Za darmo

Alla conquista di un impero

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– Sembra quasi una focaccia, – mormorò Yanez. – Spero nondimeno di poter ancora trovare il perché aveva il diavolo in corpo. Ci deve essere qui sotto qualche bricconata. —

Guardò a lungo il cadavere, poi slacciò la fascia del sottoventre e alzò la sella.

– Ah! birbanti! – esclamò.

Nella parte interna vi erano state confitte tre punte d’acciaio, lunghe un centimetro.

– Ecco perché il povero animale era diventato furibondo, – riprese il portoghese. – Saltando in sella gli si erano conficcate nelle carni.

Questo è un tiro del greco. Egli sperava che il rinoceronte mi sventrasse. No, mio caro, anche questa t’è andata a vuoto. Yanez ha la pelle più dura di quello che tu credi e, devo dirlo, anche una fortuna prodigiosa.

Acqua in bocca per ora e lasciamo correre, ma ti giuro, birbante, che un giorno ti farò pagare, e tutto d’un colpo, i tuoi tradimenti.

Già quell’altissimo ufficiale, che deve essere una tua creatura, mi era sospetto. —

Caricò flemmaticamente la carabina e sparò, con un certo intervallo l’uno dall’altro, due colpi in aria.

Le due detonazioni rombavano ancora sotto le infinite volte di verzura, quando vide giungere, a breve distanza l’uno dall’altro, i suoi fidi malesi seguìti dall’ufficiale del rajah.

– Ecco fatto, – disse Yanez con una certa ironia, guardando l’indiano. – Come vedi la faccenda è stata sbrigata senza troppa fatica. —

L’ufficiale rimase per qualche istante muto, guardandolo con profondo stupore.

– Morto, – disse poi.

– Non si muove più, – rispose Yanez.

– Tu sei il più grande cacciatore di tutta l’India.

– È probabile.

– Il rajah sarà contento di te.

– Lo spero.

– Farò tagliare dai seikki il corno e tu stesso lo regalerai al principe.

– Lo presenterai tu, così potrai avere una mancia.

– Come vuoi, mylord.

– Fammi condurre un altro cavallo, purché sia più docile del primo. Ne ha qualcuno troppo bizzarro il tuo signore. —

L’ufficiale finse di non udirlo ed essendo in quel momento giunti i seikki accompagnati dal vecchio indiano, fece cenno a uno di loro di smontare.

Yanez stava per montare in sella quando un’improvvisa agitazione si manifestò fra i seikki, seguìta quasi subito dalle grida:

– Lo jungli-kudgia!… Lo jungli-kudgia! —

Yanez udendo dietro di sé aprirsi i cespugli si voltò rapidamente.

Un animale che a prima vista sembrava un bisonte indiano, era comparso improvvisamente aprendosi il passo fra le liane e i nepenti.

– Fuoco, amici! – gridò.

I sei malesi, che avevano le carabine ancora cariche, fecero fuoco simultaneamente, non badando al grido mandato dal vecchio indiano:

– Ferma! —

Il ruminante colpito da cinque o sei palle stramazzò fra le erbe, senza mandare un muggito.

– Sventura sui maledetti stranieri! – urlò il capo del villaggio slanciandosi verso l’animale che agonizzava e alzando le braccia verso il cielo. – Hanno ucciso la vacca sacra di Brahma!

– Ehi capo, diventi matto? – chiese Yanez. – Se è per spillarmi un po’ di rupie, sono pronto a pagarti la tua bestia.

– Una vacca sacra non si paga, – rispose l’ufficiale del rajah.

– Andate tutti al diavolo! – gridò Yanez che perdeva la pazienza.

– Temo, mylord che tu dovrai fare i conti col rajah, perché qui, come in tutta l’India, una vacca è un animale sacro, che nessuno può uccidere.

– Perché dunque i tuoi uomini hanno gridato lo jungli-kudgia? Sebbene non conosca profondamente la lingua indiana, quel nome lo si dà, se non erro, ai terribili bisonti della jungla, che non sono meno pericolosi d’un rinoceronte.

– Si saranno ingannati.

– Peggio per loro. —

Mentre si scambiavano quelle parole, il vecchio indiano continuava a girare intorno al cadavere della vacca, manifestando la più violenta disperazione e vomitando una serqua infinita d’ingiurie contro gli uccisori dell’animale sacro.

