Za darmo

Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II

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Ma nella notte Ras Mangascià pensò bene di ritirarsi coi suoi verso Senafé.

Avutone il Barattieri notizia alle 3 1/2 del mattino del 15, diede gli ordini opportuni per l'inseguimento del nemico – questo durò fino a Senafé – ma non fu potuto raggiungere e le truppe abissine si dispersero.

Dopo la sconfitta di Coatit e la disastrosa ritirata da Senafé, Ras Mangascià, mentre faceva proteste di amicizia e mostravasi al generale italiano animato dal desiderio di pace, cercava d'altra parte di raccogliere soldati, ed avendo posto il campo coi suoi a due giornate da Adigrat, era di ostacolo alla pacificazione della regione. In tale stato di cose l'occupazione di Adigrat, capitale dell'Agame, per parte nostra s'imponeva.

Nella metà di marzo Barattieri intimava a Mangascià di disarmare; e siccome invece di disarmare egli continuava a dare molestie, il generale decise di varcare il confine ed occupava militarmente Adigrat.

Intanto le informazioni che venivano dallo Scioa confermavano sempre più la notizia che Menelik era deciso di portare forte aiuto a Mangascià. Nel suo rapporto al Ministro degli Esteri il governatore dell'Eritrea informava dello stato delle cose, concludendo che bisognava essere pronti ad una grossa guerra pel prossimo dicembre.

E fu in seguito a tali notizie che il Ministero, non essendo d'accordo sulle misure da prendersi, reputò opportuno di chiamare il governatore in Italia col seguente telegramma:

Roma, 8 luglio

"Il governo desidera conferire verbalmente sulla situazione preveduta pel prossimo autunno. La preghiamo prendere disposizioni opportune per una sua breve assenza dalla Colonia".

Crispi-Blanc-Mocenni.

Prima di lasciare la Colonia il generale disponeva che a vigilare le regioni occupate, il maggior Toselli ponesse la sua dimora nell'Agamè e che il maggior Amelio si stabilisse nel Tigrè dominando Adua dal colle di Fremona. Tutto disposto il governatore, ubbedendo agli ordini del governo, s'imbarcò per l'Italia.

Verso la fine di settembre ebbero luogo delle scaramuccie al di là dei nostri confini fra partigiani nostri e gruppi di fedeli a Mangascià il quale seguitava a raccogliere armati. Era evidente la necessità da parte nostra di attaccare Mangascià prima che potesse ricevere gli sperati aiuti dallo Scioa.

Il governo Eritreo ai primi d'ottobre chiamò sotto le armi la milizia mobile e decise di prevenire la minacciata invasione.

Il generale Barattieri era ritornato al suo posto.

Si era saputo che Ras Makonnen, aveva espulso dall'Harrar gli italiani e si era mosso col suo esercito per raggiungere il Negus; che Ras Mikael era pronto col suo esercito e che Ras Oliò s'era avanzato fino al sud del Lago Ascianghi. Non c'era tempo da perdere; una sconfitta inferta a Mangascià poteva ancora trattenere Menelik e persuaderlo ad evitare un conflitto; così fu creduto dal comando.

Il giorno 4 di ottobre il generale Barattieri mosse da Adigrat con quattro battaglioni indigeni, col battaglione Cacciatori d'africa e coi reparti del genio e dell'artiglieria.

L'ordine di marcia in avanti fu accolto con entusiasmo nel campo.

Il Toselli fu distaccato col suo battaglione in colonna volante, con incarico di sorprendere sul fianco Mangascià in ritirata.

Il nostro corpo d'operazione invase l'Enderta. Circa 1700 tigrini avevano occupato la forte posizione di Debra-Ailà; mosse a quella volta con rapida e faticosa marcia il maggiore d'Amelio col suo battaglione, attaccò vivamente la posizione malgrado la difficoltà del luogo e della difesa e ne determinava la sconfitta e la fuga del nemico, facendo numerosi prigionieri.

Il maggior Toselli la sera dell'8 informava il generale di avere occupata la posizione alle spalle del nemico che si trovava al sud di Debra-Ailà e che la mattina seguente avrebbe proceduto all'attacco.

