Za darmo

Alla conquista di un impero

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– Chi viene a disturbarci? – chiese Yanez, aggrottando la fronte.

– Io, padrone: Sambigliong, – rispose una voce.

– Che cosa c’è di nuovo?

– Tremal-Naik è giunto. —

Sandokan aveva lasciata la pipa, e si era alzato precipitosamente.

La porta si aprì ed un uomo comparve, dicendo:

– Buona sera, miei cari amici: eccomi pronto ad aiutarvi. —

Le destre di Sandokan e di Yanez si erano tese verso il nuovo venuto, il quale le aveva strette fortemente, esclamando:

– Ecco un bel giorno: mi pare di tornare giovane insieme a voi. —

L’uomo che così aveva parlato era un bellissimo tipo d’indiano bengalino, di circa quarant’anni, dalla taglia elegante e flessuosa, senz’essere magra, dai lineamenti fini ed energici, la pelle lievemente abbronzata e lucidissima e gli occhi nerissimi e pieni di fuoco.

Vestiva come i ricchi indiani modernizzati dalla Young-India, i quali ormai hanno lasciato il dootèe e la dubgah pel costume anglo-indù, più semplice, ma anche più comodo: giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia ricamata e altissima, calzoni stretti pure bianchi e turbantino rigato sul capo.

– E tua figlia Darma? – avevano chiesto ad una voce Yanez e Sandokan.

– È in viaggio per l’Europa, amici – rispose l’indiano. – Moreland desidera far visitare a sua moglie l’Inghilterra.

– Sai già perché ti abbiamo chiamato? – chiese Yanez.

– So tutto: voi volete mantenere la promessa fatta quel terribile giorno in cui il Re del Mare affondava sotto i colpi di cannone del figlio di Suyodhana.

– Di tuo genero, – aggiunse Sandokan, ridendo.

– È vero… Ah! —

Si era vivamente voltato guardando il ministro del rajah, il quale stava immobile presso la tavola, come una mummia.

– Chi è costui? – chiese l’indiano.

– Il primo ministro di S. A. Sindhia, principe regnante dell’Assam, – rispose Yanez. – Toh! Tu giungi proprio in buon punto. Sapresti tu, Tremal-Naik, far parlare quell’uomo che si ostina a non dirmi la verità?

Voi indiani siete dei grandi maestri.

– Non vuol parlare? – disse Tremal-Naik, squadrando il disgraziato che pareva tremasse. – Hanno fatto cantare anche me gli inglesi, quando ero coi thugs.

Kammamuri però è più destro di me in tali faccende. Ti preme, Yanez?

– Sì.

– Hai ricorso alle minacce?

– Ma senza buon esito.

– Ha cenato quel signore?

– Sì.

– È quasi mattina, può quindi fare uno spuntino, o una semplice tiffine senza birra però.

È vero che l’accetterete in nostra compagnia?

– Chiamalo Eccellenza, – disse Yanez maliziosamente.

– Ah! Scusate, Eccellenza, – disse Tremal-Naik con accento un po’ ironico. – Mi ero scordato che voi siete il primo ministro del rajah. Accettate dunque una fiffine?

– Io di solito non mangio la prima colazione che alle dieci del mattino, – rispose il ministro a denti stretti.

– Voi, Eccellenza, adotterete le abitudini dei miei amici. Sono partito ieri mattina da Calcutta, ho mangiato malissimo lungo la via ferroviaria, peggio ancora nel vostro paese, quindi ho una fame da tigre.

Amici, lasciate che vada ad ordinare a Kammamuri una succolenta colazione. Suppongo che i viveri non mancheranno in questa vecchia pagoda.

– Qui regna l’abbondanza, – rispose Yanez.

– Vieni con me, allora. Kammamuri è un cuoco abilissimo. —

Si presero a braccetto e uscirono insieme, lasciando soli il disgraziato ministro del rajah e Sandokan.

Questi aveva riacceso il suo cibuc e, dopo essersi sdraiato, si era rimesso a fumare silenziosamente, spiando attentamente il prigioniero.

Kaksa Pharaum si era lasciato cadere su una sedia, prendendosi il capo fra le mani. Pareva completamente annichilito da quel succedersi di avvenimenti imprevisti.

