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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II

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Si vedeva però nel generale qualche cosa che lo contrariava – una nube offuscava la serenità del suo volto – non aveva potuto dar mano all'Albertone, non aveva avuto nessuna notizia della brigata Arimondi colla quale aveva perduto il contatto, nè alcuna dal Comando supremo e questo lo angustiava.

Il generale più tardi ordinò uno sbalzo più innanzi per tastare il nemico, ma questo non si mosse, soltanto raddoppiò il suo fuoco e mise in batteria sullo sprone delle alture del tucül alcuni pezzi d'artiglieria dai quali non trassero alcun effetto.

Mentre così procedeva il combattimento della brigata Dabormida sulla fronte verso Adua, alle sue spalle, nella vallata succedente al Rebbi Arienni avveniva il tragico esodo della colonna Arimondi – arrestata nei suoi movimenti dai fuggiaschi della brigata Albertone, inseguiti alle reni da una massa imponente di nemici – veniva essa pure travolta e decimata prima che avesse potuto spiegarsi e prendere posizione per una energica difensiva.

Non è possibile descrivere gli atti di valore – gli eroismi dei nostri ufficiali per sbarrare la via ai fuggiaschi – per arrestare le irrompenti – enormi masse nemiche. – Il colonnello Brusati alla testa del suo reggimento riuscì di tener testa e di fermare per alcun tempo la nera fiumana, ma minacciato da avvolgimento fu costretto a ripiegare – nel farlo ordinava a se il resto della brigata e dopo di avere tentato un'estrema resistenza, ne formava una colonna che guidò con fermezza ed intelligenza, radunando le truppe disperse e facilitandone la ritirata. Per il suo eroismo, per la sua ammirevole condotta, veniva decorato della Croce all'Ordine militare di Savoia.

Della rotta della brigata Arimondi di questo tragico fatto – nulla si sapeva nella colonna Dabormida, e certamente non fu avvertita neppure dal battaglione De Amicis del 4o reggimento Brusati, che dalle 10 si era schierato sull'altura dominante il colle d'accesso alla vallata, posizione che gli era stato ordinato di occupare per proteggere il fianco della brigata Arimondi e per cercare il contatto colla brigata Dabormida, altrimenti quel battaglione non si sarebbe limitato a rimanere in quella posizione per proteggere le spalle della brigata Dabormida, ma si sarebbe fatto un dovere di avvisarne prima il Dabormida, poi di accorrere senz'altro in aiuto della brigata alla quale apparteneva il suo reggimento.

E il De Amicis non stette a lungo inoperoso; visto la Brigata Dabormida impegnata nella valle sottostante, persuaso che la sua presenza nell'altura non aveva più scopo, perchè sulla destra della direttrice di marcia un'altra brigata aveva impegnato il combattimento, scese dal colle per correre in appoggio ai combattenti; però aveva appena lasciata l'altura che alcuni cavalieri Galla si mostravano sul colle abbandonato; il De Amicis vide subito la necessità di ritornare sull'abbandonata posizione ed a passo di corsa si mosse per rioccuparla; sotto il fuoco nemico il battaglione potè raggiungere un recinto murato, ed ivi trincerarsi.

Nel frattempo il generale Dabormida inteso il fuoco di fucileria sull'altura occupata dal De Amicis mandava ordine al maggiore Rayneri di mandare la sua 1a compagnia a scorta dell'artiglieria, e col resto del battaglione portarsi a rinforzare le truppe del De Amicis, scacciare il nemico e liberare la brigata da qualsiasi minaccia da tergo; l'aiuto giunse in tempo e il nemico potè essere respinto nella sottostante vallata proveniente dal Rabbi Arienni; e fu fortuna che anche il 13o battaglione valendosi di altro recinto in muro a secco assieme al 5o battaglione, poterono occupare solidamente le due alture a tergo e resistervi fino a sera, senza di che la brigata Dabormida avrebbe visto precipitarsi alle sue spalle la maggior parte del grosso del nemico che ritornava dall'avere rotte e disperse le altre due brigate, ed avrebbe avuto preclusa ogni via di ritirata.