– Finiscila, cornacchia! – gridò Yanez, sempre più seccato. – T’ho liberato dal rinoceronte che guastava le tue piantagioni, e non cessi d’ingiuriarmi. Tu sei la più grande canaglia che abbia conosciuto da che sono nato. Se non ritiri la tua linguaccia da cane, ti farò bastonare dai miei uomini.

– Tu non lo farai, – disse l’ufficiale del rajah con voce dura.

– Chi me lo impedirebbe, signor ufficiale? – chiese Yanez.

– Io, che qui rappresento il rajah.

– Tu non sei, per me, che sono un mylord inglese, che un impiegato della corte, inferiore ai miei servi.

– Mylord!

– Vattene all’inferno, – disse Yanez, montando a cavallo.

Poi volgendosi verso i malesi che guardavano ferocemente i seikki, pronti a caricarli al primo moto sospetto, disse a loro:

– Torniamo in città; ne ho abbastanza di questo affare.

– Mylord, – disse l’ufficiale, – gli elefanti ci aspettano.

– Gettali nel fiume, non ne ho bisogno. —

Fece salire dietro di sé il malese che gli aveva dato il cavallo e partì al galoppo, mentre il vecchio indiano gli urlava dietro ancora una volta:

– Maledetti stranieri! Che Brahma vi faccia morire tutti! —

Usciti dal bosco, le tigri di Mompracem si gettarono fra le piantagioni, senza badare se rovinavano più o meno l’indaco, e presero la via di Gauhati.

Quando entrarono in città era ancora notte. Le guardie che vegliavano dinanzi al portone, si affrettarono ad introdurli nel vasto cortile d’onore, dove, sotto i porticati spaziosi, dormivano su semplici stuoie, scudieri e staffieri, onde essere più pronti ad ogni chiamata del loro signore.

Yanez affidò a loro i cavalli e salì nel suo appartamento svegliando il chitmudgar.

– Tu, signore! – esclamò il maggiordomo stropicciandosi gli occhi.

– Non mi aspettavi così presto?

– No, signore. Hai già ucciso il rinoceronte?

– Sì, l’ho messo a terra con quattro colpi di carabina. Portami una bottiglia nella mia stanza, alcune sigarette e aspettami, ché devo chiederti importanti spiegazioni.

– Sono ai tuoi ordini, sahib. —

Yanez si sbarazzò della carabina, mandò i suoi malesi a coricarsi, poi raggiunse il chitmudgar, che aveva già accesa la lampada e messo sul tavolo una bottiglia di liquore ed una scatola di sigarette indiane, formate d’una foglia di palma arrotolata e di tabacco rosso.

Vuotò un bicchiere di vecchio gin, poi sdraiatosi su una poltrona, gli narrò succintamente come si era svolta la caccia, dilungandosi solo sull’uccisione di quella maledetta vacca sacra, che l’aveva fatto uscire dai gangheri:

– Che cosa ne dici tu ora di questo affare?

– È una cosa grave, mylord – rispose il maggiordomo che appariva preoccupato. – Una mucca è sempre sacra, e chi l’uccide incorre in grandi fastidi.

– Mi avevano detto che era un bisonte della jungla ed io ho comandato il fuoco senza guardarla bene. —

Il chitmudgar scosse il capo mormorando:

– Affare serio! affare serio!

– Dovevano tenersela nel villaggio.

– Tu hai ragione, mylord, ma il torto sarà tuo.

– Quel capo è un vero furfante. Non gli ho ucciso il rinoceronte che devastava le piantagioni del villaggio? Ah! e se in questa faccenda vi fosse sotto la mano del favorito del rajah? Le punte di ferro vi erano nella sella.

– Non mi stupirei, – rispose il maggiordomo. – Io so che quell’uomo ti odia a morte.

– Me ne sono già accorto e poi vorrà vendicarsi di quel colpo di scimitarra.

– Certo, mylord.

– Allora è stata ordita una vera congiura. Prima ha tentato di farmi sventrare dal rinoceronte, poi mi ha mandato la vacca sacra.

Che fosse d’accordo anche il capo del villaggio?

– È probabile, signore.

– Per Giove! non mi lascerò mettere nel sacco.

Vado a riposarmi e se prima di mezzogiorno il rajah manda qualcuno dei suoi satrapi, risponderai che dormo e che non voglio essere disturbato.