I due personaggi stettero parecchi minuti silenziosi, l’uno continuando a fumare e l’altro a meditare sui tristi casi della vita, poi il pirata, staccando dalle labbra la pipa, disse:

– Vuoi un consiglio, Eccellenza? —

Kaksa Pharaum aveva alzata vivamente la testa, fissando i suoi piccoli occhi sul formidabile pirata.

– Che cosa vuoi, sahib? – chiese, battendo i denti.

– Devi dire, se vuoi evitare maggiori guai, quello che desidera sapere il mio amico.

Bada, Eccellenza! È un uomo terribile, che non indietreggerà dinanzi a nessun mezzo feroce.

Io sono la Tigre della Malesia: egli è la Tigre bianca.

Quale sarà il più implacabile? Ah! Io non te lo saprei dire.

– Ma ho già detto che io ignoro dove si trova la pietra di Salagraman.

– Il sigaro che il mio amico ti ha fatto fumare ti ha annebbiato un po’ troppo il cervello, – rispose Sandokan. – È necessaria una buona colazione. Vedrai, Eccellenza, come la memoria diventerà limpida. —

Tornò a rovesciarsi sul divano e si rimise a fumare con tutta calma.

Un silenzio profondo regnava nel salotto. Si sarebbe detto che all’infuori di quei due personaggi nessuno abitava la vecchia pagoda sotterranea.

Kaksa Pharaum, più che mai spaventato, era tornato ad accasciarsi sulla sua sedia, col capo fra le mani. La Tigre della Malesia non fiatava, anzi si studiava di non fare alcun rumore colle labbra.

I suoi occhi però pieni di fuoco, non si staccavano un solo momento dal ministro. Si comprendeva che stava in guardia.

Trascorse una mezz’ora, poi la porta tornò ad aprirsi ed un altro indiano entrò, tenendo fra le mani un piatto fumante che conteneva dei pesci annegati in una salsa nerastra.

Era un uomo presso la quarantina, piuttosto alto di statura e membruto, tutto vestito di bianco, col viso molto abbronzato che aveva dei riflessi dell’ottone e che aveva agli orecchi dei pendenti d’oro che gli davano un non so che di grazioso e di strano.

– Ah! – esclamò Sandokan, deponendo la pipa. – Sei tu, Kammamuri? Ben felice di vederti, sempre in salute e sempre fedele al tuo padrone.

– I maharatti muoiono al servizio del loro signore, – rispose l’indiano. – Salute a te, invincibile Tigre della Malesia. —

Altri quattro uomini erano entrati, portando altri tondi pieni di cibi diversi, bottiglie di birra e salviette.

Kammamuri depose il suo tondo dinanzi al ministro, mentre entravano Yanez e Tremal-Naik.

La Tigre della Malesia si era alzata per sedersi di fronte al prigioniero, il quale guardava con terrore or l’uno ed ora gli altri, senza però pronunciare una sillaba.

– Perdonate, Eccellenza, se la colazione che io vi offro è ben inferiore alla cena che vi ho mangiata, ma siamo un po’ discosti dal centro della città ed i negozi non sono ancora aperti.

Fate onore al nostro modesto pasto e rasserenatevi. Avete una cera da funerale.

– Io non ho fame, mylord, – balbettò il disgraziato.

– Mandate giù pochi bocconi per tenerci compagnia.

– E se mi rifiutassi?

– In tal caso vi costringerei colla forza. Non si fa l’offesa d’un rifiuto ad un mylord.

La nostra cucina d’altronde non è meno buona della vostra: assaggiate e vi persuaderete. Poi riprenderemo il nostro discorso. —

Come abbiamo detto, Kammamuri aveva posto dinanzi al ministro il primo tondo che aveva portato e che conteneva dei pesci che nuotavano entro una salsa nerastra, costringendolo in tal modo ad inghiottire solo quell’intingolo.

Il povero diavolo, vedendo fisso sopra di sé e minacciosi gli occhi di Yanez, si decise finalmente a mangiare quantunque non avesse affatto appetito.

Gli altri non avevano tardato ad imitarlo, vuotando rapidamente i piatti che avevano dinanzi e che non sembravano contenere un intingolo diverso, almeno apparentemente.

Kaksa Pharaum aveva con grandi sforzi inghiottiti alcuni bocconi, quando lasciò cadere bruscamente la forchetta guardando il portoghese con smarrimento.