Dopo il mezzogiorno fra le truppe del Dabormida e le scioane sul fronte d'Adua si ravvivava la fucilata; la nostra artiglieria si era piazzata sullo sprone delle alture dei tucül. Ad ogni colpo di Shrapnel si scorgeva un rapido sbandarsi degli scioani attraverso le roccie e i rovi; quelli diretti verso lo sbocco della vallata facevano solchi profondi nelle folte colonne nemiche, coperte da alta erba. Il colonnello Airaghi rompe gl'indugi; alla testa del suo reggimento lancia le truppe nel piano ad un primo poi ad un secondo assalto; ed il colonnello Ragni che dal mattino si è trovato sulla linea del fuoco, appoggia gli sforzi del suo collega, quantunque gli aspri fianchi delle alture da dove combatte, gli renda impossibile di mandare avvisi e ricevere ordini.

Ma lassù nelle alture il nemico tiene fermo, e quantunque nel fondo della valle si fosse ritirato, grandi masse riaprono in tutto il fronte un fuoco micidialissimo, per cui i nostri bravi sono costretti a ritirarsi dalle posizioni avanzate guadagnate poco prima, e il nemico riprende le proprie. Le perdite sono gravi assai, fra altri sono caduti i capitani Casadei, Sini, Messaglia, il tenente Vitali, i due tenenti medici Miccichè e Lombi, e molti altri.

I nostri battaglioni hanno ordine di accelerare il fuoco; le batterie secondano mirabilmente; fanno due sbalzi in avanti; ma il nemico non si muove nè dalle alture nè dal fondo della vallata; un centinaio di metri divide i nostri dalla fronte nemica che fa un fuoco d'inferno; le artiglierie rombano con fragore indemoniato; la tromba squilla il pronti per l'assalto; il generale Dabormida come se si trovasse ad una parata, con a fianco il colonnello Airaghi, seguito dagli ufficiali del comando oltrepassa a cavallo la linea di fuoco – in tutti corre un fremito – un urlo tremendo si leva, "Savoja, Savoja!" e dal primo all'ultimo, a denti stretti, con ardore feroce, con l'arma in pugno si slanciano all'assalto; l'urto fu terribile – irresistibile, perchè il nemico ne è rovesciato, costretto a volgere le spalle e darsi confusamente alla fuga – le trombe suonarono alt e fuoco e una scarica a salva investe la terga del nemico. Era la vittoria! e un grido proruppe unanime. "Viva l'Italia! Viva il Re!"

Ad un tratto, potevano essere le 14, un grosso rumore di fucileria da tergo gela il sangue degli eroici combattenti. Grossi stormi di cavalieri galla si videro scendere dal colle e dietro la cavalleria un nero nembo di fanteria. All'imminenza di un attacco da tergo il bravo generale Dabormida non perdette l'ammirabile sua calma giacchè non avrebbe potuto supporre che tutto il resto dell'esercito fosse scompaginato, e già rotto e lontano: urgeva provvedere perchè il De Amicis e Rayneri tenessero fermo nella loro posizione; e questi rimasero saldi come torri fin all'ultimo; l'azione di questi due battaglioni fu veramente eroica e provvidenziale.

Si sa già che cosa era avvenuto: battuta la colonna Albertone che si era distanziata dagli altri corpi e messa nell'impossibilità di essere soccorsa, il nemico dieci volte superiore ai nostri inseguendo gli indigeni in fuga capitarono precipitosamente sulla brigata Arimondi che stava prendendo posizione, la scompagina, la rompe e mette in fuga e colla stessa rapidità piomba sulla brigata Ellena di riserva e sgomina e disperde pur questa. Atti eroici furono compiuti dalla brigata Arimondi, altrettanti e pure eroici dalla brigata Ellena ma, questi non riuscirono a frenare la valanga impetuosa delle enormi masse nemiche che inseguendo i fuggiaschi tutto travolgevano e rovesciavano.

