gettiamo zavorra,” disse l’ingegnere.

“Ne abbiamo gettati altri cinquanta chilogrammi ieri sera, Mister Kelly,” disse l’irlandese.

“È necessario alleggerirci, O’Donnell”.

“Ma fra poco rimarremo senza, se continuiamo questo getto.”

“Abbiamo ancora trecento metri cubi d’idrogeno.”

“Vada la zavorra, dunque.”

Un altro sacco fu gettato. Il Washington s’innalzò con rapidità, attraverso lo strato nuvoloso, inzuppando uomini, coperte e materassi e si arrestò a milletrecento metri, filando sopra le masse vaporose. Lassù il vento soffiava gagliardo, mantenendo la direzione di nord-nord-est, con grande soddisfazione dell’ingegnere che sperava di risalire verso l’Europa, evitando la grande corrente dei venti alisei che potevano spingerlo nell’Atlantico centrale.

Alle otto del mattino, l’aerostato era salito di altri millecinquecento metri avendo cominciato il dilatamento dell’idrogeno a causa del calore solare che era ancora intenso, quantunque gli aeronauti si fossero allontanati assai dal Tropico del Cancro.

Alle dieci, O’Donnell, che stava seduto a prua discorrendo col mozzo, segnalò un grande transatlantico che filava verso l’occidente con una velocità di quarantadue chilometri all’ora e al basso, a circa ottocento metri dalla superficie dell’oceano, si estendevano ancora qua e là dei nuvoloni gravidi di pioggia, i quali erano separati da brevi distanze.

Alle undici, l’ingegnere che da parecchio tempo guardava ostinatamente verso l’est, mostrò a O’Donnell una specie di nebbia, ma che si alzava in forma di cono e che appariva a una grandissima distanza.

“Che cos’è?” chiese l’irlandese.

“Laggiù si estendono le isole Canarie,” rispose l’ingegnere.

“Le Canarie!” esclamò O’Donnell. “È impossibile, signore, che vi siamo giunti così presto!”

“Giunti? Vi è ancora un bel tratto di via da percorrere, amico mio.”

“Se si scorge una delle loro montagne, non devono essere molto lontane.”

“Ma quel picco che voi scorgete è quello di Teneriffa, il quale è tanto alto che lo si scorge dalla distanza di più di duecento chilometri.”

“Abbiamo del tempo per giungere a quell’arcipelago”

“Se mai lo toccheremo, poiché il vento ci spinge al largo di quelle isole.”

“Formano un gruppo considerevole, quelle terre?”

“Le isole sono cinque, la Gran Canaria, Palma, Lanzarate, Geneira, Ferro; poi vengono le isolette di Labos, Roqueta, Alegranza, Santa Giara e Graciosa, ma pare che un tempo fossero undici.”

“È scomparsa l’undicesima?”

“Così si dice.”

“Non si crede forse alla sua scomparsa?”

“Sì e no.”

“Spiegatevi meglio, Mister Kelly.”

“Allora vi dirò che le antiche cronache portoghesi fanno menzione di un’isola che si chiamava S. Bernardo. Si dice che alla prima metà del XV secolo, un vecchio marinaio si presentasse al re Enrico confidandogli di aver veduto nei pressi delle Canarie un’isola abitata da antichi portoghesi e sulla quale sorgevano sette opulente città con grandiosi palazzi. Narra ora la leggenda che un ricco cavagliere portoghese, certo Don Fernando de Ulmo, partisse con due caravelle armate a proprie spese, alla ricerca di quell’isola misteriosa che supponeva abitata da portoghesi fuggiti dalla patria durante l’invasione dei mori, cioè nell’VIII secolo. Fernando de Ulmo sarebbe partito, avrebbe sbarcato a S. Bernardo, splendidamente accolto da parte dei suoi compatrioti i quali lo avrebbero nominato loro adelantado. Ma ecco che comincia una storia meravigliosa e assai stravagante. La leggenda dice che, un secolo dopo, Fernando de Ulmo ritornava a Lisbona…”

“Cent’anni dopo?” chiese O’Donnell.