– Che cosa avete, Eccellenza? – chiese Yanez, fingendo con gran stupore.

– Che mi sento bruciare le viscere, – rispose Kaksa Pharaum che era diventato smorto.

– Non mettete anche voi del pimento nei vostri intingoli?

– Non così forte.

– Continuate a mangiare.

– No… datemi da bere… brucio.

– Da bere? Che cosa?

– Di quella birra, – rispose il disgraziato.

– Ah no, Eccellenza. Questa è esclusivamente per noi e poi voi, come indiano, non potreste berne poiché noi inglesi, onde aumentare la fermentazione della birra, vi mettiamo qualche pezzetto di grasso di mucca.

Voi, Eccellenza, sapete meglio di me che, per voi indiani, quell’animale è sacro e chi ne mangia andrà soggetto a pene tremende quando sarà morto. —

Sandokan e Tremal-Naik fecero uno sforzo supremo per trattenere una clamorosa risata. Ne poteva inventare altre quel demonio di portoghese? Perfino il grasso di mucca nella birra inglese!

Yanez, che conservava una serietà meravigliosa, empì una tazza di birra e la porse al ministro dicendogli:

– Se volete, bevete pure. —

Kaksa Pharaum aveva fatto un gesto d’orrore.

– No… mai… un indiano… meglio la morte… dell’acqua mylord… dell’acqua! – aveva gridato. – Ho il fuoco nel ventre!

– Dell’acqua! – rispose Yanez. – Dove volete che andiamo a prenderne, Eccellenza? Non vi è alcun pozzo in questa pagoda sotterranea ed il fiume è più lontano di quello che credete.

– Muoio!

– Bah! Noi non abbiamo alcun interesse a sopprimervi. Tutt’altro.

– Mi avete avvelenato… ho dei carboni accesi nel petto! – urlò il disgraziato. – Dell’acqua! dell’acqua!

– La volete proprio? —

Kaksa Pharaum si era alzato, comprimendosi con le mani il ventre.

Aveva la schiuma alle labbra e gli occhi gli uscivano dalle orbite.

– Dell’acqua… miserabili! – urlava spaventosamente.

La sua voce non aveva più nulla d’umano. Dalle labbra gli uscivano dei ruggiti che impressionavano perfino la Tigre della Malesia.

 

Anche Yanez si era alzato di fronte al ministro.

– Parlerai? – gli chiese freddamente.

– No! – urlò il disgraziato.

– E allora noi non ti daremo una goccia d’acqua.

– Sono avvelenato.

– Ti dico di no.

– Datemi da bere!

– Kammamuri! Entra! —

Il maharatto, che doveva essere dietro la porta, si fece innanzi portando due bottiglie di cristallo piene d’acqua limpidissima e le depose sulla tavola.

Kaksa Pharaum, all’estremo delle sue sofferenze, aveva allungate le mani per afferrarle, ma Yanez fu pronto a fermarlo.

– Quando mi avrai detto dove si trova la pietra di Salagraman tu potrai bere finché vorrai, – gli disse. – Ti avverto però che tu rimarrai in nostra mano finché l’avremo trovata, quindi sarebbe inutile ingannarci.

– Brucio tutto! Una goccia d’acqua, una sola…

– Dimmi dove è la pietra.

– Non lo so…

– Lo sai, – rispose l’implacabile portoghese.

– Uccidetemi allora.

– No.

– Siete dei miserabili!

– Se lo fossimo, non saresti più vivo.

– Non posso più resistere! —

Yanez prese un bicchiere e lo empì lentamente d’acqua.

Kaksa Pharaum seguiva, cogli occhi smarriti, quel filo d’acqua, ruggendo come una fiera.

– Parlerai? – chiese Yanez, quand’ebbe finito.

– Sì… sì… – rantolò il ministro. – Dov’è dunque?

– Nella pagoda di Karia.

– Lo sapevamo anche noi. Dove?

– Nel sotterraneo che s’apre sotto la statua di Siva.

– Avanti.

– Vi è una pietra… un anello di bronzo… alzatela… sotto in un cofano…

– Giura su Siva che hai detto la verità.

– Lo… giuro… da bere…

– Un momento ancora. Veglia qualcuno nel sotterraneo?

– Due guardie.