Ricevuta questa notizia verso notte Barattieri ordinava alle tre dì mattino si riprendesse la marcia. Alle 11 i nostri entravano in Antalo senza avere incontrato il nemico. Si sentiva un vivo fuoco di fucileria ed esaminata la posizione si vide che si combatteva sulle alture di Debra-Ailà.

L'assalto di quella forte posizione era stato iniziato dalle bande comandate dai bravi tenenti Sapelli e Lucca; quando queste furono spinte sui fianchi il maggiore d'Amelio fece avanzare due compagnie di Ascari, mentre l'Artiglieria sloggiava il nemico delle alture.

Dopo un quarto d'ora di fuoco accelerato, il battaglione indigeno muoveva all'assalto della montagna, mentre Barattieri faceva avanzare il battaglione dei cacciatori italiani, sostenuti dal 3o battaglione indigeno. In breve i nostri forzarono il ridotto dell'Amba e il fuoco cessava. Il nemico, sbaragliato si dava alla fuga, mettendosi in salvo per sentieri impraticabili.

Finito il combattimento il battaglione d'Amelio, che si distinse in modo particolare, rimase sulla forte posizione conquistata con una batteria; le altre truppe ritornarono ad Antalo, ove Barattieri pose il suo quartier generale.

Il generale Arimondi avuto notizie che Mangascià si era diretto verso il Vogherat si mosse da Antalo per inseguirlo, così pur fece il maggior Toselli; sorpassata la catena di Tagarrà, raggiunse il campo del Ras che lo aveva abbandonato poco prima; lo inseguì ancora, ma si cercò invano di raggiungerlo; allora riunitosi Arimondi col Toselli presero la via di Amba-Alagi.

Dopo questi fatti il Makonnen mandò proposte di pace d'incarico del suo sovrano; ma queste non erano che inganni per guadagnar tempo e per addormentare il governo italiano e il comando dell'Eritrea. Si sapeva invece che Menelik raccoglieva forze poderose, che unite a quelle di Makonnen formavano già un corpo rispettabile di circa cinquantamila uomini.

Mentre questo si preparava nel campo nemico, al comando di Massaua, mancando un servizio di sicure informazioni, nulla si sapeva, e così il governo e il governatore dell'Eritrea, continuarono ad andare innanzi nella convinzione che il Negus non si sarebbe mosso, e che non si trattava di altro che di minaccie. Insomma si credeva ad una eccellente situazione, quando già ingenti masse si riunivano al lago Ascianghi e si facevano allo Scioa gli ultimi preparativi per la gran guerra di esterminio degli italiani.

A confermare il comando nella sua credenza, il 3 dicembre un dispaccio ufficiale annunziava che ras Makonnen aveva chiesto un convegno al generale Barattieri "per trattare la pace". Perfido inganno – che ribadiva nel nostro governo una fallace illusione, il cui risveglio doveva essere fatale e tremendo. E questo risveglio non doveva pur troppo ritardare.

Il giorno 9 dicembre veniva comunicato alla Camera dei deputati un dispaccio del generale Barattieri col quale informava che la colonna Toselli era stata improvvisamente attaccata ed avviluppata ad Amba Alagi da tutto l'Esercito Scioano. Si riteneva che l'ordine mandato dal generale Arimondi di ritirarsi, non gli fosse pervenuto.

Che il generale Arimondi avanzatosi per sostenere il Toselli era arrivato alle ore 16 a mezza strada fra Macallè e l'Amba nella posizione di Aderat; ivi incontrate le colonne nemiche aveva impegnate con esse combattimento ed aveva poi concentrate tutte le sue truppe col massimo ordine a Macallè; che lasciato Macallè fortemente presidiata e munita, si era messo in marcia per Adagamus assieme agli ufficiali Bodrero, Pagella e Bazzani.

Infine concludeva che mancavano notizie del Toselli.

L'annunzio del doloroso avvenimento produsse una impressione enorme.