“Sì, ma è la leggenda che narra questo amico mio. Si fece conoscere, ma lo trattarono da pazzo: più nessuno si ricordava di lui e del suo viaggio all’isola delle sette opulente città, essendo i suoi amici e i suoi parenti morti da molti anni. Un vecchio, però, si rammentò di aver udito raccontare, nella sua gioventù, che un Ulmo era partito per le Canarie e condusse il navigatore presso una tomba dove era scolpito il suo ritratto, che gli somigliava assai, malgrado l’età. Ulmo ripartì per le Canarie per ritrovare la sua isola, ma era scomparsa. Morì poco dopo mentre sul promontorio di Palma cercava avidamente con gli sguardi le tracce di quella misteriosa terra, e fu sepolto nella cattedrale dell’isola.”

“Ma credete che sia realmente esistita quell’isola?”

“E perché no? Le Canarie sono di natura vulcanica e quell’isola può essere stata inghiottita durante qualche terribile commozione del fondo marino. Gli abitanti dell’arcipelago e i naviganti portoghesi e spagnuoli dicono che, di quando in quando, specie allorché i crateri di Teneriffa eruttano e il terremoto scuote le isole, quell’isola riappare a fior d’acqua per poi tornare a inabissarsi.”

Capitolo 21. Madera

Se la corrente che li spingeva ora con grande celerità verso nord-nord-est si manteneva costante, gli aeronauti, dopo tante pericolose avventure passate in quei pochi giorni dacché erravano sopra l’immenso oceano, potevano ancora sperare di raggiungere le coste europee e di sfuggire alla grande corrente dei venti alisei, che scende lungo le coste africane, piegando verso le coste americane all’altezza del Tropico del Cancro. Con una rapida marcia di quarantotto ore e fors’anche meno potevano attraversare la distanza che li separava dal primo parallelo europeo, che taglia dritto le colonne d’Ercole o meglio lo Stretto di Gibilterra. Per un vascello, forse pure dotato d’una macchina a vapore di grande forza, sarebbe stata una pazzia quella speranza, ma con il loro aerostato, che procedeva con la velocità del vento, quello spazio ancora immenso era cosa da poco. Bastava che quella velocità di quarantadue chilometri non diminuisse. Il Washington però, perdeva continuamente gas e non si manteneva a quell’altezza di 3000 metri che a grande fatica. Di quando in quando faceva delle brusche cadute, quantunque da poche ore fosse stato alleggerito di altri cinquanta chilogrammi di zavorra, e penava assai a riprendere il livello iniziale. Le estremità dei due fusi cominciavano a disegnare delle pieghe, che diventavano di ora in ora più considerevoli. E bensì vero che gli aeronauti possedevano trecentocinquanta chilogrammi di zavorra e trecento metri cubi di idrogeno, immagazzinati nei cilindri, tuttavia erano inquieti, perché il vento poteva improvvisamente cambiare ancora direzione e respingerli nell’Atlantico.

Alle quattro pomeridiane l’ingegnere vedendo che il Washington pur continuando la sua rapida marcia, scendeva a vista d’occhio, temendo che sotto quella corrente favorevole soffiassero gli alisei, si decise a rinvigorire i palloni, introducendo nelle loro manichette cinquanta metri cubi di idrogeno ciascuno. Quell’operazione, oltre a far sparire le pieghe, contribuì ad accelerare la marcia, poiché essendo l’aerostato salito a 3000 metri, aveva acquistato una maggiore velocità, dato che la corrente a quella considerevole altezza è più forte.