– A te. —

Invece di prendere il bicchiere il ministro afferrò una delle due bottiglie e si mise a bere a garganella, come se non dovesse finire più.

La vuotò più che mezza, poi la lasciò bruscamente cadere e stramazzò, come fulminato, fra le braccia di Kammamuri che gli si era messo dietro.

– Coricalo sul divano, – gli disse Yanez. – Per Giove, che droga infernale hai messo dentro quell’intingolo? Mi assicuri che non morrà, è vero?

– Non temete, signor Yanez, – rispose il maharatto. – Non ho messo che una foglia di serhar, una pianta che cresce nel mio paese.

Domani quest’uomo starà benissimo.

– Tu lo sorveglierai e metterai due dei nostri alla porta. Se fugge siamo tutti perduti.

– E noi dunque che cosa faremo? – chiese Sandokan.

– Aspetteremo questa sera e andremo ad impadronirci della famosa pietra di Salagraman e del non meno famoso capello di Visnù.

– Ma perché ci tieni tanto ad avere quella conchiglia?

– Lo saprai più tardi, fratellino. Fidati di me. —

4. La pietra di Salagraman

Dodici o quattordici ore dopo la confessione del primo ministro del rajah dell’Assam, un drappello bene armato lasciava la pagoda sotterranea, avanzandosi con profondo silenzio lungo la riva sinistra del Brahmaputra.

Era composto di Yanez, Sandokan, Tremal-Naik e di dieci uomini, per la maggior parte malesi e dayachi che, oltre le carabine e quei terribili pugnali colla lama serpeggiante chiamati kriss, portavano delle funi arrotolate intorno ai fianchi, delle torce e dei picconi.

Essendo il sole tramontato già da quattro o cinque ore, nessun essere vivente passeggiava sotto i pipal, i fichi baniani e le palme, che coprivano la riva del fiume, proiettando una fitta ombra.

Il drappello, dopo aver percorso qualche miglio senza aver scambiata una parola, si era arrestato di fronte ad un’isoletta che sorgeva quasi in mezzo al fiume, all’altezza dell’estremità orientale del popoloso sobborgo di Siringar.

– Alt! – aveva comandato Yanez. – Bindar non deve essere lontano.

– È l’indiano che tu hai assoldato? – chiese Sandokan. – Potremo fidarci di lui?

– Surama mi ha detto che è il figlio d’uno dei servi di suo padre e che perciò non dobbiamo dubitare della sua lealtà.

– Uhm! – fece la Tigre crollando il capo. – Io non mi fido che dei miei malesi e dei miei dayachi.

– Lui conosce la pagoda anche internamente, mentre noi non l’abbiamo veduta che all’esterno. Una guida ci era necessaria. —

S’accostò ad una enorme macchia di bambù alti per lo meno quindici metri, che curvavano le loro cime sopra le acque del fiume, e mandò un debole fischio, ripetendolo poi tre volte ad intervalli diversi.

Non erano trascorsi dieci secondi quando fra quelle immense canne si udirono dei leggeri fruscii, poi un uomo sorse bruscamente dinanzi al portoghese, dicendogli:

– Eccomi, sahib. —

Era un giovane indiano di forse vent’anni, bene sviluppato, dall’aria intelligentissima ed i lineamenti piuttosto fini delle caste guerriere. Non aveva indosso che un semplice gonnellino un po’ lungo, il languti degli indù, stretto da una piccola fascia di cotone azzurro, entro cui era passato un pugnale dalla lama larghissima, in forma quasi d’un ferro di lancia ed il corpo aveva interamente spalmato di cenere, probabilmente raccolta sul luogo dove si ardono i cadaveri, e che è il distintivo poco attraente dei seguaci di Siva.

– Hai condotto la bangle? – chiese Yanez.

– Sì, padrone, – rispose l’indiano. – È nascosta sotto i bambù.

– Sei solo?

– Tu non mi avevi detto, sahib, di condurre altri. Avrei avuto più piacere, perché la bangle è pesante a guidarsi.

– I miei uomini sono gente di mare. Imbarchiamoci subito.

– Devo avvertirti d’una cosa però.

– Parla e sii breve.

– So che questa notte dinanzi alla pagoda devono bruciare il cadavere d’un bramino.

– Durerà molto la cerimonia?

– Non credo.