Se insistono, lancia contro di loro i miei malesi. È ora di mostrare a quel cane di greco e a quell’ubriacone che serve, che un mylord non si lascia prendere a gabbo.

Va’, chitmudgar. —

Spense la lampada e si gettò sul ricchissimo letto senza spogliarsi, addormentandosi quasi subito.

22. La prova dell’acqua

Sognava di Surama, che già vedeva assisa sul trono del rajah, con un dootèe azzurro tutto costellato di diamanti del Guzerate e di Visapur, quando tre colpi fortissimi, battuti sulla porta della sua stanza da letto, lo fecero balzare in piedi.

– Entrate, per Giove! – esclamò con voce tuonante. – È codesto il modo di svegliare un mylord? —

Il maggiordomo, tutto umile, si avanzò dicendo:

– Signore, è mezzodì.

– Aho! benissimo. Non mi ricordavo più dell’ordine che ti avevo dato. Hanno chiesto di me?

– Più volte, signore, un ufficiale del rajah si è presentato insistendo per vedervi.

– Ed i miei malesi non si sono seccati?

– Hanno finito per scaraventarlo giù dalla scala.

– Si è rotto almeno una gamba quel seccatore?

– Si sarà certo ammaccato le costole.

– Avrei preferito che si fosse rotto il collo, – disse Yanez. – Sono tornati quei bricconi che mi hanno accompagnato alla caccia?

– Sì, poco dopo lo spuntare del sole.

– Briganti! Chissà che cosa avranno detto di me dopo il servizio reso. Il rajah troverà però questa volta un osso duro da rodere, ed il signor Teotokris avrà poco da ridere. Per Giove! Un mylord non si lascia divorare come un pesce del Brahmaputra. —

Fece un po’ di toeletta, poi uscì dopo d’aver raccomandato ai malesi di non muoversi. Sembrava in preda ad una viva agitazione, ad una sorda collera: cosa piuttosto strana in un uomo che pareva più flemmatico d’un vero inglese.

Sulla porta del salone reale trovò un ufficiale.

– Va’ a dire al tuo signore che io desidero vederlo, – gli disse con tono imperioso.

 

Ciò detto entrò nel magnifico salone sdraiandosi su uno dei divani, che si stendevano lungo le marmoree pareti, mettendosi a fumare come fosse nella sua propria stanza.

Non trascorse un minuto, che le cortine di seta pendenti dietro a quel letto-trono, s’aprirono ed il principe comparve.

– Ah! siete voi! – disse Yanez gettando via la sigaretta e accostandosi alla piattaforma.

– T’ho fatto chiamare tre volte, – disse il rajah con voce un po’ dura.

– Dormivo, – rispose Yanez pure seccamente. – La caccia mi aveva molto stancato.

– Ho ricevuto il corno del rinoceronte che tu mylord hai ucciso. Il suo proprietario doveva essere un animale ben grosso.

– E anche molto cattivo, Altezza.

– Lo credo. I rinoceronti sono sempre di cattivo umore.

– Non sono solamente quelle bestie che hanno indosso l’umore nero: vi sono anche degli uomini.

– Che cosa vuoi dire, mylord? – chiese il principe fingendo un grande stupore.

– Che alla vostra corte, Altezza, avete dei furfanti.

– Che cosa dici mai, mylord?

– Sì, perché mentre io arrischiavo la mia vita, per fare il mio dovere di grande cacciatore del rajah dell’Assam, altri cercavano di assassinarmi a tradimento, – disse Yanez con collera.

– Ed in quale modo?

– Mettendo delle punte di ferro sotto la sella dal cavallo, che voi mi avete mandato. L’animale s’imbizzarrì nel momento in cui occorreva che fosse calmo per permettermi di far fuoco, e se non vi fosse stato un ramo sopra la mia testa, io non sarei qui, Altezza, a raccontarvi come finì la caccia.

– Io farò cercare il colpevole e lo punirò come si merita, – disse il rajah. – Non ti nascondo però che sarà un po’ difficile a scovarlo.

Altra cosa invece è la colpa che tu hai commesso e che è gravissima. Stamane è venuto da me il capo del villaggio, dove tu hai cacciato, e che per tua disgrazia è uno dei più influenti del regno, a dirmi che tu ed i tuoi uomini avete ucciso la vacca sacra, che godeva la protezione di Brahma.

– Io credevo in buona fede che fosse un bisonte della jungla.