Verso le otto, un’ora prima che il sole tramontasse, l’ingegnere segnalava un gruppo di isole, che spiccava nettamente sul fondo ceruleo dell’oceano. Quelle isole erano il gruppo di Madera, diventato così celebre per la squisitezza dei suoi vini, che godono di una fama mondiale. Si compone di due terre: Madera propriamente detta, lunga 58 chilometri e larga 22, con i 161.000 abitanti, oriundi per la maggior parte portoghesi, con Funchal, capoluogo, popolata da 25.000 anime, situata sulla costa meridionale, e Porto Santo. Le altre sono semplici scogliere e si chiamano Desertas. Là si gode un’eterna primavera, e molti sono gli ammalati, specialmente i tisici, che vi si recano. Malgrado siano di natura vulcanica e l’acqua scarseggi, sono assai fertili e, oltre al vino, producono in abbondanza biade, patate, canna da zucchero, ma questi prodotti a poco a poco vengono abbandonati, essendo meno remunerativi delle viti. Danno altresì castagne del legno detto sangue di drago, e aranci, e l’oceano che le circonda è ricco di pesci, specialmente sardine, che si prendono in grande quantità.

La scoperta di queste isole, quantunque così vicine alle coste africane ed europee, si deve puramente al caso. È probabile che gli antichi fenici e i Cartaginesi, che visitarono le Canarie, le abbiano vedute molti e molti secoli prima, ma al pari di queste ultime rimasero ignote fino al 1344. Fu in quell’epoca che Roberto Macham, gentiluomo inglese, fu spinto dai venti sulle spiagge di Madera, mentre fuggiva su di una nave con alcuni amici e la figlia del duca di Dorset, che dal padre era stata costretta a sposare forzatamente un alto dignitario del regno, mentre essa aveva giurato eterno amore al giovane gentiluomo. La notizia della scoperta venne recata in Europa dai compagni di Macham, dopo che questi e la sua amante erano morti.

Gli aeronauti, senza bisogno di cannocchiali, distinguevano nettamente le due isole maggiori e le altre minori, essendo l’orizzonte limpidissimo. Quantunque fossero lontani oltre ottanta miglia, l’ingegnere additò ai suoi compagni il monte Ruino, che è il più elevato di tutti.

“È laggiù che si raccoglie quel vino squisito, Mister Kelly?” chiese l’irlandese.

“Sì, amico mio.”

“Ne producono molto quelle isole?”

“Quando le annate sono buone, quei vigneti danno circa 5000 pipe(), ossia 2.685.000 litri. Nel 1852 quelle isole corsero il pericolo di perdere interamente i loro raccolti a causa della comparsa dell’oidium tuckeri, ma gli abitanti vi posero riparo piantando i vitigni americani.”

“Richiede delle cure speciali quel vino per riuscire così squisito?”

“Quasi nessuna, O’Donnell. Basta esporlo per qualche tempo a un’alta temperatura per renderlo più delizioso, e aggiungervi poi una certa dose di alcool, circa dieci litri in ogni pipa. Anticamente anzi, perché prendesse meglio il caldo, che non dev’essere inferiore ai 50°, s’imbarcavano le botti piene di madera e si trasportavano al di là dell’equatore, e su quelle botti gli inglesi, che hanno sempre esercitato l’esportazione di quel prezioso nettare, applicavano un cartellino su cui era scritto: “Twice passed the line” per indicare che aveva passato due volte la linea dell’equatore e che quindi era perfettamente stagionato.”

“Che sia il terreno che rende così buono quel vino?”

Così deve essere, e pare che la sua fertilità derivi da un terribile incendio che durò sette anni.”

“Ma chi lo accese?”

“I primi navigatori portoghesi: Zarco, Fechevra e Pestrello, per distruggere i grandi boschi che coprivano Madera. Quelle ceneri bastarono per concimare immensamente quei terreni.”

“E a chi venne in mente di piantare delle viti su quelle isole?”