– Il nostro arrivo non desterà qualche sospetto?

– E perché sahib? Le barche approdano sovente all’isolotto, – disse l’indiano.

– Andiamo allora.

– Avrei però desiderato meglio che nessuno ci vedesse a sbarcare, – disse Sandokan.

– Rimarremo a bordo, finché tutti si saranno allontanati, – rispose Yanez. – Non faranno troppa attenzione a noi. —

Seguirono il giovane indiano, aprendosi faticosamente il passo fra quelle durissime canne giganti, che alla base avevano la circonferenza d’una coscia di fanciullo, e giunsero sulla riva del fiume.

Sotto le ultime canne che, curvandosi verso l’acqua, formavano delle superbe arcate, stava nascosto uno di quei pesanti battelli, che gl’indiani adoperano sui loro fiumi per trasportare il riso, privo però degli alberi, ma provvisto invece d’una tettoia di stoppie destinata a riparare l’equipaggio dalle ingiurie del tempo.

Yanez ed i suoi compagni s’imbarcarono; i malesi ed i dayachi afferrarono i lunghi remi e la bangle lasciò il nascondiglio dirigendosi verso l’isolotto, nel cui mezzo giganteggiava fra le tenebre una enorme costruzione in forma di piramide tronca.

L’indiano aveva detto il vero annunciando un funerale. La massiccia barca non aveva percorsa ancora mezza distanza, quando sulla riva dell’isolotto si videro comparire numerose torce e raggrupparsi intorno ad una minuscola cala che doveva servire d’approdo alle barche del fiume.

– Ecco dei guasta affari, – disse Yanez a Tremal-Naik. – Ci faranno perdere un tempo prezioso.

– Sono appena le dieci, – rispose l’indiano – e per la mezzanotte tutto sarà finito.

Trattandosi d’un bramino, la cerimonia sarà più lunga delle altre, avendo diritto a speciali riguardi anche dopo morte.

Se il morto fosse un povero diavolo qualunque la faccenda sarebbe spiccia.

Una tavola di legno per coricarvi il cadavere, una lampadina accesa da mettergli in fondo ai piedi, una spinta e buona notte.

La corrente s’incarica di portare il morto nel sacro Gange, quando i coccodrilli e i marabù lo risparmiano.

– Ciò che accadrà di rado, – disse Sandokan, che stava seduto sul bordo della bangle.

– Puoi contarlo come un caso miracoloso, – rispose Tremal-Naik. – Appena oltrepassata la città, sauriani e volatili vanno a gara per far sparire carne ed ossa.

– E di quel bramino che cosa faranno invece? – chiese Sandokan.

– Il funerale sarà un po’ lungo, esigendo certe formalità speciali. Innanzi a tutto quando un bramino entra in agonia non si trasporta semplicemente sulla riva del fiume, perché spiri al dolce mormorìo dell’acqua, che lo trasporterà nel cailasson, ossia nel paradiso; bensì in un luogo speciale, che prima sarà stato accuratamente cosparso di sterco di mucca e su un pezzo di cotone mai prima di allora usato.

– Uscito poco prima dal cotonificio, – disse Yanez, ridendo. – Ah! Siete dei bei matti voi indiani.

– Oh! Aspetta un po’, – disse Tremal-Naik. – Giunge allora un sacerdote bramino accompagnato dal suo primogenito onde procedere alla cerimonia chiamata sarva prayasibrit.

– Che cosa vuol dire?

– La purificazione dei peccati.

– Toh! Credevo che i bramini non ne commettessero mai!

– Ed in che consiste? – chiese Sandokan che pareva s’interessasse vivamente di quegli strani particolari.

– Nel versare in bocca al moribondo un liquore speciale dei bramini, che si pretende sacro, mentre ai seguaci di Visnù si somministra un po’ d’acqua dove fu messa una pietra di Salagraman qualunque.

– Per soffocarli più presto è vero? – disse Yanez. – Infatti non è certamente un bel divertimento assistere all’agonia d’un moribondo.

È meglio spedirlo presto all’altro mondo.

– Ma no, – rispose Tremal-Naik – si lascia morire in pace… cioè, veramente no, perché il moribondo deve aggrapparsi alla coda d’una mucca e lasciarsi trascinare per un certo tratto di via onde egli sia ben sicuro di ritrovarne una di simile che lo aiuterà a passare il fiume di fuoco che gira intorno al Yama-lacca, dove abita il dio dell’inferno.