Rotte, sgominate le tre brigate Albertone-Arimondi-Ellena, poste in fuga e lanciate alle loro calcagne arditi distaccamenti e grossi reparti di cavalleria galla, tutto il grosso dell'esercito abissino si rivolse dove ancora si combatteva con tanto eroismo da obbligare più volte forze assai superiori alla ritirata; e da quel momento la situazione della brigata Dabormida diveniva disperata. Bisognava prepararsi ad un'ultima e disperata difesa la gloriosa brigata si lancia contro il nemico su tre fronti. Il generale Dabormida a cavallo a capo scoperto e coll'elmo nella mano destra, si lancia avanti a tutti, il colonnello Airaghi lo segue con la sciabola in alto, eroicamente eccitando i suoi bravi alla pugna!

Un urlo tremendo! – e disperatamente le nostre truppe si precipitano sul nemico che non indietreggia, impedito a retrocedere dalla massa enorme che gli si accalca addosso e l'obbliga ad avanzare – ma la lotta a corpo a corpo è terribile – tanto è il furore dei nostri – tanta è la strage che seminano intorno a loro che la massa scioana ne è scossa, ondeggia ed è costretta a cedere terreno.

Lo spazio necessario per la ritirata è aperto – ma quanti prodi seminati per la via sanguinosa! Pel prode generale fu un momento ben triste quando rivoltosi al colonnello Airaghi gli disse "Airaghi bisogna iniziare la ritirata: tu la coprirai col tuo reggimento!" "Va bene generale" rispose il colonnello del 6o reggimento e si separarono per non vedersi mai più!

Dabormida si diresse all'imbocco dell'angusta valletta per dove dovevano sfilare le truppe in ritirata, e dava gli ordini opportuni; poi preoccupato della sua sinistra, insieme al capitano Bellavita suo aiutante di campo volle ascendere l'aspra altura ove ancora combattevano i battaglioni De Amicis e Rayneri.

Era di lassù che solo potevasi coprire la ritirata delle truppe combattenti nella valle. Rifiutandosi il cavallo di salire per l'erta dovette scendere; incaricò il capitano Bellavita di portare i suoi ordini al De Amicis e al Rayneri di tener fermo ad ogni costo, e ridiscese per dirigere l'incolonnamento della brigata.

Quando il Bellavita ritornò dopo avere impartiti gli ordini, il generale Dabormida, questo fulgido eroe leggendario, era scomparso!

Finito il periodo epico dei gloriosi combattimenti, si dava principio a quello tragico di una disastrosa ritirata! E, come era da immaginarsi, ne seguì una carneficina orrenda.

 

I battaglioni De Amicis e Rayneri che avevano strenuamente sostenuto l'urto di un nemico più che quintuplo e che ancora stavano sulle alture a proteggere la ritirata, quando videro che il 6o ed ultimo reggimento si ritraeva per lo sbocco della valletta ad imbuto, anch'essi abbandonarono le trincee fin allora difese per ridursi al colle e ritirarsi; nella stretta insenatura di questa si svolse l'esodo triste di una grande brigata! – Soprafatta dal numero, sfinita dalla sete, dalla fame, lacera, semiscalza, dopo una intera giornata di combattimento, senza tregua, abbandonava il campo col cuore stretto dall'ambascia, ma fiera per il dovere compiuto! Fu una scena d'orrore illuminata dagli ultimi raggi del sole, che esso pure andava morendo. La brigata aveva strenuamente, eroicamente combattuto dal sorgere al tramontare del sole. Tutto era perduto anche per la brigata Dabormida – non era certo perduto l'onore.

Ah! se le nostre quattro brigate avessero mantenuto il contatto! quale scempio delle orde scioane avrebbero fatto! E fu fatalmente strano che a questo non si sia rigorosamente provveduto! e non si sia pensato che è un principio incontestabile di guerra che un esercito di fronte al nemico deve sempre tenere le sue colonne riunite, in guisa che il nemico stesso non possa mai introdursi fra le medesime. Anche quando si sia dovuto dividere un esercito affine d'avviarlo per linee concentriche contro il nemico, è necessario all'approssimarsi ad esso per dare battaglia, che gl'intervalli fra le diverse colonne siano raccorciati tanto che queste possano a vicenda agevolmente soccorrersi e sostenersi. E a questo principio elementare di guerra nella fatale giornata di Adua non si è pensato!