– Il capo del villaggio sostiene il contrario e ti sfida alla prova.

– Mi sfida! – esclamò Yanez, scattando. – A colpi di carabina forse? Venga e gli salderò il conto con una palla nella testa.

– Non credo che sia capace di tanto, – disse il rajah con un sottile sorriso. – Vuole sfidarti a provare il contrario.

– Come! vuole avere ragione lui?

– E ci tiene.

– Dov’è quel mascalzone? —

Il principe prese una piccola mazza d’argento che stava su una piccola mensola, e batté tre colpi su un disco di bronzo appeso alla parete.

Subito la porta principale del magnifico salone s’aprì ed entrò il vecchio indiano, accompagnato dall’ufficiale e dai sei seikki, che avevano assistito all’uccisione della vacca sacra.

Nel vederli Yanez non poté trattenere un moto di collera. Aveva compreso che stavano per tendergli un secondo agguato e forse più pericoloso del primo.

– Furfanti! – mormorò. – Questi sono le anime dannate di quel maledetto greco. —

Il rajah si era sdraiato sul suo letto-trono, appoggiandosi ad un gran cuscino di seta cremisina con ricami d’oro, mentre una mano passando fra le cortine, gli aveva dato un superbo narghilè di cristallo azzurro, già acceso, con una lunga canna di pelle rossa ed il bocchino d’avorio.

Il capo del villaggio s’avanzò verso la piattaforma e si gettò tre volte a terra, senza che il rajah si degnasse di rispondere a quell’umiliante saluto.

– Ah, sei qui, vecchio briccone, – disse Yanez con disprezzo. – Che cosa vuoi tu?

– Solamente giustizia, – rispose l’indiano.

– Dopo che ti ho sbarazzato del rinoceronte? Bella riconoscenza la tua!

– Mi hai ucciso la vacca sacra e chissà ora quali calamità piomberanno sul villaggio. I danni che recava il rinoceronte, saranno niente in confronto a quelli che ci colpiranno ora.

– Tu sei un imbecille.

– No, io sono un indiano che adora Brahma. —

Yanez stava per mandare a casa del diavolo anche il dio, però si trattenne a tempo.

Il rajah si era un po’ alzato e dopo d’aver guardato per qualche istante tanto il capo quanto l’europeo, disse gettando in aria una nuvoletta di fumo:

– Che cosa vuoi Kadar?

– Giustizia, rajah.

– Quest’uomo bianco che io ho nominato grande cacciatore della mia corte, sostiene che tu hai torto.

– Io ho dei testimoni.

– E cosa dicono?

– Che il sahib ha ucciso la vacca sacra pur avendo riconosciuto che non era un jungli-kudgia.

– Tu sei una canaglia! – gridò Yanez.

– Taci, mylord, – disse il rajah con accento severo. – Io sto amministrando la giustizia e non devi interrompere né Kadar, né me.

– Ebbene ascoltiamo questo brigante, che non ha mai saputo che cosa sia riconoscenza.

– Continua, Kadar, – disse il rajah.

– Quella vacca era stata consacrata a Brahma, onde proteggesse il mio villaggio, tale essendo l’uso. Nessuno poteva ucciderla, né avrebbe osato commettere un così esecrando delitto.

Brahma certo si vendicherà e allora che cosa accadrà delle nostre piantagioni? La miseria più spaventosa piomberà su noi tutti e finiremo per morire tutti di fame.

– Te ne regalerò una, così il tuo dio si rabbonirà, – disse Yanez ironicamente.

– Non sarà più quella.

– Che cosa vuoi tu dunque?

– La tua punizione.

– Io non l’ho uccisa per recare uno sfregio alle tue credenze religiose.

– Sì.

– Tu menti come un sudra.

– Mi appello a questi uomini.

– È vero, – disse l’ufficiale che lo aveva accompagnato alla caccia. – Tu hai ordinato il fuoco ai tuoi, per fare un dispetto a quest’uomo ed uno sfregio a tutti gli abitanti.

– Anche tu m’accusi?

– Ed anche i seikki. —

Yanez si trattenne a stento e volgendosi verso il rajah, che stava vuotando un enorme bicchiere pieno di liquore fornitogli dalla mano misteriosa che gli aveva dato il narghilè, gli disse:

– Non credere, Altezza, a questi miserabili. —

Il rajah ingollò con uno sforzo il liquido, poi rispose socchiudendo gli occhi:

– Sono in otto che ti accusano, mylord, ed io devo, secondo le nostre leggi, credere più a loro perché sono in molti.