– Così la finiscono più presto, – disse l’incorreggibile Yanez. – Un po’ di galoppo dietro una mucca non deve far male ad un povero moribondo che sta per vomitare la sua anima. E poi?

– Lo vedremo quando avremo affondata l’ancora, – rispose Tremal-Naik. – Vedo una donna che gira sulla riva alzando disperatamente le braccia. Deve essere la sposa del morto.

– E questo tonfo nel fiume lo hai udito?

– È il figlio primogenito del bramino, che si è gettato nel fiume, dopo d’aver indossato i suoi più bei vestiti, prima di farsi tagliare accuratamente la barba, se ne ha, ed i capelli.

– Se io fossi il viceré dell’India farei rinchiudere in un ospedale di pazzi tutti i bramini del reame. Parola di Yanez.

– Queste cerimonie sono dettate dai libri sacri.

– Scritti quando quei sacerdoti erano pieni di bâng. —

La grossa barca in quel momento era giunta dinanzi al minuscolo seno, e Bindar aveva lasciata cadere l’ancora, arrestandola ad una quindicina di passi dalla riva.

Quindici o venti persone si erano radunate intorno ad una specie di palanchino formato di bambù intrecciati, su cui riposava un cadavere, che aveva indosso un ampio dootèe di seta gialla.

Dovevano essere tutti parenti ed amici del morto, però si vedevano in mezzo a loro alcuni pourohita ossia sacerdoti bramini accompagnati da tre o quattro gouron, specie di sagrestani incaricati dalla pulizia delle pagode e dei bassi servizi del culto.

Tutti avevano delle torce, sicché Yanez ed i suoi compagni potevano osservare benissimo quanto quegli uomini stavano per compiere.

Il primogenito del morto era uscito dal fiume, si era fatto già radere in fretta e si era accostato al genitore, seguìto dalla madre alla quale i parenti avevano levato il thaly, quel gioiello che è l’insegna delle donne sposate e tagliati i capelli, che non doveva più mai lasciarsi crescere durante tutta la sua vedovanza.

Il primo gettò sul cadavere una manata di fiori, poi fece alzare la barella e la fece trasportare alcuni passi più lontano, dove era una buca lunga due metri e larga uno, circondata da pezzi di legna e da sterco disseccato di mucca e fece deporre vicino un vaso di terra entro cui bruciavano dei carboni.

Il morto fu privato della sua bella veste e dei gioielli, per non perdere inutilmente l’una e gli altri, poi il primogenito mise sul petto nudo del bramino un pezzo di sterco acceso, vi versò sopra un po’ di burro sciolto e mise in bocca al cadavere una mezza rupia e alcuni granelli di riso che prima aveva bagnati con un po’ di saliva e si ritrasse, pronunciando una preghiera.

I parenti s’accostarono a loro volta, accumulando sul bramino le legne e le mattonelle di sterco.

– È finita la cerimonia? – chiese Yanez a Tremal-Naik.

– Aspetta un momento. Il figlio deve ancora compiere qualche cosa. —

Il giovane infatti aveva preso un vaso di terra pieno d’acqua e l’aveva spaccato con violenza sulla testa del defunto.

 

– Ah! birbante! – esclamò il portoghese.

– Perché? Ora almeno è sicuro che suo padre è veramente morto.

– Se fosse stato ancora agonizzante l’avrebbe accoppato egualmente. —

I parenti avevano fatto circolo accostando le torce al rogo.

Una gran fiamma si sprigionò subito rompendo bruscamente le tenebre e avvolgendo, con rapidità incredibile, il cadavere, che era tutto cosparso di burro.

Fra il crepitare del legname ben imbevuto di materie resinose ed il salmodiare del pourohita e dei suoi aiutanti, si udivano le urla disperate del figlio e della vedova, ed ai bagliori delle fiamme si vedevano i parenti a rotolarsi per terra ed a picchiarsi il petto con pugni tremendi.