Che ne era avvenuto del generale Dabormida, del colonnello Airaghi, del maggiore De Amicis e di tanti e tanti altri eroi? Nessuno sapeva dirlo!

Il valoroso colonnello Ragni comprese che era a lui ormai serbato un altro grave dovere, quello di dirigere la ritirata. Verso le 19 la colonna sboccò su di un ripiano sul quale si elevava una specie di controforte; il colonnello decise di far quivi l'ultima resistenza per riordinare al riparo di questo ed alla meglio la confusa massa dei superstiti. Il capitano Pavesi coi suoi ufficiali Benito (ferito), Camelli, Caloria, con la loro bella compagnia del 5o indigeni, formarono il nucleo principale della più che ardita difesa; là si trovarono e si riunirono i maggiori Prato, Raqueni e De Fonseca; i capitani Paperotti, Guastalla, Liquori, Sciarra, Cicerchia, Voet, Bellavita; i tenenti Matteucci (ferito), Massazza, Angelini, Zonchello, Benetti, Carossini, Donedu (ferito), Bairi, Neri (ferito) ed altri ed altri.

Il nemico vista la tenacia temeraria dei nostri non volle avventurarsi nell'oscurità della notte e cessò dall'inseguimento, per cui la ritirata potè compiersi, ma seminando nei giorni appresso altre ossa lungo tutta la via ben dolorosa, perchè i superstiti furono continuamente assaliti dagli insorti nei paesi che attraversavano.

Nel combattimento d'Adua cadde da eroe, fra tanti e tanti altri, il capitano Leopoldo Elia di Ancona, il prode garibaldino ferito a Mentana, il valoroso soldato dell'esercito alla breccia di Porta Pia. Egli era già stato in Africa colla spedizione di San Marzano quale capitano dei bersaglieri; vi era rimasto per due anni e fu costretto a rimpatriare per grave malattia. Ricuperata la salute lo si tolse dall'arma dei bersaglieri, nella quale aveva fatta tutta la sua carriera, grado a grado, fino a quella di capitano – arma che egli idolatrava!

Fu un colpo assai doloroso per lui – e per mostrare che avevano avuto torto di toglierlo dal corpo suo prediletto, appena si ebbe notizia dell'eroica giornata di Amba-Alagi, non chiamato, offriva volontario i suoi servigi alla patria e ripartiva colla brigata Ellena.

Nella fatale, ma pur gloriosa giornata d'Adua, schierata la sua compagnia sotto un fuoco infernale nemico, nella posizione che doveva tenere e difendere, incuorando i suoi bravi soldati che l'adoravano, dando loro l'esempio, eroicamente combattendo, per più ore sostenne urti tremendi che sempre respingeva; ma infine circondato da migliaia di nemici, senza ritrarsi d'un passo, vendendo cara la vita egli e i suoi bravi che sempre assottigliandosi si stringevano intorno a lui, cadeva ferito per non più rialzarsi. Così finivano quasi tutti della compagnia comandata da Leopoldo Elia, preferendo morire piuttosto che darsi prigionieri.

E un altro valorosissimo lasciava la vita in quella fatale giornata, un carissimo amico dell'Elia che merita di essere ricordato, il capitano Ciro Cesarini di Corinaldo.

Uscito dalla scuola di Modena entrava come sottotenente nel 4o reggimento bersaglieri. Nel 1894 domandò ed ottenne di essere mandato in Africa e venne destinato col grado di tenente alla 2a compagnia cacciatori di guarnigione a Keren.

Dopo pochi mesi venne chiamato alla 3a compagnia del 2o battaglione indigeni comandato dal maggiore Hidalgo – combattè da valoroso per l'espugnazione di Cassala e vi guadagnò la menzione onorevole e per merito fu promosso capitano nella 1a compagnia del 1o battaglione indigeni sotto il comando del maggiore Turitto.

Col suo battaglione prese parte alla battaglia di Debra-Ailà ed all'inseguimento di Ras Mangascià.