– Io farò venire qui i miei uomini.

– I servi non possono testimoniare dinanzi ai guerrieri. La loro casta è troppo bassa.

– Che cosa devo fare adunque?

– Confessare che tu hai ucciso la vacca sacra per dispetto e lasciarti punire. Il delitto è grave.

– Sicché dovrei subire qualche pena.

– Se tu fossi un mio suddito, mylord, io dovrei farti schiacciare il capo dal mio elefante carnefice, come vogliono le nostre leggi; ma tu sei straniero e per di più inglese e siccome io non desidero aver questioni col viceré del Bengala, con mio grande rincrescimento, dovrò sfrattarti dallo stato.

– Se ti giuro, Altezza, che questi uomini hanno mentito.

– Io ti sfido! – disse il capo. – Vieni con me a tentare la prova dell’acqua! Se tu rimarrai più sotto di me, la ragione sarà tua.

– Che cosa mi proponi tu, manigoldo?

– Ti propone la prova dell’acqua.

– In che consiste?

– Si tratta di tuffarsi nelle acque del Brahmaputra, di discendere lungo un palo fino in fondo al fiume e di resistere più che si può. Il primo che salirà avrà torto.

– Ah! – fece Yanez.

Squadrò il vecchio da capo a piedi poi gli disse freddamente:

– Per quando questa prova?

– Per domani mattina, sahib; se non ti spiace.

– Sta bene ed io dimostrerò al rajah che tu hai torto.

– E allora gli farò dare cinquanta legnate, – disse il principe, facendo un cenno per far capire che l’udienza era finita:

Yanez fece un leggero inchino e fu il primo ad uscire non senza aver lanciato sui suoi accusatori uno sguardo di profondo disprezzo e di aver sputato sulle scarpe rosse che l’ufficiale calzava.

– Ah, mi tendono un altro agguato, – mormorò salendo le scale che conducevano nel suo appartamento. – Anche questa volta vi siete ingannati, bricconi. Io rimarrò qui a vostro dispetto.

Per Giove! valgo quanto un palombaro e sarai tu, vecchio furfante, che caccerai prima fuori la testa, se non vorrai crepare asfissiato.

Tu non sai che quantunque io sia un europeo, sono ormai mezzo malese, la razza più acquatica del mondo. —

Il chitmudgar lo aspettava sulla porta dell’appartamentino in preda ad una vivissima ansietà, poiché quel brav’uomo amava sinceramente il grande cacciatore della corte.

– Dunque, mylord?– gli chiese.

– Me la caverò a buon mercato, – rispose Yanez. – Mi si tendono delle reti intorno, tuttavia non dispero di sgusciare fra le maglie. Poi verrà la mia volta e tutti questi bricconi avranno il loro conto.

Portami il pranzo e non chiedermi altro. —

Non ostante le sue preoccupazioni, mangiò con appetito invidiabile, poi scrisse un biglietto per Surama incaricando Kubang di portarglielo. Voleva avvertire Sandokan di quanto gli accadeva e della pessima situazione in cui cominciava a trovarsi.

Gli agguati del greco, troppo possente pel momento, cominciavano ad impensierirlo, quantunque fosse ben deciso a tenere testa a quell’avventuriero dell’Arcipelago greco.

Passò la serata chiacchierando coi suoi malesi e andò a coricarsi presto, onde essere pronto a subire, al mattino seguente, la prova dell’acqua.

Se si fosse trovato in altro paese, avrebbe certamente accoppato i suoi accusatori e fors’anche il rajah, ma trovandosi quasi solo in una corte che poteva scagliargli addosso delle centinaia di guerrieri, Yanez, che non era uno stupido, si vedeva pur troppo costretto, a suo malgrado, a subire gli avvenimenti.

Tuttavia, quantunque seri pensieri lo turbassero, anche quella notte dormì non meno saporitamente del solito, fidando nella propria audacia e soprattutto nella sua stella e sull’appoggio della formidabile Tigre di Mompracem, il vincitore dei tughs e del loro non meno formidabile capo.

L’orologio della torre che s’alzava sul palazzo reale, suonava le cinque, quando il chitmudgar lo svegliò, portandogli il thè.

