Za darmo

Alla conquista di un impero

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2. Il rapimento d’un ministro

Yanez vuotò un bicchierone di quella pessima birra, non senza fare una smorfia, poi levò da un bellissimo portasigari di tartaruga con cifre in diamanti, due grossi manilla e ne offrì uno al ministro, dicendogli con un sorriso bonario:

– Prendete questo sigaro, Eccellenza. Mi hanno detto che siete un fumatore, cosa piuttosto rara fra gl’indiani, che preferiscono invece quel detestabile betel che rovina i denti e guasta la bocca. Sono certo che non avete mai fumato un sigaro così delizioso.

– Ho imparato a fumare a Calcutta, dove ho soggiornato qualche tempo in qualità d’ambasciatore straordinario del mio re, – disse il ministro, prendendo il manilla.

Yanez gli porse uno zolfanello, accese anche il proprio sigaro, gettò in aria tre o quattro boccate di fumo odoroso, che per qualche istante offuscarono la luce della lampada, poi riprese, fissando con una certa malizia il ministro, che assaporava da buongustaio il delizioso aroma del tabacco filippino:

– Io sono qui venuto, come vi dissi, Eccellenza, per incarico del viceré del Bengala per avere da voi delle informazioni sui moti che si stanno svolgendo nell’alta Birmania.

Voi che siete confinanti con quel turbolento regno, che ci ha sempre dato dei gravi fastidi, ne saprete certo qualche cosa.

Vi avverto innanzi a tutto, Eccellenza, che il governo delle Indie vi sarà non solo gratissimo, ma che anche vi ricompenserà largamente. —

Udendo parlare di ricompense, il ministro, venale come tutti i suoi compatriotti, spalancò gli occhi ed ebbe un risolino di contentezza.

– Ne sappiamo più di quello che potreste supporre, – disse poi. – È vero: nell’alta Birmania è scoppiata una violentissima insurrezione, promossa a quanto pare da un intraprendente talapoino, che ha gettato la tonaca gialla del monaco per impugnare la scimitarra.

– E contro chi?

– Contro il re Phibau e sopratutto contro la regina Su-payah-Lat che ha fatto strangolare, il mese scorso, le due giovani mogli del monarca, una delle quali era stata scelta fra le principesse dell’alta Birmania.

– Che storia mi raccontate voi?

– Ve la spiegherò meglio, mylord, – disse il ministro, socchiudendo gli occhi.

Secondo le leggi birmane, il re può avere quattro mogli; però il suo successore è obbligato a sposare la propria sorella o per lo meno una principessa sua parente, affinché si conservi puro il sangue reale.

Quando Phibau, che è il monarca attuale, salì al trono, c’erano nella sua famiglia due sorelle degne di salire al trono del fratello.

Il re sentiva maggior inclinazione per la maggiore; ma la più giovane, la principessa Su-payah-Lat si era messa in testa di diventare anch’essa regina, per ciò fece mostra dappertutto del più ardente affetto pel sovrano e seppe così indurre la regina madre a decidere, nella sua alta sapienza, che quell’amore meritava di essere ricompensato e che il figlio doveva sposarle entrambe.

Il disegno però fu sventato dalla maggiore delle sorelle, la principessa Ta-bin-deing, la quale aveva preferito entrare in un monastero buddista.

È chiaro tutto ciò?

– Chiarissimo, – rispose Yanez, che trovava un ben scarso interesse in quel racconto. – E poi, Eccellenza?

– Phibau allora sposò Su-payah-Lat e altre due principesse, una delle quali apparteneva all’alta classe della Birmania settentrionale.

– E per dispetto le fece strangolare?

– Sì, mylord.

– E dopo che cosa è successo? Un nuovo strangolamento, da parte del re questa volta?

– Niente affatto. Su-payah-pa… pa…

– Avanti, Eccellenza, – disse Yanez, guardandolo malignamente.

– Dov’ero… rimasto? – chiese il ministro, che pareva facesse degli sforzi supremi per tenere aperti gli occhi.

– Al terzo strangolamento.

– Ah sì! Su-payah-pa… pa… pa… è chiaro?

– Chiarissimo. Ho capito tutto.

– Pa… pa… un figlio… gli astrologi di corte… mi capite bene, mylord?