Ecco le informazioni che si ebbero sul combattimento ove si coprirono di gloria coloro che vi presero parte.

Il maggiore Toselli aveva fin dal giorno precedente disposta la sua difesa, sempre con la certezza che il generale Arimondi gli avrebbe portato soccorso.

Aveva ordinato che le bande di ras Sebath e di Degiac Alì, 350 fucili, tenessero il colle a guardia della strada Falaga all'estrema sinistra; che le Compagnie Issel e Canovetti tenessero la sinistra con una centuria avanzata verso la chiesa di Atzalà; che la batteria Angherà, scortata dalla compagnia Persico tenesse il centro; che le bande dell'Oculè Cusai, 350 fucili, tenessero le colline sovrastanti; che lo Sceicco Thalà con 340 fucili stesse sulla destra a difesa del Colle di Togorà-Maggia; che le compagnie Ricci, Bruzzi e la centuria Pagella stessero in riserva. L'attacco non si fece attendere.

La colonna di ras Oliè con una mossa rapida frontale avvolgente impegnò l'ala estrema sinistra: ras Sebat preso di fianco e di fronte dovette ripiegare, lasciando le due compagnie Issel e Canovetti scoperte e costrette a cambiare la fronte, pur sempre trattenendo il nemico incalzante. Intanto dal Colle di Bootà sbucavano imponenti le colonne di ras Mikael e di ras Makonnen, circa 15,000 fucili, dirette per la via principale verso il centro della posizione. La nostra ala sinistra, sebbene stremata, con brillanti contrattacchi teneva in rispetto forze venti volte superiori. Erano morti i tenenti Molinari e Basale, e ferito il tenente Mazzei.

A Toselli premeva tenere ancora quella posizione che proteggeva la strada diretta di Antalo, donde sperava veder giungere la colonna Arimondi e slanciò a sinistra la compagnia Ricci; questi si avanzò e impegnossi a fondo. Il nemico dovette ripiegare incalzato sul fronte; frattanto la batteria apriva squarci nella pesante colonna scioana, ma questa riordinandosi e rafforzata da nuove bande continuava ad avanzare.

Giungeva allora (9,45) l'avviso di Volpicelli che un'altra forte colonna comandata da ras Alula e da ras Mangascià, tentava girare la destra tendendo al Colle di Togorà; anche da quella parte si facevano vive le fucilate. Toselli, non vedendo giungere gli sperati aiuti, decise di restringere la difesa e di tenersi addossato all'Amba; mandava quindi ordini a Ricci, a Canovetti, a Issel di eseguire un ultimo contrattacco e la ritirata sotto l'Amba; alla sezione Manfredini ordinava di proteggerli. Intanto la colonna principale scioana avanzava sulla batteria, nè valevano a trattenerla i tiri spessi e ben aggiustati e le salve della centuria Persico.

 

Toselli allora ordinava che le salmerie s'incolonnassero sulla via di Togarà ed il movimento cominciò regolarmente: a sostenere il movimento al nord dell'Amba, Manfredini ebbe ordine di spostarsi colla sezione da quella parte.

Appena gli scioani si accorsero del cessare del fuoco della batteria, irruppero rincalzando l'assalto; fu un momento terribile; la strada strettissima sovrastante a un precipizio, era ingombra di muletti carichi di feriti; Manfredini con sangue freddo e valore inarrivabile riusciva a mettersi in batteria, Pagella si distendeva con pari valore a protezione della colonna affollantasi; sventuratamente lo Sceicco Thalà aveva ripiegato in disordine.

Le bande del Volpicelli erano disfatte; l'altura era coronata dalla gente di ras Alula che con fuoco accelerato a meno di cinquanta metri, infliggeva perdite enormi. I nostri ascari rispondevano al fuoco in ritirata; la compagnia Brizzi disfatta, non potè fare argine alle grosse colonne di ras Makonnen e di ras Oliè che irrompevano prendendo i nostri alle spalle. I sudanesi del tenente Scala, piuttosto che cedere i pezzi, rovesciarono i muli, i cannoni e le munizioni nel precipizio.