– Quegli stupidi vogliono sfondarsi le costole, – diceva Yanez. – Non mi stupirei che domani fossero tutti a letto. —

Quella fiammata gigantesca non durò che un quarto d’ora, poi quando il cadavere fu consumato, i parenti con pale di ferro raccolsero la cenere e le ossa e le gettarono nel fiume, quindi si allontanarono tutti in silenzio, scomparendo ben presto sotto gli alberi, che coprivano buona parte dell’isolotto.

– Possiamo sbarcare ora? – chiese Sandokan rivolgendosi a Bindar, che era rimasto sempre silenzioso.

– Sì, sahib, – rispose l’indiano. – A quest’ora i gurum della pagoda devono dormire profondamente.

– Andiamo dunque. Sono impaziente di condurre a termine questa avventura notturna.

– E di menare possibilmente le mani, è vero, fratellino? – disse Yanez.

– Sì, se si può, – rispose la Tigre della Malesia. – Le mie braccia cominciano ad irrugginirsi. —

Allentarono la fune dell’ancora e con pochi colpi di remo spinsero la bangle verso la riva.

– Che due uomini rimangano a guardia della barca, – disse Yanez. – Dobbiamo assicurarci la ritirata. —

Raccolsero le armi e scesero silenziosamente a terra, cacciandosi sotto un bosco, formato quasi esclusivamente di palmizi tara e d’immensi gruppi di bambù.

Bindar si era messo alla testa del drappello, fiancheggiato da Yanez, il quale voleva sorvegliarlo personalmente, non avendo, checché avesse detto a Sandokan, una completa fiducia di quell’indiano, che da soli pochi giorni conosceva.

La pagoda non era lontana più di due tiri di carabina, quindi in una ventina di minuti e anche meno, il drappello poteva giungervi.

Tutti però si avanzavano con estrema prudenza onde non farsi scorgere. Era molto improbabile che a quell’ora così inoltrata qualche indiano passeggiasse per quelle boscaglie, nondimeno si tenevano in guardia.

Attraversata la zona dei palmizi e dei bambù, si trovarono improvvisamente dinanzi ad una vasta radura, interrotta solamente da gruppi di piccole piante.

Nel mezzo giganteggiava la pagoda di Karia.

Come abbiamo detto, quel tempio, veneratissimo da tutti gli assamesi, perché conteneva la famosa pietra di Salagraman col capello di Visnù, si componeva d’una enorme piramide tronca; colle pareti abbellite da sculture che si succedevano senza interruzione dalla base alla cima e che rappresentavano in dimensioni più o meno grandiose, le ventuno incarnazioni del dio indiano.

Quindi, pesci colossali, testuggini, cinghiali, leoni, giganti, nani, cavalli, ecc.

Solo dinanzi alla porta d’entrata si rizzava una torre piramidale più piccola, il cobrom, coronato da una cupola e colle muraglie pure adorne di figure per la maggior parte poco pulite, rappresentanti la vita, le vittorie e le disgrazie delle diverse divinità.

Ad una altezza di venti piedi s’apriva una finestra sul cui davanzale ardeva una lampada.

– È per di là che dovremo entrare, sahib, – disse Bindar volgendosi verso Yanez, che aveva corrugata la fronte, scorgendo quel lume.

– Temevo che qualcuno vegliasse nella pagoda, – rispose il portoghese.

– Non avere alcun timore: è uso mettere una lampada sulla prima finestra del cobrom.

Se fosse un giorno festivo, ve ne sarebbero quattro invece d’una.

– Dove troveremo la pietra di Salagraman? Nella pagoda o in questa specie di torre?

– Nella pagoda di certo. —

Yanez si volse verso i suoi uomini, chiedendo:

– Chi saprà raggiungere quella finestra e gettarci una fune?

– Se forzassimo la porta invece? – chiese Sandokan.

– Perderesti inutilmente il tuo tempo, – disse Tremal-Naik. – Tutte quelle dei nostri templi sono di bronzo e d’uno spessore enorme.

D’altronde i tuoi uomini non saranno troppo imbarazzati a giungere lassù. Sono come le scimmie del loro paese.

– Lo so, – rispose Yanez.

Indicò due dei più giovani del drappello e disse semplicemente loro:

– In alto, fino alla finestra! —

Non aveva ancora finito, che quei diavoli, un malese ed un dayaco, salivano già aggrappandosi alle divinità, ai giganti, ai trimurti indù rappresentanti lo sconcio lingam che riunisce Brahma, Siva e Visnù.