– Benissimo.

– Poi strangolò le due regine…

– Lo so.

– E Su… pa…

– Mi pare che diventi terribile quel pa… pa… per la vostra lingua. Per Giove! Avreste bevuto troppo questa sera? —

Il ministro, che per la ventesima volta aveva chiusi e riaperti gli occhi, guardò Yanez come trasognato, poi si lasciò sfuggire dalle labbra il sigaro e tutto d’un colpo s’abbandonò prima sullo schienale della sedia, poi rotolò a terra come se fosse stato colpito da sincope.

– Briccone d’un sigaro! – esclamò Yanez, ridendo. – Quell’oppio doveva essere di prima qualità. Ed ora, all’opera, giacché tutti dormono. Ah! Tu credevi, Sandokan, che la mia fantasia si fosse spenta? Vedrai. —

Raccolse innanzi a tutto il sigaro, che il ministro aveva lasciato cadere e s’accostò alla finestra che era aperta.

Quantunque non brillasse più alcun lume, essendo gl’indiani molto economici in fatto d’illuminazione, anche perché le notti colà sono chiare ed il cielo quasi sempre purissimo, scorse subito parecchie persone che passeggiavano lentamente, a gruppi di tre o quattro, come onesti cittadini che si godono un po’ di frescura, fumando e cianciando.

– Sandokan ed i tigrotti, – mormorò Yanez, stropicciandosi le palme. – Tutto va benissimo. —

Gettò via il mozzicone di sigaro lasciato cadere dal ministro, accostò alle labbra due dita e mandò un sibilo dolcemente modulato.

Udendolo, le persone che passeggiavano s’arrestarono di colpo, poi, mentre alcune si dirigevano verso le due estremità della via onde impedire che qualcuno si avvicinasse, un gruppo si fermò sotto la finestra illuminata.

– Pronti, – disse una voce.

– Aspetta un momento, – rispose Yanez.

Strappò i grossi cordoni di seta della tenda, li legò insieme fortemente, provò la loro solidità, poi assicurò un capo al gancio d’una imposta e l’altro lo strinse sotto le ascelle del disgraziato ministro che conservava sempre una immobilità assoluta.

– Pesa ben poco S. E., – disse Yanez, prendendoselo in braccio.

Lo portò verso la finestra e afferrato strettamente il cordone si mise a calarlo.

Dieci braccia furono pronte a prenderlo, appena ebbe toccato il suolo.

– Aspettate me, ora, – disse Yanez a bassa voce.

Spense la lampada, s’aggrappò alla corda ed in un attimo si trovò sulla via.

– Tu sei un vero demonio, – gli disse Sandokan. – Non l’avrai ucciso, spero.

– Domani starà bene quanto noi, – rispose Yanez, sorridendo.

– Che cosa hai fatto bere a quest’uomo, che sembra morto?

– Quest’uomo! Rispetta le Eccellenze, fratellino. È il primo ministro del rajah, mio caro.

– Saccaroa! Tu fai sempre colpi grossi.

– Andiamo e alla lesta, Sandokan. Può giungere la guardia notturna.

Hai qualche veicolo?

– Vi è un tciopaya fermo sull’angolo della via.

– Raggiungiamolo senza perdere tempo. —

Con un sibilo simile a quello che aveva lanciato poco prima Yanez, il pirata malese fece accorrere tutti i suoi uomini che vigilavano all’estremità della via e tutti insieme raggiunsero un gran carro, che aveva la cassa dipinta d’azzurro e che reggeva una specie di cupoletta formata di frasche sotto la quale stavano due materassi.

Era uno di quei comodi veicoli che gl’indiani adoperano quando intraprendono qualche lungo viaggio e che sono chiamati tciopaya, dove, al riparo dal sole, possono mangiare, fumare e dormire, essendo la cassa divisa in due parti: una che serve da salotto e una da stanza da letto.

Quattro paia di zebù, bianchissimi, colle gobbe cadenti ed i dorsi coperti da gualdrappe di stoffa rossa, erano aggiogati al massiccio ruotabile.

Il ministro fu deposto su un materasso, Yanez e Sandokan vi si sedettero presso e, mentre i loro compagni, per non destare sospetti, si disperdevano, il carro si mise in moto, guidato da un malese vestito da indiano che teneva in mano una torcia per illuminare la via.