Manfredini mitragliava a cinquanta passi; ma il numero esorbitante degli scioani rese impossibile ogni ulteriore difesa. Allora cominciò la discesa del dirupo precipitosamente per proseguire il movimento su Macallè.

L'ultimo a muoversi fu Toselli; conservando la sua calma, disposto come era a sagrificare la sua vita, dava ordini affinchè il danno fosse il minore possibile; erano rimasti intorno a lui pochi ufficiali: Angherà, Persico, Bodrero, Pagella e i suoi più fidi e valorosi soldati. Tutti erano sfiniti; e la piccola schiera andò man mano assottigliandosi nella discesa, colpiti a dieci passi di distanza. Giunto sulla strada di Antalo, Toselli, da vero eroe ordinò a Bodrero di raccogliere i pochi rimasti e condurli a Macallè. Egli, si voltò sereno verso il nemico, sfidandolo in attesa della sua sorte.

Bodrero, ubbidiente agli ordini del suo superiore, riordinò la colonna, trattenne i dispersi e li portò ad Arimondi che si trovava ad Aderà e nulla sapeva del combattimento; con Bodrero si salvarono Pagella e Bazzani.

Il giorno dopo il combattimento, Makonnen, ordinò solenni funerali alla salma del maggior Toselli, del quale ammirava il valore. Tutta l'Italia ha sentito per quest'Eroe un fremito di compianto e di orgoglio.

L'assalto all'Amba Alagi fu dato improvvisamente come sempre, ed a tradimento, mentre pendevano trattative di pace ingannatrici.

Tant'è vero che avendo ras Mangascià investito alcuni dei nostri posti avanzati, il maggiore Toselli se ne lagnò con Makonnen, e questi rispondeva che Mangascià aveva operato di sua testa, contrariamente agli ordini da lui dati. – Vero esempio di fede abissina!

Il generale Arimondi raccolti i superstiti di Amba Alagi si ritirò su Adigrat lasciando per presidio a Macallè il maggiore Galliano col 3o battaglione indigeni, una compagnia dell'8o, quattro pezzi da montagna, due sezioni del genio, una stazione di carabinieri, in complesso 31 ufficiali, 176 uomini di truppa bianca, 1150 di truppa indigena.

Il 16 decembre questa nostra posizione avanzata era investita da 30,000 combattenti, gli assalti si susseguirono agli assalti, sempre valorosamente e brillantemente respinti.

Il giorno 8 di gennaio il nemico si avanzava arditamente fino all'angolo morto di due burroni, occupando l'acqua della quale si alimentava il presidio di Macallè; nella notte furono dai nostri respinti due furiosi attacchi.

Le truppe nemiche che muovevano contro per annientarci e ricacciarci al mare eransi andate sempre più ingrossando fino ad arrivare alla cifra di 70,000 fucili, 10 mila lancie, più la cavalleria Galla ed altri piccoli riparti disseminati nelle vicinanze; in tutto oltre centomila combattenti. I nostri non avevano da apporre che circa 8000 soldati bianchi e 11,000 indigeni.

E si noti – che il generale Barattieri aveva previsto che nel novembre e dicembre la colonia sarebbe stata investita da tutta l'oste Tigrina e Scioana; per cui era da prevedersi che i nostri si sarebbero trovati di fronte ad un esercito di circa centomila uomini ben armati, della cui resistenza e valore avevano dato prove.

E allora perchè non si è provveduto a tempo in conformità dei bisogni e delle previsioni pur troppo esattamente avveratesi? Perchè il generale Barattieri che aveva preveduto il formidabile attacco non si preparò per tempo a bravamente respingerlo? Se non si voleva fare un agglomeramento di truppe nella colonia prima del bisogno, perchè non si provvedeva in Italia quanto occorreva per la preparazione di una grossa guerra, onde alla chiamata dei rinforzi a momento opportuno, e che il governo non avrebbe dovuto lesinare, tutto fosse pronto? E preparata bene ed a tempo, non sarebbe stata una utilissima diversione quella di uno sbarco di nostre truppe ad Assab ed una spedizione all'Aussa che avrebbe trovato favore presso i Dancali – come così bene era stata progettata dal generale Pittaluga? Era cosa alla quale bisognava pensarci per tempo, e, presa una decisione, attuarla prima che le nostre poche truppe della colonia fossero impegnate a fondo. Non si può negare; fu grande la imprevidenza e ne fu scontato il fio!