Per quei marinai, mezzi selvaggi, abituati a salire di corsa le alberature delle navi e camminare come fossero a terra sui leggeri pennoni dei loro prahos o inerpicarsi sugli altissimi durion delle loro foreste, non era che una semplice scalata quella manovra.

In meno di mezzo minuto si trovarono entrambi sul davanzale della finestra, da dove gettarono due funi, dopo di averle assicurate a due aste di ferro, che sostenevano due gabbie destinate a contenere dei batuffoli di cotone imbevuti d’olio di cocco durante le straordinarie illuminazioni.

– A me pel primo, – disse Sandokan. – A te l’altra fune, Tremal-Naik.

Tu Yanez, alla retroguardia.

– A me, che devo conquistare il trono di Surama! – esclamò il portoghese.

– Ragione di più per conservare la preziosissima persona d’un futuro rajah, – rispose Tremal-Naik, sorridendo. – I pezzi grossi non devono esporsi ai gravi pericoli che all’ultimo momento.

– Andate al diavolo!

– Niente affatto, saliremo verso il cielo invece.

– Va’ a trovare Brahma adunque! —

Sandokan e Tremal-Naik si issarono rapidamente, scomparendo fra le tenebre. Quando i malesi ed i dayachi videro la fune a scuotersi, a loro volta cominciarono la salita, mentre il portoghese ne regolava l’ascensione.

Frattanto la Tigre della Malesia e l’indiano avevano raggiunto il davanzale, dove si tenevano a cavalcioni il malese ed il dayaco, i quali si erano già affrettati a spegnere il lume onde non si potessero scorgere le persone che salivano.

– Avete udito nulla? – aveva chiesto subito Sandokan.

– No, padrone.

– Vediamo se qui vi è un passaggio.

– Lo troveremo di certo, – disse Tremal-Naik. – Tutti i cobrom comunicano colla pagoda centrale.

– Accendete una torcia. —

Il malese, che ne aveva due passate nella fascia, fu pronto a obbedire.

Sandokan la prese, s’abbassò fino quasi a terra onde la luce non si espandesse troppo e fece qualche passo innanzi.

Si trovavano in una minuscola stanza, la quale aveva una porta di bronzo assai bassa e che era solamente socchiusa.

– Suppongo che metterà su una scala, – mormorò.

La spinse, cercando di non produrre alcun rumore e si trovò dinanzi ad un pianerottolo pure minuscolo. Sotto s’allungava una stretta gradinata che pareva girasse su se stessa.

– Finché gli altri salgono, esploriamo, – disse Tremal-Naik.

– Lasciate che vi preceda, – disse una voce.

Era Bindar, il quale aveva preceduto tutti gli altri.

– Conosci il passaggio? – gli chiese Sandokan.

– Sì, sahib.

– Passa dinanzi a noi e bada che noi non staccheremo un solo istante i nostri sguardi da te. —

Il seguace di Siva ebbe un sorriso, ma non rispose affatto.

La scala era strettissima, tanto da permettere a malapena il passaggio a due uomini situati l’uno a fianco dell’altro.

Sandokan e Tremal-Naik, seguìti dagli altri, che raggiungevano a poco a poco la finestra, si trovarono ben presto in un corridoio, che pareva si avanzasse verso il centro della pagoda e che scendeva molto rapidamente.

– Ci siete tutti? – chiese il pirata, arrestandosi.

– Ci sono anch’io, – rispose Yanez, facendosi innanzi. – Le funi sono state ritirate. —

La Tigre della Malesia sfoderò la scimitarra che gli pendeva dal fianco e che scintillò, alla luce della torcia, come se fosse d’argento, essendo formata di quell’impareggiabile acciaio naturale che non si trova che nelle miniere del Borneo; poi disse con voce risoluta:

– Avanti! L’antico pirata di Mompracem vi guida! —

Percorso il corridoio e trovata un’altra scala, entrarono, dopo averla discesa, in una immensa sala, in mezzo alla quale si rizzava, su un enorme quadro di pietra, una statua rappresentante un pesce colossale.

Era quella la prima incarnazione del dio conservatore, così tramutato per salvare dal diluvio il re Sattiaviraden e la moglie di lui, servendo sotto quella forma di timone alla nave che aveva loro mandato per sottrarli al diluvio universale.