– Subito a casa, – disse Sandokan al cocchiere.

Poi, volgendosi verso Yanez che stava accendendo una sigaretta, gli chiese:

– Parlerai ora? Io non riesco affatto a capire che razza d’idea ti è nata nel cervello.

Credevo che ti ammazzassero davvero là dentro.

– Un uomo bianco e mylord! Uhm! Non l’avrebbero mai osato, – rispose Yanez, aspirando lentamente il fumo e rigettandolo con altrettanta lentezza.

– Hai giuocato però una partita che poteva costarti cara.

– Bisogna ben divertirsi qualche volta.

– Insomma che cosa vuoi fare di questa mummia?

– È una Eccellenza, ti ho detto.

– Che non farà mai una bella figura alla corte del rajah.

– La farò invece io.

– Vuoi dunque introdurti alla corte di quel sospettoso tiranno? Sono otto giorni che tutti continuano a ripeterci che non vuol vedere nessun europeo.

– Ed io ti dico che mi riceverà e con grandi onori. Aspetta che io possa avere nelle mie mani la pietra di Salagraman ed il famoso capello di Visnù e vedrai come mi accoglierà.

– Chi?

– Il rajah, – rispose Yanez. – Credevi tu che io fossi venuto qui a guardare il bel paese della mia Surama, senza darle anche la corona?

– Era ben questa la nostra idea, – disse Sandokan. – Non avrei lasciato il Borneo per fare delle passeggiate per le vie di Gauhati.

Non riesco però a comprendere che cosa possa entrare il rapimento d’un ministro, il capello di Visnù e la pietra di Salagraman colla conquista d’un regno.

– Sai tu, innanzi a tutto, fratellino, dove i sacerdoti tengono nascosta la conchiglia?

– Io no.

– E nemmeno io, quantunque abbia interrogati, in questi otto giorni, non so quanti indiani.

– Chi ce l’indicherà dunque?

– Il ministro, – rispose Yanez.

Sandokan guardò il portoghese con vera ammirazione.

– Ah! che diavolo d’uomo! – esclamò poi. – Tu saresti capace di giuocare Brahma, Siva e anche Visnù insieme.

 

– Forse, – rispose Yanez, ridendo. – Troveremo però alla corte del rajah un ostacolo che sarà duro da abbattere.

– Che cos’è?

– Un uomo.

– Se hai rapito un ministro, potrai fare scomparire anche quello.

– Si dice che goda una grande influenza a corte e che sia lui che fa di tutto per impedire agli stranieri di razza bianca di metterci dentro i piedi.

– Chi è?

– Un europeo, mi hanno detto.

– Qualche inglese.

– Non ho potuto saperlo. Ce lo dirà il ministro. —

Una brusca fermata che per poco non fece loro perdere l’equilibrio, interruppe la loro conversazione.

– Siamo giunti, padrone, – disse il conduttore del carro.

Dieci o dodici uomini, gli stessi che li avevano aiutati a rapire il ministro, erano usciti da una porta, schierandosi silenziosamente ai due lati del veicolo.

– Vi ha seguìti nessuno? – chiese loro Sandokan, balzando a terra.

– No, padrone – risposero ad una voce.

– Nulla di nuovo nella pagoda?

– Calma assoluta.

– Prendete il ministro e portatelo nel sotterraneo di Quiscena. —

Il carro si era fermato dinanzi ad una gigantesca roccia che s’appoggiava in parte al Brahmaputra e che s’alzava in una località deserta affatto, non essendovi intorno che delle antichissime muraglie semidiroccate, che un tempo dovevano aver servito di cinta alla città e ad ammassi colossali di macerie.

Sulla fronte, al di sopra di una porta di bronzo, si scorgevano confusamente delle divinità indiane, di pietra nera, allineate su una specie di cornicione sorretto da una infinità di teste d’elefante, scavate nella roccia e che tenevano le proboscidi arrotolate.

Doveva essere qualche pagoda sotterranea, come già ve ne sono tante nell’India, poiché in alto non si vedeva alcuna cupola né semi-circolare, né piramidale.

Altri uomini erano usciti, portando delle torce ed unendosi ai primi. Pareva che tutte quelle persone, quantunque indossassero costumi assamesi, appartenessero a due razze ben distinte che nulla o ben poco avevano d’indiano.