Quando si formò il corpo di operazione contro gli Scioani, col suo 1o battaglione indigeni entrò a far parte della brigata Albertone – che come si è visto – fu la prima ad impegnarsi nel combattimento del 1o marzo – ed a sostenere tutto il grave peso dell'immensa oste nemica per essersi distanziata dalle altre nostre brigate.

Dopo la triste notizia del disastro toccato alle armi nostre nella battaglia d'Adua, alla famiglia, ai concittadini, agli amici, trepidanti per la sua sorte, venne notizia che il capitano Cesarini si trovava ad Adigrat; però la novella fu presto smentita. Solo poté essere accertata la sorte del valoroso capitano, quando fu liberato dalla prigionia l'ultimo scaglione dei prigionieri di Menelik del quale faceva parte il tenente Fuso, unico ufficiale superstite della compagnia comandata dal Ciro Cesarini, del quale raccontava così l'eroica fine.

"Il capitano Cesarini con la sua compagnia fu il primo ad attaccare il nemico e ne sostenne il fuoco per due ore di seguito.

"Quando il generale Albertone – dopo accanito combattimento contro masse nemiche dieci volte superiori alle sue forze – minacciato di avvolgimento – si trovò costretto ad ordinare la ritirata – il capitano Cesarini col resto della sua compagnia e con quanti altri potè raccogliere, venne incaricato di proteggere la ritirata – Ed egli – dando esempio ai suoi che in pochi rimasti si serravano intorno a lui – non abbandonava un palmo di terreno e battendosi come un leone compiva fin all'ultimo eroicamente il suo dovere. Ferito ad un braccio continuò a combattere – ma una palla gli fracassò un ginocchio – la ferita era orribile – il sangue ne usciva a fiotti – gli spasimi dovevano essere atroci.

"Io ed il furiere della compagnia volevamo prestargli soccorso – ma egli – visto che per lui era finita – ci pregò di non occuparci di lui – ordinava a me di prendere il comando della compagnia e di resistere fino all'ultimo.

"Allora lo trasportammo in una specie di grotta che vi era lì appresso – durante il tragitto perdette i sensi – lo adagiammo alla meglio e più non lo rivedemmo".

Ecco quanto il generale Albertone dice di questo bravo e della sua eroica compagnia.

"La compagnia rimasta col tenente Fuso, che ne aveva assunto il comando, col furiere ed una trentina di soldati Ascari rimasti, respinse quattro volte il nemico con altrettanti attacchi alla baionetta.

"Durante la mia prigionia intesi più volte dai capi Abissini la narrazione dei prodigi di valore del capitano Cesarini, il quale aveva meravigliato gli stessi nemici".

E combattendo da valorosi lasciavano in quella giornata la vita pure, il prode tenente Monina Attilio, ed i forti giovani Adolfo Muzzi, Alfredo Pettinelli, Adolfo Santarelli, Cesare Salustri, Cesare Stramazzoni.

O forti e valorosi soldati – la vostra fine non doveva essere diversa! Solo agli eroi è dato la gloria di morire ravvolti nella propria bandiera!

Ancona e i luoghi della sua provincia che vi dettero i natali conserveranno sacra la vostra memoria!

Al generale Baldissera toccò di compiere le operazioni militari nel secondo periodo della campagna d'Africa 1895-96.

Con rapide mosse, con ardite dimostrazioni su Coatit, su Debra-Damo e su Adua, affine di coprire il vero obiettivo del corpo di operazione, riusciva in breve a liberare il presidio d'Adigrat; a riordinare gli avanzi del primo corpo di operazione che aveva combattuto ad Adua; a coprire la colonna minacciata nel punto più vitale; ad iniziare trattative di pace col precipuo scopo di guadagnar tempo, per ottenere la liberazione dei nostri prigionieri, il seppellimento dei nostri morti; – e portare soccorso a Cassala.

Operazioni tutte condotte a compimento con militare energia e con sommo accorgimento da meritare il plauso del paese.