“Ai portoghesi, che piantarono nel 1425 alcune talee fatte venire dall’isola di Cipro. In seguito ne piantarono altre di specie diversa, ottenendo così parecchi tipi di vino.”

“Ma non sono molti anni che questi vini sono diventati celebri.”

“Tutt’altro, caro amico. Fin dal 1445 il navigatore veneziano Ca’da Mosto li fece conoscere, vantandone le squisitezze, e Francesco I, re di Francia, che fu il primo che lo bevette in Europa e confermò la sua straordinaria bontà, rendendolo di colpo famoso.”

 

In quell’istante l’aerostato virò bruscamente di bordo, descrivendo mezzo giro su se stesso e imprimendo alla navicella un largo dondolìo.

“Cadiamo?” chiesero O’Donnell e il mozzo.

“No,” rispose l’ingegnere; “ma…”

“Cambia la corrente?”

L’ingegnere rispose con un gesto disperato. Si precipitò verso la bussola e impallidì. “Torniamo al sud!” esclamò con voce sorda.

“Al sud!” esclamò O’Donnell. “Si è rotta la corrente?”

“Peggio ancora.”

“Che avviene dunque?”

“Una cosa assai grave: i venti alisei ci hanno afferrato e ci respingono nell’Atlantico!”

“Per centomila corna di cervo!… Siamo perseguitati dal destino?”

Per parecchi minuti un cupo silenzio regnò sull’aerostato, che il vento trascinava con grande rapidità verso le regioni equatoriali. L’ingegnere e l’irlandese si sentivano vinti e si chiedevano con angoscia quale sorte doveva a loro serbare il destino, che pareva avesse giurato la loro perdita, dopo aver fatto balenare in loro la speranza di condurli verso le coste europee.

Se non sopraggiungeva un miracolo, la loro situazione si poteva considerare disperata. La grande corrente degli alisei, che fino ad allora avevano cercato di evitare, non li avrebbe più lasciati, e doveva respingerli in mezzo all’Atlantico, per poi gettarli sulle lontane coste dell’America centrale e forse su quelle del continente meridionale. Si sarebbero mantenuti in aria tanto tempo da riattraversare l’oceano? Non era possibile, coi mezzi limitati che ormai possedevano. Una caduta in mezzo all’Atlantico ora sembrava inevitabile, e quale disastro allora, privi quasi di acqua come erano!

L’ingegnere vinto dalla tristezza che lo invadeva, si era lasciato cadere a prora della scialuppa, con la testa stretta fra le mani; O’Donnell gettava sguardi disperati alle isole che sparivano a poco a poco fra le tenebre calanti rapidamente come un branco di corvi; il solo Walter, il povero mozzo raccolto morente sull’oceano, era tranquillo e pareva chiedersi il motivo della disperazione che accasciava i suoi salvatori.

“Mister O’Donnell,” mormorò timidamente, “è forse il peso della mia persona che ha prodotto il cambiamento di direzione dell’aerostato?”

“No, povero ragazzo,” disse l’irlandese, sforzandosi di sorridere. “È il vento che, invece di avvicinarci alle coste africane o europee, ci trascina verso l’America.”

“Non possiamo fermarci, gettando l’ancora, e attendere un vento più favorevole?”

“A quest’altezza è impossibile, Walter. Tutte le nostre funi riunite non giungerebbero a toccare la superficie dell’oceano. Più tardi, quando l’idrogeno si sarà condensato, cercheremo di fermarci.”

“Volete che annodi le funi?”

“Sì,” disse l’ingegnere scuotendosi. “Bisogna fermarci e non lasciarci trascinare in mezzo all’Atlantico.”

“Sperate in un cambiamento di vento, Mister Kelly?” chiese O’Donnell.

“Spero in un uragano.”

“Segna una vicina perturbazione il barometro?”

“L’ho notato stamane.”

“E romperà la grande corrente?”

“Lo spero, O’Donnell: se non sulla superficie dell’oceano, forse in alto, a tremila, quattromila, a seimila metri, o più sopra.”