Infatti, mentre alcuni erano bassi e piuttosto tarchiati, colla pelle fosca che aveva dei riflessi olivastri con sfumature rossastro cupo e gli occhi piccoli e nerissimi, altri invece erano piuttosto alti, di colore giallastro, coi lineamenti bellissimi, quasi regolari e gli occhi grandi, bene aperti ed intelligentissimi.

Un uomo che avesse avuto profonda conoscenza della regione malese, non avrebbe esitato a classificare i primi per malesi autentici e gli altri per dayachi bornesi, due razze che si equivalevano per ferocia, per audacia e per coraggio indomito.

– Prendete quest’uomo, – aveva detto Yanez, scendendo dal carro e sporgendo il ministro sempre addormentato.

Un malese che aveva il volto rugoso, ma i capelli ancora nerissimi e forme quasi atletiche, afferrò fra le poderose braccia Kaksa Pharaum e lo trasportò nella pagoda.

– Conduci il carro nel nascondiglio, – proseguì Yanez volgendosi verso il conduttore. – Quattro uomini rimangano qui fuori a guardia.

Possiamo essere stati seguiti. —

Prese sotto braccio Sandokan, riattizzò la sigaretta e varcarono la soglia, inoltrandosi in un angusto corridoio, ingombro di rottami staccatisi dall’umida volta e che pareva s’addentrasse nelle viscere della colossale roccia.

Dopo aver percorsi cinquanta o sessanta metri, preceduti dagli uomini che portavano le torce e seguìti dagli altri, giungevano ad una immensa sala sotterranea, scavata nel vivo masso, di forma circolare, nel cui centro s’ergevano, sopra una pietra rettangolare, di dimensioni enormi, le tre dee: Parvati, Latscimi e Sarassuadi, la prima, protettrice delle armi siccome dea della distruzione; la seconda, delle vetture, dei battelli e degli animali quale dea della ricchezza; la terza, dei libri e degl’istrumenti musicali come dea delle lingue e dell’armonia.

– Fermatevi qui, – disse Yanez a coloro che lo accompagnavano. – Tenete pronte le carabine: non si sa mai quello che può succedere. —

Prese una torcia e seguìto sempre da Sandokan entrò in un secondo corridoio, un po’ più stretto del primo e lo percorse finché fu giunto in una stanza, pure sotterranea, ammobigliata sontuosamente e illuminata da una bellissima lampada dorata che reggeva un globo di vetro giallastro.

Le pareti ed il pavimento erano coperti da fitte tappezzerie del Guzerate, scintillanti d’oro e rappresentanti per lo più belve strane, solo esistite nella fervida fantasia degli indù e all’intorno vi erano comodi e larghi divani di seta e mensolette di metallo sorreggenti dei fiaschi dorati e delle coppe.

Nel mezzo, una tavola con incrostazioni di madreperla e di scagliette di tartaruga che formavano dei bellissimi disegni, con intorno parecchie sedie di bambù.

Solo una parte della parete era scoperta, essendovi incastrato, in una vasta nicchia, un pastore colla faccia nera: era Quiscena, il distruttore dei re malvagi e crudeli, che formavano l’infelicità del popolo indiano.

Il ministro era stato deposto su uno di quei soffici divani e russava beatamente come se si trovasse nel suo letto.

– È tempo di svegliarlo, – disse Yanez, gettando la sigaretta e prendendo da una mensola un fiasco dal collo lunghissimo, il cui vetro rosso era racchiuso da una specie di rete di metallo dorato. – Noi abbiamo pratica di veleni e d’antidoti, è vero, Sandokan?

– Non saremmo stati tanti anni laggiù, nel regno degli upas, – rispose il pirata. – Gli hai fatto fumare dell’oppio?

– Ben nascosto sotto la foglia del sigaro, – disse Yanez. – Lo avevo coperto così bene da sfidare l’occhio più sospettoso.

– Due gocce di quel liquido in un bicchiere d’acqua basteranno per farlo saltare in piedi. Il suo cervello non tarderà molto a snebbiarsi.