CAPITOLO XXXI

Volontari italiani in Grecia

Nel 1897 – un grido di entusiasmo echeggiava da un capo all'altro d'Italia per la causa ellenica – il filellenismo fu sempre fra noi una delle corde che più vibrarono nel cuore di quanti sentivano amore di patria e di libertà – e tutte le volte che la Grecia tentò di sottrarre dall'onta del governo turco le belle terre che le appartengono, l'Italia non vi rimase insensibile e mandò i migliori suoi figli a combattere per la sua redenzione.

Sarebbe troppo lungo il ricordare i patriotti che le diedero la vita in tempi ormai lontani ma pur non dimenticati; basterebbe ricordare il Santorre Santarosa – nel 1821 – il Basetti – il Tarella – il Mamiot – il Tirelli – il Briffori – il Tarsio – il Viviani – il Torricelli – il Prenario – il Miovitowich – il Dania – il Rattelani – che diedero la vita per la Grecia nel 1822 – e l'Andrea Broglio marchigiano che lasciava la vita ad Anatolica nel 1828 – come molti greci lasciarono la loro vita per la causa italiana; accenneremo ai più recenti, e diremo che insorta l'isola di Creta dopo la campagna del 1866, ben duemila e più volontari e non meno di ottanta ufficiali corsero a dare agli insorti il loro aiuto. I primi, sbarcati a Sira furono posti sotto gli ordini di Zambra-Kakis, Bisanzios, e Coracas, gli altri sotto il comando del maggiore Mereu, e tutti diretti all'isola di Creta ove si combatteva per la propria indipendenza.

Al Mereu prima della sua partenza il generale Garibaldi consegnava la lettera seguente:

Caprera, 9 ottobre 1866.

"Il maggiore Mereu, uno dei miei prodi compagni d'armi, va in Grecia per combattere la santa causa di quel paese.

"Io lo raccomando caldamente ai miei amici.

G. Garibaldi".

In tutti i combattimenti per l'indipendenza della Grecia il sangue italiano fu sparso gloriosamente.

Nel 1867 la Grecia minacciava di sorgere in armi per la questione non solo di Creta ma anche per la causa macedone: una nuova spedizione di Toscani guidata da Sgarellino partiva da Livorno; toccata Caprera prendeva il comando della spedizione il bravo giovane Ricciotti Garibaldi.

Egli partiva diretto non a Candia ma al Pireo, con istruzioni del padre di vedere di portare la rivoluzione nell'Epiro e nell'Albania e di far sapere che se l'insurrezione avesse luogo, anche egli sarebbe accorso sul campo dell'azione.

Ma mentre un comitato ellenico era dietro ad organizzare un movimento sulla frontiera Epirota; l'intervento delle potenze intimava alla Grecia di spegnere il movimento nel suo nascere, e i volontari italiani dovettero rimpatriare.

Nel 1875, Mico Liubibratic, un eroe Erzegovese, che col Vucalovich si era mantenuto in campagna contro i Turchi per l'indipendenza della sua patria fino al settembre 1862 riportando segnalate vittorie il 13, 14, 18 ottobre – tali da destare l'universale ammirazione e da obbligare il governo ottomano a segnare in Ragusa un trattato favorevole all'Erzegovina (trattato i cui patti non furono poi rispettati) – aveva ripreso le armi e indirizzava un fiero proclama alla gioventù di tutte le nazioni, perchè rispondessero al suo appello. Garibaldi alzava anche esso la sua voce in favore dell'Erzegovina col seguente proclama:

A Liubibratic ed ai suoi gloriosi compagni!

"Miei cari amici,

"Voi vi siete assunti una difficile missione, ma bella, superba, santa; quella dell'emancipazione degli Slavi dalla più atroce delle tirannidi.

 

"Io vi invidio e giammai tanto mi pesarono gli anni come oggi, che non posso dividere con voi glorie e perigli.

"Già m'indirizzai a tutte le popolazioni che languono sotto il giogo ottomano e non dispero di vedere raggiungere la vostra bandiera dai prodi che contano nella loro storia i Leonidas, gli Spartachi e gli Scanderberg.