Mentre i nostri a Macallè sostenevano con eroismo giorno e notte furiosi assalti, il Makonnen continuava per incarico del Negus di chiedere la pace; proposte che il Barattieri comunicava al governo. Messaggiero di tali proposte era certo signor Felter persona di fiducia del Barattieri, il quale aveva trasferito il suo quartiere generale ad Adagamus.

Il 17 gennaio il Felter si presentava al Barattieri portatore di un'offerta da parte di Menelik, garante Makonnen —di lasciare uscita libera con armi, munizioni di guerra, bagagli e senza condizioni di sorta le nostre truppe da Macallè per raggiungere Adigrat.

Al Galliano fu dato l'ordine di lasciare il forte —dopo di essersi pienamente assicurato che tutte le garanzie sarebbero state completamente osservate.

Sembrò da prima che questo fosse un fatto da tenersi in conto ed atto a predisporre il governo italiano ad un trattato di pace onorevole per ambo le parti; invece si verificò che la concessione del Negus non era che un'astuzia di guerra; le forze comandate dal Galliano non dovevano essere che un ventaglio aperto per coprire la marcia delle orde Scioane verso Adua e per impedire alle truppe della colonia un attacco di fianco durante la marcia.

Rese libere le truppe del presidio di Macallè il giorno stesso nel quale venne segnalato al comando generale lo spostamento della gran massa dell'esercito nemico, Barattieri ordinava di levare il campo da Adagamus per occupare una posizione atta a mantenere il contatto delle forze della colonia con quelle del nemico; per cui dopo una marcia di 12 giorni, il 13 di febbraio il generale diede ordine di schierare i suoi battaglioni sulle alture di Sauria, dominante la posizione di Mai Gabetà ed Adua occupate dal nemico.

Nella notte del 13 disertavano dal nostro campo le bande di Ras Sebath e di Degiac Agos Tafari di circa 600 fucili – questa diserzione fu il segnale dell'insurrezione nell'Agamè, per cui il Barattieri fu obbligato a pensare di garantire alle nostre truppe la linea di rifornimento; al quale effetto dovette distaccare dalla brigata Arimondi il colonnello Stevani con tre battaglioni, una batteria e due compagnie di indigeni, e nel tempo stesso chiamare da Adi-Ugri a Mai Maret il colonnello Di Boccard con tre battaglioni; per queste disposizioni le forze combattenti rimanevano ridotte a circa 14,000 fucili con 50 cannoni. Si aveva però il vantaggio che la posizione di Sauria era ottima per la difesa, convenientemente fortificata, coi fianchi ben appoggiati e difficilmente aggirabili; infine le nostre truppe, sebbene sensibilmente diminuite di numero, si trovavano in condizione da potere respingere qualsivoglia attacco. Nel frattempo il nemico vista la forte posizione dei nostri dopo di avere per un momento pensato ad attaccarli si dileguava dietro i monti di Genedapla e finiva per ritirarsi nella conca di Adua.

Vi era quindi tutto da guadagnare nel rimanere nella forte posizione che l'immensa oste Scioana aveva permesso ai nostri di occupare senza molestie; si doveva renderla quanto più possibile inespugnabile ed attendere di essere assaliti, provocando anche il nemico con delle avvisaglie e con avvedute ricognizioni. Coll'attendere si suscitava il malcontento e la discordia nel campo nemico; gli Scioani avrebbero consumato le provvigioni che avevano tratte seco e sarebbero stati costretti di levare il campo e ritornarsene da dove erano venuti. È notorio che perfino un ufficiale russo, il capitano d'artiglieria Zviaghin, membro di una Commissione del suo governo presso Menelik e che aveva studiato con molta diligenza e con la maggior benevolenza lo stato di guerra dell'esercito etiopico, aveva dovuto sentenziare, che questo esercito doveva forzatamente ritirarsi, prima che le riserve delle vettovaglie che gli uomini portavano con se fossero esaurite.