– Vediamo, – disse il portoghese. Empì un bicchiere d’acqua preso da una bottiglia di cristallo che si trovava sulla tavola e vi lasciò cadere due gocce d’un liquido rossastro.

L’acqua spumeggiò, prendendo una tinta sanguigna, poi a poco a poco riacquistò la solita limpidezza.

– Aprigli la bocca, Sandokan, – disse allora il portoghese.

Il pirata s’avvicinò al ministro tenendo in mano un pugnale e colla punta lo sforzò ad aprire i denti, che erano fortemente chiusi.

– Presto, – disse Sandokan.

Yanez versò nella bocca di Kaksa Pharaum il contenuto del bicchiere.

– Fra cinque minuti, – disse la Tigre della Malesia.

– Allora puoi accendere la tua pipa.

– Credo che sia meglio. —

Il pirata prese da una mensola una splendida pipa adorna di perle lungo la canna, la riempì di tabacco, l’accese e si sdraiò su uno dei divani, come un pascià turco, mettendosi a fumare con studiata lunghezza.

Yanez, curvo sul ministro, lo scrutava attentamente. Il respiro, poco prima affannoso dell’indiano a poco a poco diventava regolare e le sue palpebre subivano di quando in quando una specie di tremito, come se facessero degli sforzi per alzarsi.

Anche le gambe e le braccia perdevano la loro rigidità: i muscoli, sotto la misteriosa influenza di quel liquido, si allentavano.

Ad un tratto, un sospiro più lungo sfuggì dalle labbra del ministro, poi quasi subito gli occhi s’aprirono, fissandosi su Yanez.

– Amate troppo il riposo, Eccellenza, – disse Yanez ironicamente. – Come fanno i vostri servi a svegliarvi? Vi ho fatto fare un viaggio che è durato più di un’ora e non avete cessato un sol momento di russare.

Non servite troppo bene il vostro signore.

– Per… Mylord! – esclamò il ministro, alzandosi di colpo e girando intorno uno sguardo meravigliato.

– Sì, io, mylord.

– Ma… dove sono io?

– In casa di mylord. —

Il ministro stette un momento silenzioso, continuando a girare gli occhi intorno, poi esclamò:

– Per Siva! Io non ho mai veduto questo salotto.

– Sfido io! – rispose Yanez, colla sua solita flemma beffarda. – Non vi siete mai degnato di visitare il palazzo di mylord.

– E quell’uomo chi è? – chiese Pharaum, indicando Sandokan, che continuava a fumare placidamente come se la cosa non lo riguardasse affatto.

– Ah! Quello, Eccellenza, è un uomo terribile, che fu chiamato per la sua ferocia, la Tigre della Malesia.

È un gran principe ed un grande guerriero. —

Kaksa Pharaum non poté nascondere un tremito.

– Non abbiate paura di lui, però, – disse Yanez, che si era accorto dello spavento del ministro. – Quando fuma è più dolce d’un fanciullo.

– E che cosa fa qui, in casa vostra?

– Viene a tenere qualche volta compagnia a mylord.

– Voi vi burlate di me! – gridò Kaksa, furibondo. – Basta! Avete scherzato abbastanza! Vi siete dimenticato che io sono possente quanto il rajah dell’Assam? Voi pagherete caro questo giuoco!

Ditemi dove sono e perché mi trovo qui, invece di essere nel mio palazzo o io…

– Potete gridare finché vorrete, Eccellenza, nessuno udrà la vostra voce. Siamo in un sotterraneo che non trasmette al di fuori alcun rumore.

D’altronde, rassicuratevi: io non voglio farvi male alcuno se non vi ostinerete a rimanere muto.

– Che cosa volete da me? Parlate, mylord.

– Lasciate prima che vi dica, Eccellenza, che ogni resistenza da parte vostra sarebbe assolutamente inutile, perché a dieci passi da noi vi sono trenta uomini che nemmeno un intero reggimento di cipay sarebbe capace d’arrestare.

Accomodatevi ed ascoltate pazientemente una pagina di storia del vostro paese.

– Da voi?

– Da me, Eccellenza. —

Lo spinse dolcemente verso una sedia, costringendolo a sedersi, prese alcune tazze di cristallo finissimo ed un fiasco, riempiendole d’un liquore color dell’oro vecchio, poi aprì il portasigari, offrendolo al prigioniero.