"Il vostro divisamento di sostenere la guerra di partigiani durante l'inverno, lo credo il migliore; l'avvenire è vostro. Qualunque uomo che non sia un perverso farà sua la causa vostra e come noi palpiterà di gioia al vostro glorioso trionfo".

Roma, 29 ottobre 1875.

Vostro
G. Garibaldi.

Al patriota esule triestino, presidente del Comitato per gl'insorti erzegovini, scriveva così:

"Mio caro Popovich,

"Ove rimanesse un insorto solo nell'Erzegovina, bisogna aiutarlo.

"Io spero che Liubibratic e compagni si sosteranno sino alla primavera. Intanto bisogna lavorare per loro a tutta forza.

"Dite ai valorosi del Montenegro che il mondo ammira il loro eroismo, e salutateli caramente per me".

Roma, 31 ottobre 1875.

Sempre vostro
G. Garibaldi

E quando ebbe per telegramma i particolari della battaglia di Piva nella quale i Turchi toccarono una solenne sconfitta, così gli scriveva:

"Caro Popovich,

"I liberi d'ogni paese europeo esultano per la splendida vittoria degli eroici figli dell'Erzegovina orientale".

Roma, 5 novembre 1875.

G. Garibaldi.

Non è quindi da meravigliarsi se all'annunzio dell'insurrezione di Creta nel 1897 e dell'attitudine del governo Ellenico di sostenerla anche a mano armata contro il Turco, in Italia vecchi patrioti e giovani di cuore ardente, sentirono il sacrosanto dovere di continuare la gloriosa tradizione della camicia rossa, quale simbolo di libertà per gli oppressi.

Per opera dell'insigne patriota Ettore Ferrari, coadiuvato dal colonnello Gattorno, si formò un corpo di garibaldini. Ma in parte per le difficoltà frapposte dal Governo Italiano, che per riguardo ai trattati internazionali doveva ostacolare l'imbarco dei volontari, ma ancor più per le incertezze dello stesso governo di Grecia, il numero degli accorsi fu assai limitato. E per provare che tali incertezze riuscirono dannose alla causa ellenica, basti il dire, che avendo il generale Menotti Garibaldi (col quale sarebbero andati i colonnelli Pais, Cariolato, Elia, Bedischini e tanti e tanti che lo avrebbero seguito da formarne una divisione) telegrafato al fratello Ricciotti se doveva partire, riceveva risposta, che gli diceva inutile la partenza, giacchè riteneva, dal modo come si mettevano le cose, che forse egli stesso sarebbe stato costretto a fare ritorno in Italia.

Per tutte queste contrarietà si potè solo formare intanto un 1o battaglione di duecento cinquanta uomini, che comandati dal Mereu, furono i primi a partire per la Grecia. Del grosso del corpo di ottocento uomini, formatosi poi, il generale Ricciotti Garibaldi comandante di tutta la Legione, ne formava altri due battaglioni il 2o e il 3o.

E ci volle tempo non breve, dopo giunti al Pireo e ad Atene, perchè questi bravi potessero avere le armi e il più stretto necessario per un corpo destinato a combattere. Finalmente il 7 di maggio il Ministro della guerra partecipava al comandante del corpo garibaldino generale Ricciotti Garibaldi, l'ordine di marcia.

Il giorno 9 la Legione approdava ad Hagia-Marina; ivi giunta il generale avvisava telegraficamente il principe Costantino a Domokos del suo arrivo; questi lo invitava a raggiungerlo senza ritardo. A Domokos la Legione garibaldina fu posta sotto gli ordini del generale di divisione Mauromichaelis.

La mattina del 17 maggio l'esercito turco, forte di settantamila uomini, diviso in cinque divisioni, con movimento aggirante attaccava l'esercito greco, di appena 28 mila combattenti.

L'attacco più accanito si svolse nel centro, contro le trincee intorno a Domokos, tenute validamente dalle truppe greche comandate dal generale Mauromichaelis, che da prode vi lasciava la vita.