“Possiamo abbassarci subito e gettare le àncore, sacrificando un po’ di gas?”

“Ora? Sarebbe un’imprudenza, amico mio, perdere dell’idrogeno, mentre forse il vento ci spingerà attraverso l’Atlantico invece di portarci verso l’Africa. Voglio conservare tutte le forze del Washington per cercare in alto una nuova corrente.”

“Ma scendiamo al sud con grande rapidità, Mister Kelly.”

“Non importa: l’Africa l’abbiamo alla nostra sinistra e per lungo tempo non l’abbandoneremo. Che approdiamo qui o più al sud, sulle coste del Sahara o della Senegambia o della Sierra Leone, cosa importa, ora che l’Europa ci sfugge? Quando il Washington si abbasserà, getteremo le àncore e attenderemo la burrasca per innalzarci più che potremo.”

“E se quell’uragano ci spingesse invece all’ovest?”

“Siamo nelle mani di Dio: accadrà ciò che Egli vorrà.”

“Ritenete che il Washington non possieda forze sufficienti per riattraversare l’Atlantico?”

“Lo dubito, O’Donnell. È vero che i venti, durante gli uragani, acquistano delle rapidità incredibili e che sole 1500 miglia separano le coste della Sierra Leone e il capo brasiliano di San Rocco, ma i nostri mezzi sono ormai scarsi, e cadremmo in mezzo all’oceano, a meno che qualche nave non ci raccogliesse.”

“To’! E i nostri amici, li abbiamo dimenticati? Chissà che non ci cerchino a quest’ora, se i piccioni messaggeri sono giunti all’Isola Brettone.

“Magra speranza, O’Donnell. L’Atlantico è immenso e i miei amici non possono sapere dove il vento ci ha spinto. Non dobbiamo contare che sulle nostre forze.”

“Ma mi sembra, Mister Kelly, che il nostro idrogeno si condensi molto lentamente questa sera. perché non abbiamo ancora cominciato la discesa.”

“Ci troviamo in una corrente d’aria assai calda, e il nostro Washington è stato rinvigorito poche ore fa, ma cadremo, O’Donnell, ve lo assicuro. Intanto annodiamo tutte le funi disponibili e prepariamoci a calare i nostri coni.”

Il Washington come aveva giustamente notato O’Donnell, non accennava a scendere, quantunque la temperatura si fosse abbassata di alcuni gradi. Si manteneva ancora a 2500 metri di altezza, filando verso il sud con una rapidità di ben sessantadue chilometri all’ora. Se quel vento non rallentava, il Washington doveva perdere l’intero vantaggio acquistato durante la giornata e ritrovarsi nei paraggi delle Canarie, che aveva lasciato verso le undici del mattino. Alle dieci però la discesa dell’aerostato cominciò, ma era assai lenta. Calava in ragione di trecento o trecentocinquanta metri all’ora, mentre invece la rapidità del vento aumentava. A mezzanotte l’ingegnere segnalò ai suoi compagni un punto luminoso, che si scorgeva verso l’est.

“Una nave?” chiese O’Donnell.

“No,” rispose Mister Kelly, che aveva puntato un cannocchiale in quella direzione. “È un bagliore lampeggiante, sarà il faro di Teneriffa o dell’isola del Ferro.”

“Di già alle Canarie? E la corsa aumenta!”

Alle tre del mattino l’aerostato si trovava a soli duecento metri dalla superficie dell’oceano. L’ingegnere fece gettare i due coni, che si riempirono subito d’acqua, immobilizzando il vascello aereo.

“Riposiamo,” disse poi. “Non corriamo alcun pericolo.”

I tre aeronauti, che avevano vegliato fino ad allora e che cadevano dal sonno, si coricarono sui loro materassi e si addormentarono profondamente, cullati dolcemente dalla grande corrente degli alisei.