Nel vedere i grossi manilla, Kaksa Pharaum fece un gesto di terrore.

– Potete scegliere senza timore, – disse Yanez. – Questi non contengono nemmeno una particella d’oppio.

Se avete qualche sospetto, prendete una sigaretta, a vostra scelta. —

Il ministro fece un feroce gesto di diniego.

– Allora assaggiate questo liquore, – continuò Yanez. – Guardate: ne bevo anch’io. È eccellente.

– Più tardi: parlate. —

Yanez vuotò la sua tazza, accese la sigaretta, poi, appoggiando comodamente il dorso alla spalliera della sedia, disse:

– Ascoltatemi dunque, Eccellenza. L’istoria che voglio narrarvi non sarà lunga, però vi interesserà molto. —

Sandokan, sempre sdraiato sul divano, fumava silenziosamente, conservando una immobilità quasi assoluta.

3. Nell’antro delle tigri di Mompracem

– Regnava allora sull’Assam, – cominciò Yanez, – il fratello dell’attuale rajah, un principe perverso, dedito a tutti i vizi, che era odiato da tutta la popolazione e soprattutto dai suoi parenti, i quali non si sentivano mai sicuri di riveder l’alba del domani. Quel principe aveva uno zio che era capo di una tribù di kotteri, ossia di guerrieri, uomo valorosissimo che più volte aveva difese le frontiere assamesi contro scorrerie dei birmani e che perciò godeva una grande popolarità in tutto il paese.

Sapendosi mal visto dal nipote, il quale si era fisso in capo, senza motivi però, che congiurasse contro di lui per carpirgli il trono e derubarlo delle sue immense ricchezze, si era ritirato fra le sue montagne, in mezzo ai fedeli suoi guerrieri.

Quel valoroso si chiamava Mahur; ne avete mai udito a parlare, Eccellenza?

– Sì, – rispose asciuttamente Kaksa Pharaum.

– Un brutto giorno la carestia piombava sull’Assam. Quell’anno nemmeno una goccia d’acqua era caduta ed il sole aveva arsi i raccolti.

I bramini ed i gurus indussero allora il rajah a dare in Goalpara una grandiosa cerimonia religiosa, onde placare la collera delle divinità.

Il principe vi annuì di buon grado e volle che vi assistessero tutti i parenti che vivevano disseminati nel suo stato, non escluso suo zio, il capo dei kotteri, il quale, di nulla sospettando, aveva condotto con sé oltre la moglie, i suoi figli, due maschi ed una bambina che chiamavasi Surama.

Tutti i parenti furono ricevuti cogli onori spettanti ai loro gradi e con grande cordialità da parte del principe regnante ed alloggiati nel palazzo.

Compiuta la cerimonia religiosa, il rajah offrì a tutti i suoi parenti un banchetto grandioso, durante il quale il tiranno, come già gli accadeva sempre, bevette una grande quantità di liquori.

Quel miserabile cercava di eccitarsi, prima di compiere una orrenda strage, già forse meditata da lungo tempo.

Era quasi il tramonto ed il banchetto, allestito nel gran cortile interno del palazzo che era tutto cintato da alte muraglie, stava per finire, quando il rajah, non so con quale scusa si ritirò coi suoi ministri.

 

Ad un tratto, quando l’allegria degli ospiti aveva raggiunto il massimo grado, un colpo di carabina echeggiò improvvisamente, ed uno dei parenti cadde col cranio fracassato da una palla di carabina.

Lo stupore, causato da quell’assassinio in piena orgia non era ancora cessato, quando un secondo colpo rintronava ed un altro convitato stramazzava, bruttando col suo sangue la tovaglia.

Era il rajah che aveva fatto quel doppio colpo. Il miserabile era comparso su un terrazzino prospiciente sul cortile e faceva fuoco sui suoi parenti. Aveva gli occhi schizzanti dalle orbite, i lineamenti sconvolti: pareva un vero pazzo.

Intorno aveva i suoi ministri che gli porgevano ora tazze colme di liquori ed ora delle carabine cariche.

Uomini, donne e fanciulli si erano messi a correre all’impazzata pel cortile, cercando invano un’uscita, mentre il rajah, urlando come una belva feroce, continuava a sparare facendo nuove vittime. Mahur, che era il più odiato di tutti, fu uno dei primi a cadere. Una palla gli aveva fracassata la spina dorsale.