A questo combattimento prese parte il 1o battaglione garibaldino comandato dal Mereu, che vi perdette ben 50 circa dei suoi valorosi fra morti e gravemente feriti. Per la morte del generale Mauromichaelis che le comandava, e per il numero preponderante del nemico, le truppe greche dovettero abbandonare le trincee di Domokos. Da quel momento la battaglia poteva dirsi finita, perché il principe ereditario, a notte fatta metteva tutto il suo esercito in ritirata per Furca.

Mentre questo avveniva al centro, all'estrema sinistra la divisione Hairi Pachà spingeva distaccamenti con l'obiettivo di impossessarsi della strada Koto-Agoriani-Dereli-Moccoluno onde tagliare ai Greci la ritirata; mentre col grosso delle sue forze si presentava ad attaccare la piccola divisione Tertipis che occupava Balimbeni-Kasimir-Amaslar.

Contro la divisione Hairi Pachà combattevano eroicamente il 2o e 3o battaglione dei garibaldini, fiancheggiati dalla brava legione Filellenica.

Ecco come il generale Ricciotti Garibaldi descrive il combattimento.

"Indovinato il piano di attacco del generale Hairi Pachà, decisi di prendere contatto con le truppe nemiche in una specie di semicerchio rientrante che faceva la pianura a piè delle colline, il cui corno destro era tenuto solamente dalla Filellenica ed il sinistro da alcuni Euzoni della divisione Jertipis.

"In mezzo a questo semicerchio vi era una collinetta isolata; e questa era la posizione che io ordinai d'occupare per tener testa alle masse nemiche; già i tiragliatori turchi più avanzati, ne avevano raggiunte le falde a destra e sinistra accogliendo la comparsa della nostra colonna con un ben nutrito fuoco. Fermate per un momento le prime compagnie dissi ai miei bravi così:

"Compagni! ricordatevi che oggi è affidato a voi l'onore e la dignità d'Italia".

"Queste poche parole furono accolte con fremito d'entusiasmo e non ebbi dubbio che questa terza generazione di Camicie Rosse sarebbe stata degna delle precedenti.

"Ordinai a Martinotti, comandante del 2o battaglione, di stendere la 1a compagnia in ordine aperto e prendere possesso a passo di corsa della collinetta – obbiettivo del nostro campo d'azione.

"Per fortuna la nostra brava 1a compagnia giunse sul culmine della collina, che era attraversata da una scogliera di muro a secco, pochi minuti prima dei turchi. Arrivati alla scogliera i nostri aprirono un fuoco accelerato sul nemico – ma questi a sua volta li fulminava con fuoco incrociato.

"Fu in questo momento che accadde un fatto il quale sarà sempre un dolore per l'Italia.

"Fra i primi che giunsero sulla cresta della collina vi erano alcuni ufficiali del mio stato maggiore, tutti provvisti di fucile. Con essi si trovava il nostro Antonio Fratti. Raggiunta che ebbi in pochi minuti la sommità, mi sentii dire: Generale, Fratti è ferito! Mi rivolsi al piccolo gruppo che si allontanava col ferito, e chiesi: "Come sta Fratti?" Mi fu risposto "è morto".

"Ne sentii dolore vivissimo!

"Povero Fratti! fu destino che dovesse trovare l'estremo giaciglio là sotto un salice sulla sponda del Pentamili!

"All'apparire dei nostri il movimento in avanti del nemico si era arrestato; ma tutto il fuoco lo aveva concentrato sulla collina e le Camicie Rosse presentavano uno splendido bersaglio tanto che in un momento ne caddero parecchie.

"Il capitano Capelli comandante della 1a compagnia, mio figlio Beppino ed altri sette o otto si erano già slanciati giù del pendio contro il nemico strapotente; immediatamente diedi ordine a Martinotti di abbandonare la collina e di avanzare, a passo di carica, contro il nemico.

La 2a, 3a, 4a compagnia furono spinte avanti in sostegno del movimento sulla sinistra, e quattro compagnie greche (3o battaglione comandante Martini), sulla destra.

"La sezione francese – sotto de Barre – seguì il battaglione italiano; e la sezione inglese – sotto Erio Short – si unì al battaglione greco.