– Mylord, – disse il fedele maggiordomo. – Il capo indiano, i giudici del rajah ed i testimoni, sono già partiti pel Brahmaputra ed un elefante ti aspetta sulla piazza.

– Per Giove! – esclamò Yanez. – Quelle canaglie hanno fretta di vedermi emergere asfissiato. Vedremo se fra un’ora quel vecchio lupo avrà il dorso fracassato a colpi di bastone, o se io sarò in viaggio per la frontiera del Bengala.

Una buona tazza di liquore dammi, chitmudgar, onde mi scaldi un po’ il sangue. Ed il favorito, come sta?

– M’hanno detto che si è già alzato e che assisterà alla prova.

– Perdio! Ha la pelle dura come un coccodrillo quell’avventuriero? Un’altra volta invece della scimitarra adoprerò le armi da fuoco, con palle foderate di rame. Se ho ammazzato un rinoceronte, bucherò anche lo stomaco di quel greco dell’Arcipelago. Aspettiamo l’occasione. —

Vuotò la tazza di thè ed il bicchiere che gli aveva portato il maggiordomo e discese. Sulla piazza, dinanzi alla marmorea gradinata del palazzo reale, lo aspettavano cinque malesi, giacché Kubang non si era ancora fatto vivo, dopo che era stato mandato al palazzo di Surama.

Un elefante, bardato sontuosamente, con una immensa gualdrappa di velluto rosso e grossi pendagli d’argento agli orecchi e sulla fronte, lo aspettava.

– Parti, mahut – disse salendo rapidamente la scala di corda e prendendo posto nella cassa che era coperta da una cupoletta di legno dipinta in bianco con arabeschi dorati. – Fa’ trottare l’animale. —

I malesi lo avevano seguìto, prendendo posto di fronte a lui:

– Amici, – disse loro, – qualunque cosa accada, lasciate in riposo le vostre armi, tanto da fuoco che da taglio. Lasciate che me la sbarazzi da solo.

Sto giuocando una carta che può farmi perdere la partita. Siate prudenti e non muovetevi se io non vi darò il segnale. —

L’elefante si era messo in moto allungando il passo.

Essendo ancora molto presto, poche persone, per lo più sudra, muniti di enormi panieri destinati a ricevere le provviste, percorrevano le vie della capitale.

Veder passare degli elefanti era poi una cosa così comune che nessuno se ne curava, sicché Yanez poté giungere sulla riva del fiume senza quasi essere stato notato.

La prova doveva avere certamente un carattere privato e non pubblico, poiché nella notte il rajah aveva fatto innalzare una specie di semi-recinto, le cui ali estreme terminavano nel fiume.

Numerosi personaggi appartenenti tutti alla corte, vi si erano già radunati. Anche il vecchio indiano era giunto e chiacchierava coi tre giudici scelti dal rajah, che stavano seduti su un tappeto collocato di fronte a due pali piantati nel letto del Brahmaputra, a due metri di distanza l’uno dall’altro, in un luogo ove l’acqua era molto profonda.

 

Vedendo giungere il gran cacciatore, tutti gl’invitati avevano interrotto le loro conversazioni, guardandolo con viva curiosità. Forse credevano di scorgere sul viso dell’europeo qualche preoccupazione per quella prova che non aveva mai subita; ma dovettero rimanere ben delusi.

Yanez era calmo come il solito e gustava pacificamente il fumo della sua sigaretta.

– Eccomi, vecchio briccone!– disse dopo d’aver attraversato il recinto, fermandosi dinanzi all’indiano. – Forse tu speravi che io non venissi.

– No, – rispose asciuttamente Kadar.

I tre giudici si erano alzati inchinandosi dinanzi al grande cacciatore, poi il più anziano gli disse:

– Sai di che cosa si tratta, mylord?

– Me l’ha spiegato il rajah, – rispose Yanez. – Bah! un bagno non fa male in questa stagione, anzi servirà ad aguzzarmi l’appetito.

– Tu dovrai resistere più che potrai.

– Oh stancherò facilmente questo vecchio brigante.

– Lo vedremo, sahib, – disse Kadar con voce ironica.

– Se non vorrai crepare asfissiato dovrai mettere fuori la testa.

– Sì, dopo la tua.

– Non mi conosci ancora. —

Si levò la giacca, i calzoni e gli stivali, conservando solo la camicia e le mutande e con un salto fu sulla riva dicendo:

– Vieni birbante.