Poi caddero successivamente sua moglie ed i suoi due figli.

La strage durò una mezz’ora. Trentasette erano i parenti del principe e trentacinque erano caduti sotto i colpi del feroce monarca.

Due soli erano miracolosamente sfuggiti alla morte: Sindhia il giovane fratello del rajah e la figlia del capo dei kotteri, la piccola Surama, che si era nascosta dietro il cadavere di sua madre.

Sindhia era stato segno a tre colpi di carabina e tutti erano andati a vuoto, perché il giovane principe, con dei salti da tigre, ben misurati, si era sempre sottratto alle palle.

In preda ad un terribile spavento, non cessava di gridare al fratello:

«Fammi grazia della vita ed io abbandonerò il tuo regno.

Sono figlio di tuo padre. Tu non hai il diritto di uccidermi».

Il rajah, completamente ubriaco, rimaneva sordo a quelle grida disperate e sparò ancora due colpi, senza riuscire a coglierlo, tanto era lesto suo fratello; poi, preso forse da un improvviso pentimento, abbassò la carabina che un ufficiale gli aveva data, gridando al fuggiasco:

«Se è vero che tu abbandonerai per sempre il mio stato ti fo grazia della vita, ad una condizione».

«Sono pronto ad accettare tutto quello che vorrai», rispose il disgraziato.

«Io getterò in aria una rupia; se tu la coglierai con una palla della carabina, ti lascerò partire pel Bengala senza farti alcun male.»

«Accetto», rispose allora il giovane principe.

Il rajah gli gettò l’arma che Sindhia prese al volo.

«Ti avverto», urlò il pazzo, «che se manchi la moneta subirai la medesima sorte degli altri.»

«Gettala!»

Il rajah fece volare in aria il pezzo d’argento. Si udì subito uno sparo e non fu la moneta bucata, bensì il petto del tiranno.

Sindhia, invece di far fuoco sulla moneta, aveva voltata rapidamente l’arma contro suo fratello e l’aveva fulminato, spaccandogli il cuore.

I ministri e gli ufficiali si prosternarono dinanzi al giovane principe, che aveva liberato il regno da quel mostro e senz’altro lo accettarono come rajah dell’Assam.

– Voi, mylord, mi avete narrata una storia che qualunque assamese conosce a fondo, – disse il ministro.

– Non il seguito però, – rispose Yanez, versandosi un altro bicchiere ed accendendo una seconda sigaretta. – Sapreste dirmi che cosa è avvenuto della piccola Surama, figlia del capo dei kotteri? —

Kaksa Pharaum alzò le spalle, dicendo poi:

– Chi può essersi occupato d’una bambina?

– Eppure quella bambina era nata ben vicina al trono dell’Assam.

– Continuate, mylord.

– Quando Sindhia seppe che Surama era sfuggita alla morte, invece di accoglierla alla corte o almeno di farla ricondurre fra le tribù devote a suo padre, la fece segretamente vendere a dei thugs che percorrevano allora il paese per procurarsi delle bajadere.

– Ah! – fece il ministro.

– Credete Eccellenza che abbia agito bene il rajah vostro signore? – chiese Yanez, diventato improvvisamente serio.

– Non so. È morta poi?

– No, Eccellenza, Surama è diventata una bellissima fanciulla ora e non ha che un solo desiderio: quello di strappare a suo cugino la corona dell’Assam. —

Kaksa Pharaum aveva fatto un soprassalto.

– Dite, mylord? – chiese spaventato.

– Che riuscirà nel suo intento, – rispose freddamente Yanez.

– E chi l’aiuterà? —

Il portoghese s’alzò e puntando l’indice verso la Tigre della Malesia che non aveva cessato di fumare, gli rispose:

– Quell’uomo là innanzi a tutto, che ha rovesciato troni e che ha vinto la terribile Tigre dell’India, Suyodhana, il famoso capo dei thugs indiani, e poi io.

L’orgogliosa e la grande Inghilterra, dominatrice di mezzo mondo, ha piegato talvolta il capo dinanzi a noi, tigri di Mompracem. —

Il ministro si era a sua volta alzato, guardando con profonda ansietà ora Yanez ed ora Sandokan.