Si è voluto invece precipitare – con 14,000 uomini si è preteso di portare vittoria su 80 a 100,000 valorosi; tutta gente che aveva mostrato di sapersi battere; svelta nei movimenti, pratica di ogni palmo di terreno, avvezza per istinto agli accerchiamenti; e come doveva essere – si è andato incontro ad un immane disastro.

Colpa imperdonabile l'ebbe anche il governo. Presa la decisione di mandare al Comando generale il Baldissera, il governo aveva il dovere assoluto, imprescindibile, di subito informarne il Barattieri, ordinandogli contemporaneamente di mantenersi nella difensiva.

Il Barattieri invece d'accordo cogli altri generali Dabormida, Arimondi, Albertone, Ellena, decise di muoversi la notte del 29 febbraio da Sauria per marciare verso Adua – obiettivo l'occupazione della forte posizione costituita dal monte Semaiata e da monte Esciasciò.

L'ordine di marcia era il seguente:

Colonna destra, generale Dabormida – 2a brigata fanteria – battaglione di milizia mobile – Comando 2a brigata di batteria, colle batterie 5a 6a e 7a.

Colonna del centro, Arimondi – 1a brigata fanteria – 1a compagnia del 5o battaglione indigeni – batterie 8a e 11a.

Colonna di sinistra, Albertone – Quattro battaglioni indigeni – Comando della 1a brigata di batteria e batterie 1a 2a 3a e 4a.

Riserva, Ellena – 3a brigata fanteria – 3o battaglione indigeni – Due batterie a tiro rapido e compagnia genio.

La colonna di destra doveva seguire la strada colle Zalà, colle Guldam, colle Rebbi Arienni; la centrale e la riserva la strada da Adi-Dichi, Gundapta, colle Rebbi Arienni; la colonna di sinistra la strada Sauria, Adi-Cheiras, colle Chidane Maret; il quartier generale doveva marciare in testa alla riserva.

Ordine a tutti di mantenere il collegamento – e il corpo di operazione si mise in moto. Si marciava di notte in terreni sconosciuti ai nostri – era possibile non avvenisse qualche disguido?

La colonna Albertone arrivava al colle Chidane Maret alle 5 1/4; secondo le istruzioni avute vi si doveva stabilire, cercare il contatto colla destra ed aspettare ordini; invece il comandante desideroso della gloria di venire primo alle mani col nemico, commise il grande errore di rimettersi in marcia; cosicchè all'albeggiare giungeva alle falde di Abba-Carima, mentre il 1o battaglione indigeni (maggiore Torrito) in avanguardia si trovava a circa 3 chilometri spinto più avanti; per cui avanguardia e colonna Albertone della sinistra, si erano allontanate di gran lunga dalle altre brigate e prive di ogni contatto.

Difatti alle 8 1/4 il battaglione indigeni (Torrito) avanguardia Albertone, fu il primo ad essere attaccato da forze preponderanti e nonostante la più disperata difesa fu rotto e posto in fuga; nel medesimo tempo le alture di Abba-Carima e l'Amba Scellodà si videro coronate da numerosissimi stormi di nemici, che investirono la brigata Albertone, isolata ad una distanza di sei chilometri e nell'impossibilità di essere soccorsa.

Il generale Albertone non si smarrì; lottava con la sua brigata contro forze dieci volte superiori e ne faceva strage, ma minacciata di aggiramento alla sua sinistra gli ascari non tennero più, e volsero il tergo al combattimento e si diedero alla fuga; invano gli ufficiali tentarono di fare argine, di arrestarli per ricondurli al combattimento, essi stessi venivano travolti da quella valanga.