– Un momento, mylord, – disse uno dei giudici. – Quando avrai raggiunto il tuo palo, aspetta il nostro segnale prima di tuffarti.

– Un momento anche per voi, signori giudici, – aggiunse a sua volta Yanez. – Vi avverto che se non agirete lealmente vi farò accoppare dalla mia scorta. —

Ciò detto balzò in acqua, subito seguito da Kadar e con quattro bracciate raggiunse il suo palo, aggrappandovisi strettamente, onde la corrente non lo portasse via.

Si era fatto un profondo silenzio fra gli spettatori. I tre giudici ritti sulla riva, aspettavano che i due uomini fossero pronti.

Ad un tratto il più anziano alzò un braccio gridando con voce tuonante:

– Giù!… —

Yanez ed il vecchio indiano si tuffarono nel medesimo istante, lasciandosi scivolare per qualche metro lungo il palo e stringendo attorno al medesimo le gambe.

Tutti gli spettatori si erano riversati sulla riva, fissando attentamente i due pali che l’impeto della corrente faceva oscillare fortemente. Una viva ansietà si scorgeva su tutti i volti.

Trascorse un minuto, ma nessuna testa riapparve. La corrente continuava la sua marcia gorgogliando sopra i due sommersi.

Passarono ancora alcuni secondi, poi un cranio, nudo e lucido come la palla d’un bigliardo, comparve bruscamente; quindi il viso di Kadar, spaventosamente alterato, emerse.

Una salva d’invettive coprì il disgraziato.

– Canaglia!

– Stupido!

– Buono da nulla!

– Va’ a coltivare i campi!

– Ti sei fatto insaccare dall’uomo bianco!

– Carogna! —

Kadar mezzo asfissiato non rispondeva che con furiosi colpi di tosse e con contorcimenti da scimmia. I suoi occhi erano iniettati di sangue e la sua respirazione affannosa.

Altri tre o quattro secondi erano trascorsi, quando anche Yanez comparve a galla aspirando rumorosamente una lunga boccata d’aria. Non era in così cattive condizioni come Kadar. Più sviluppato del magro indiano, con polmoni più ampi e anche più abituato alle lunghe immersioni, aveva meglio resistito alla prova pericolosa.

Vedendo presso di sé il suo avversario tutto avvilito, gli disse ironicamente:

– Te lo avevo detto io che non avresti guadagnato con me. Va’ ad offrire il tuo dorso al bastone del carnefice.

Consolati che hai la pelle dura e poca carne sulle tue ossa. —

Lasciò il palo e raggiunse la riva.

Gli spettatori che avevano posto tutte le loro speranze in Kadar, lo accolsero con un silenzio glaciale.

Solo il giudice più vecchio gli disse:

– Tu hai vinto, mylord, quindi tu avevi ragione e quel miserabile avrà la punizione che si merita, a menoché tu non chieda la sua grazia.

– Ai furfanti di quella specie io non la fo mai – rispose il portoghese.

Si asciugò alla meglio con un dootèe che gli aveva dato uno dei suoi malesi, si vestì rapidamente e lasciò il recinto senza salutare alcuno, mentre le invettive continuavano a grandinare sul disgraziato Kadar, il quale si teneva ancora aggrappato al palo, per paura di aver un’accoglienza peggiore da parte dei suoi compatriotti.

– Subito al palazzo reale, – disse il portoghese salendo sull’elefante.

Dieci minuti dopo, avvertito da un ufficiale che lo aveva atteso alla base della marmorea gradinata, entrava nella sala del trono dove il rajah lo attendeva.

– So che tu hai vinto la prova, – gli disse il principe con un benevolo sorriso – e ne sono lieto.

– Ed io ben poco. La vostra giustizia indiana è ben al di sotto di quella inglese, Altezza.

– Da migliaia d’anni è rimasta sempre eguale ed io non ho il tempo di modificarla.

Che cosa posso fare ora per te? Io ti devo una ricompensa per l’uccisione del rinoceronte.

– Voi sapete, Altezza, che io mi sono messo ai vostri servigi senza nessuna pretesa. Lasciate che vada a riposarmi: è tutto quello che chiedo.

– Penserò più tardi al miglior modo di mostrarmi generoso con te, mylord. —

Yanez, che pareva fosse un po’ indispettito, s’inchinò senza ribattere parola e salì al suo appartamento.