– Chi siete voi, dunque? – chiese finalmente, balbettando.

– Degli uomini che nemmeno i vostri più formidabili uragani potrebbero arrestare, – rispose Yanez, con voce grave.

– E che cosa volete voi da me? Perché mi avete trasportato in questo luogo che io non ho mai veduto? —

Yanez, invece di rispondere, riempì nuovamente le tazze e ne porse una al ministro, dicendogli colla sua voce insinuante:

– Bevete prima, Eccellenza. Questo squisito liquore vi rischiarirà le idee meglio del vostro detestabile toddy. Bevetene pure liberamente: non vi farà male. —

Il ministro, che si sentiva invadere da un invincibile tremito nervoso, credette opportuno di non rifiutarsi.

Yanez si raccolse un momento, poi, fissando il disgraziato ministro che aveva le labbra smorte, gli chiese:

– Chi è l’europeo che si trova alla corte del rajah?

– Un uomo bianco che io detesto.

– Benissimo: il suo nome?

– Si fa chiamare Teotokris.

– Teotokris! – mormorò Yanez. – Questo è un nome greco.

– Un greco! – esclamò Sandokan, scuotendosi. – Che cos’è? Io non ho mai udito a parlare di greci.

– Tu non sei un europeo, – disse Yanez. – Sono uomini che godono fama di essere i più furbi dell’intera Europa.

– Avversari temibili?

– Temibilissimi.

– Buoni per te, – rispose la Tigre della Malesia, sorridendo.

Il portoghese gettò via con stizza la sigaretta, poi rivolgendosi al ministro:

– Gode molta considerazione a corte, quello straniero? – gli chiese.

– Più che noi ministri.

– Ah! Benissimo. —

Si era nuovamente alzato. Fece tre o quattro giri intorno alla tavola, torcendosi i baffi e lisciandosi la folta barba, poi, fermandosi dinanzi al ministro che lo guardava attonito, gli chiese a bruciapelo:

– Dov’è che i gurus nascondono la pietra di Salagraman che contiene il famoso capello di Visnù? —

Kaksa Pharaum guardò il portoghese con profondo terrore e rimase muto, come se la lingua gli si fosse improvvisamente paralizzata.

– Mi avete capito, Eccellenza? – chiese Yanez un po’ minaccioso.

– La pietra… di Salagraman! – balbettò il ministro.

– Sì.

– Ma… io non so dove si trova. Solo i sacerdoti ed il rajah ve lo potrebbero dire, – rispose Kaksa, riprendendo animo. – Io non so nulla, mylord.

– Voi mentite, – gridò Yanez, alzando la voce. – Anche i ministri del rajah lo sanno: me lo hanno confermato parecchie persone.

– Gli altri forse, non io.

– Come! Il primo ministro di Sindhia ne saprebbe meno dei suoi inferiori? Eccellenza, voi giuocate una pessima carta, ve ne avverto.

– E perché vorreste sapere, mylord, dove si trova nascosta?

– Perché quella pietra mi occorre, – rispose Yanez audacemente. —

Kaksa Pharaum mandò una specie di ruggito.

– Voi rubate quella pietra! – gridò. – Non sapete che il capello che contiene, appartenne, migliaia di anni or sono, ad un dio protettore dell’India? Non sapete che tutti gli stati c’invidiano quella reliquia? Non sapete che, se ci venisse portata via, sarebbe la fine dell’Assam?

– Chi lo ha detto? – chiese Yanez ironicamente.

– Lo hanno affermato i gurus. —

Il portoghese alzò le spalle, mentre la Tigre della Malesia faceva udite un risolino beffardo.

– Vi ho detto, Eccellenza, che a me occorre quella conchiglia: aggiungerò poi, per placare i vostri timori, che non lascerà l’Assam.

Io non la terrò nelle mie mani più di ventiquattro ore, ve lo giuro.

– Allora andate a chiedere al rajah un tale favore. Io non posso accordarlo, perché ignoro ove i sacerdoti della pagoda di Karia la nascondano.

– Ah! Non vuoi dirmelo, – disse Yanez cambiando tono. – La vedremo! —

In quel momento si udì ad echeggiare il gong, sospeso esternamente alla porta.