 

Frattanto al colonnello Brusati era riuscito di stendere sulla sinistra di monte Belah due battaglioni del suo reggimento, e sebbene la brigata indigena continuasse a combattere efficacemente non impressionata dalla fuga degli ascari, pure il generale Barattieri alle 7 1/4 credette opportuno di mandare all'Albertone l'ordine di ritirarsi sotto la posizione della brigata Arimondi. Alla brigata di riserva era dato ordine di rinforzare la sinistra di Arimondi.

Ma la brigata Albertone era sempre più furiosamente attaccata da forze, contro le quali era impossibile lottare, in guisa che alle 11 era completamente avvolta e i reparti venivano colpiti dal fuoco nemico sul fronte, sui fianchi e di rovescio. Dopo avere subito perdite enormi, dopo avere perduto la maggior parte degli ufficiali, le truppe indigene cominciarono a ritirarsi prima alla spicciolata poi a grossi reparti; queste prive dei loro ufficiali, perfino dello stesso generale Albertone di cui non si aveva più notizie, non si poterono più riordinare e la rotta fu completa e convertita in fuga spaventosa.

Ne avveniva quindi che fuggiaschi e sterminate colonne nemiche che inseguivanli alle reni erano sopra alla brigata Arimondi, che si ordinava in posizione di resistenza e di contrattacco.

Invano il bravo colonnello Brusati tentava coi suoi di fare argine; invano il valoroso colonnello Galliano aveva schierato il 3o battaglione indigeni all'estrema sinistra per arrestare i fuggenti e tener testa all'irrompente nemico, tutti gli sforzi di questi eroi e dei loro ufficiali furono inutili; i battaglioni scossi dallo spettacolo che si manifestava ai loro occhi, malgrado gli sforzi dei loro comandanti, dei loro bravi ufficiali, malgrado l'esempio di serena bravura che dava il battaglione 9o (bianco), malgrado le batterie che facevano fuoco vivissimo, si davano alla fuga.

Frattanto gli ascari in fuga, tirandosi dietro forti masse di scioani, scuotevano le truppe delle brigate Arimondi ed Ellena che non avevano modo di spiegarsi e di prendere posizione. Mentre il generale Arimondi impartiva ordini alle batterie, le orde scioane, girando sul fianco sinistro, irrupero in massa addosso alla colonna e coronate le cime di monte Belach, facendo fuoco d'inferno sui nostri soldati bianchi e neri che si affollavano nell'insenatura, ne facevano strage.

Il prode Arimondi e il di lui aiutante di brigata ai quali erano stati portati via i muletti non poterono togliersi dalla disastrosa posizione e rimasero accerchiati.

Il generale Barattieri, visto che nè i bersaglieri, nè gli alpini avevano potuto tener testa e che tutte le alture si coprivano di nemici, chiamato a sè il colonnello Stevani si dirigeva verso il colle Rebbi Arienni, incontrava per la via il colonnello Nava e Vandiol del 16o battaglione, e disponeva per la ritirata verso il vallone.

Ma il tumulto cresceva colle ondate dei sopravenienti inseguiti e col grandinare delle palle. Era uno spettacolo da squarciare il cuore! Quanti valorosi ufficiali caddero non è possibile dire. A fianco di Barattieri cadevano il colonnello Nava e il tenente Chigi. Quando Barattieri giunse nella convalle presso Rebbi Arienni vi trovò il generale Ellena. Ivi chiamò a raccolta; fu raggiunto dal tenente colonnello Musini, dal tenente Marchiori degli alpini, dal capitano Bedini, dal tenente Partini, dal tenente colonnello Violante, dal tenente Ribotti, dal capitano Grassi e da altri e riuniti qualche centinaio di truppe fra alpini, bersaglieri ed altre armi si organizzò la resistenza per far possibilmente arrestare la foga del nemico.

Mentre questo succedeva alle brigate Albertone, Arimondi ed Ellena ecco quel che avveniva alla brigata Dabormida.

Verso le 6 la testa della brigata si fermava sul ciglio del colle Rebbi Arienni. Il generale Dabormida dopo di avere mandato avviso al comando che occupava il colle senza avere potuto mettersi a contatto coll'Albertone, proseguiva oltre solo accompagnato dal capitano Bellavita suo aiutante di campo e dal tenente Piva suo ufficiale d'ordinanza, allo scopo di formarsi una idea del terreno sul quale avrebbe dovuto operare, mentre la brigata prendeva formazione di ammassamento sul colle; intanto che il battaglione De Vito di avanguardia marciava più innanzi per vedere di trovare il contatto colla brigata Albertone.

Il generale Dabormida ritornato dalla sua esplorazione, visto il generale Barattieri che stava alquanto più indietro gli andò incontro e s'intrattenne a parlare con lui impensierito di non avere nuove dell'Albertone; a poca distanza l'Arimondi s'intratteneva coi colonnelli Airaghi e Ragni sullo stesso argomento giacchè tutti ne erano grandemente preoccupati.

Verso le 7 la brigata Dabormida riprese, pian piano, nell'ordine di prima, la marcia in avanti, mentre il comando supremo rimaneva sul colle, dirigendosi per la valle che va a Mariam Sciavitu e ad Adua.

Il campo di battaglia della brigata Dabormida si divideva in tre parti; alture di sinistra, fondo della vallata, alture di destra, e il generale dava ordini alle truppe di prendere posizione sulle alture.

Non appena i nostri ebbero raggiunto la sommità delle alture scorsero dense truppe nemiche dirette ad occupare una specie di sprone che da Monte Derar va verso Adua; un altro forte nucleo nemico con reparto di cavalleria Galla si dirigeva verso il Vallone. La compagnia Sermani all'appressarsi del nemico si era spiegata ed aveva aperto il fuoco; il maggior De Vito ordinava alle sue truppe di occupare celeremente il controforte prima che vi arrivasse il nemico; come un onda nera, i bravi indigeni si precipitano giù pel burrone, l'attraversano e ansanti risalgono l'altura agognata; Tola e Ferrero hanno raggiunto la posizione appena in tempo per aprire il fuoco sul nemico che sale dall'opposto versante; erano le 9, il combattimento era impegnato su tutta la fronte, dalla cresta principale, lungo tutto il controforte, fino al fondo della vallata; la compagnia del Chitet è obbligata a ripiegare, per cui il battaglione del De Vito già colpito a morte, e minacciato sull'ala destra. Frattanto il nemico ingrossa, il fuoco raddoppia e semina morte: molti ufficiali sono caduti, i reparti tentennano e all'estrema sinistra hanno incominciato a ritirarsi; il tenente Gaslini si getta con un pugno di bravi fra i nemici, cade, ma la compagnia Longo riprende il suo posto; il nemico ingrossa, investe con una pioggia di piombo e gl'indigeni si ritirano e si sbandano; la precipitosa ritirata poco mancò non travolgesse i reparti del 3o reggimento; ma appena fu sgombrata la fronte le truppe comandate dal colonnello Ragni, prima col fuoco e poi colla bajonetta arrestava la foga del nemico, respingendolo sul dorsale dello sprone.

Nel frattempo il colonnello Airaghi avanzava colle sue truppe calme ed ordinate, con le batterie in battaglia scortate dal 14o battaglione; si erano appena messi in batteria i pezzi, che il nemico si lanciava con urli feroci all'assalto; le nostre truppe non si mossero, aprirono il fuoco a ripetizione e l'artiglieria alla mitraglia; un fuoco micidiale: la carica è rovesciata, il nemico si ritira in disordine decimato, e il fuoco andò rallentandosi e parve languire; erano verso le 12 e il generale ed il colonnello Airaghi credettero buono il momento per un attacco offensivo onde scacciare il nemico dalle posizioni e diedero gli ordini necessari. La brigata fu disposta con una calma con una regolarità di un'esercitazione in tempo di pace; le truppe sulle alture di sinistra agli ordini del colonnello Ragni; quelle nel piano al comando del colonnello Airaghi; tutte con le catene e sostegni; più indietro la riserva; l'artiglieria al centro comandata dal Zola; tutti con ordine ammirabile pronti all'attacco con un morale elevatissimo.