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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

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Bella la vittoria di S. Martino – tale da rendere immortali quanti vi presero parte. – Molti furono gli atti di supremo valore che meriterebbero di essere qui ricordati. Ma per farlo non basterebbe un intero volume. Merita di essere segnalato quello di un valoroso giovane tenente Besozzi Giuseppe, ufficiale d'ordinanza del colonnello comandante il 17o reggimento: questo bravo, quantunque ferito due volte gravemente, con ferrea volontà, con sforzo sovrumano volle continuare il suo servizio – e resistette per tutto il tempo che durò il combattimento; solo acconsentì a farsi medicare quando cambiata la linea del suo reggimento non trovossi più esposto al fuoco nemico.

Questo valoroso veniva decorato colla croce dell'ordine militare di Savoia e portato all'ordine del giorno dell'esercito.

Dopo le vittorie di Solferino e di S. Martino, Napoleone III emetteva il seguente ordine del giorno:

Soldati!

"Noi abbiamo preso tre bandiere, trenta cannoni e seimila prigionieri. L'esercito Sardo ha lottato con grande valore contro forze superiori. Esso è degno di marciare al vostro fianco. Soldati! tanto sangue versato non sarà inutile per la gloria della Francia e dell'Italia e per la felicità dei popoli".

Napoleone.

Mentre l'Urban, lasciata una forte retroguardia a Varese, contromarciava col grosso della sua divisione su Gallarate diretto al Ticino, Garibaldi ignaro di questa improvvisa ritirata, levato nel tempo stesso il suo campo da Induno, per Arcisate, Rodero, Casanova arrivava a Como fra il tripudio di quella cittadinanza che da quattro giorni paventava di rivedere ad ogni istante gli austriaci.

La vittoria delle armi alleate spalancava loro le porte di Milano, mentre gli austriaci erano obbligati a ritirarsi precipitosamente.

Quest'avvenimento fortunato ebbe per immediata conseguenza non solo la liberazione della Lombardia ma la sollevazione dei ducati, delle Legazioni e dell'Umbria.

Nel giorno 20 di giugno una forte colonna di soldati svizzeri al soldo del Papa, partiti da Roma assaliva Perugia che si era ribellata al governo papale. La patriottica città, quantunque la gran parte della gioventù fosse in Lombardia a combattere con Vittorio Emanuele e con Garibaldi, oppose una valorosissima resistenza, dapprima dall'alto delle mura, poi nelle contrade, combattendo corpo a corpo, cedendo il terreno alle forze soverchianti palmo a palmo, finchè, i bravi Perugini sopraffatti dovettero cedere. I vincitori, satelliti della tirannide vaticana, inferociti per la resistenza incontrata, si vendicarono mettendo a saccheggio la città, seminando strage, non rispettando neppure gli inermi e le donne; la strage di Perugia perpetrata da armati al soldo del Papa andrà alla storia come fatto esecrando.

Ventiquattro ore dopo la battaglia di Magenta l'intero esercito austriaco era in ritirata sull'Adda; le avanguardie degli alleati entravano in Milano, ed anche il piccolo corpo dei cacciatori delle Alpi poteva proseguire la sua marcia fortunosa.

Il 4 e 5 giugno Garibaldi li impiegò a riordinare le sue forze, a chiamare nuovi volontari, perlustrare in tutti i sensi le strade circostanti, e lanciare scorridori che si spinsero fin presso le porte di Milano.

Dal 5 al 6 s'imbarcava con tutta la sua brigata, meno alcune compagnie lasciate a Como, alla volta di Lecco e nel giorno in cui l'esercito alleato varcava il Ticino, egli toccava la destra sponda dell'Adda. Non vi si fermò a lungo; chè il dì appresso tenendo sempre ai monti ripigliò la marcia per Caprino e Almeno.

Mentre Garibaldi era in via per Caprino e Almeno, accompagnati da una lettera di Cavour si presentarono al generale Garibaldi, Turr e Teleki, ambedue colonnelli nell'esercito della libera Ungheria, che nel 1849 combattè strenuamente contro l'Austria.

Il generale accolse i due valorosi magiari come fratelli e da quel giorno quei bravi seguirono Garibaldi con vera devozione.

Alle ore tre di mattino del 7 la brigata dei cacciatori delle Alpi con alla testa il suo generale passava il Brembo sul ponte S. Salvatore e per la strada occidentale del monte Luvrida riusciva a Voltezza, ed a passo di carica scendeva in Bergamo.

Vi arrivava però troppo tardi, chè il nemico, erasi precipitosamente ritirato. Garibaldi pensò immediatamente d'inseguire i fuggenti sulla strada di Crema, ma appena incominciata la marcia venne informato che un corpo d'austriaci stava per arrivare in ferrovia per portare rinforzo al presidio. Richiamò in fretta la brigata dalla strada di Crema, distribuì e rimpiattò i suoi cacciatori alla stazione e nei dintorni, in modo che il nemico non potesse scappargli; senonchè a pochi passi da Seriate uno spione avvisò la colonna viaggiante che i Garibaldini erano a Bergamo; il comandante austriaco fatto fermare il treno, fece smontare le truppe, e protetto da fiancheggiatori e da esploratori s'inoltrò con tutta cautela verso la città, ove sarebbe stato ben accolto; ma il Bronzetti inviato con due compagnie per la strada di Seriate lo incontrò, e, senza contare i nemici, li assalì con impetuoso ardimento, lo arrestò, lo sbaragliò costringendolo a riprendere in fretta la vaporiera.

In quel giorno i sovrani entravano nella capitale Lombarda; e Garibaldi era chiamato in Milano da Vittorio Emanuele. Le accoglienze fatte al comandante dei cacciatori delle Alpi furono degne del grande animo del Re, e caldi gli elogi a lui ed ai suoi compagni.

Intanto il generale Urban fin dal giorno 7 si era accampato sull'Adda, nei dintorni di Vaprio e vi si era trincerato. Era questa una posizione forte; ma, dopo l'entrata di Garibaldi a Bergamo, la sua importanza era di molto diminuita perchè poteva essere minacciata di fronte e di fianco. Sarebbe bastato che il generale Cialdini, il quale formava l'avanguardia del nostro esercito, si fosse affrettato verso l'Adda, e il generale Garibaldi fosse calato, con mossa combinata, da Bergamo, perchè quella divisione nemica fosse inevitabilmente disfatta. Quali frutti non si sarebbero colti da questa semplicissima manovra!

La rotta di Vaprio avrebbe precipitato la ritirata dell'esercito austriaco più della rotta di Magenta; gli alleati avrebbero potuto marciare senza intoppi e con celerità, e, arrivando molto prima nella destra del Mincio, avrebbero troncato a mezzo il concentramento nemico.

Per questo mancato accordo del generale Cialdini con Garibaldi, l'Urban potè restare impunemente tre giorni sull'Adda, e per altrettanti Garibaldi indugiarsi a Bergamo.

La mattina dell'11 giugno l'Urban lasciava Vaprio ritirandosi per la via di Crema, e la sera del giorno stesso Garibaldi, abbandonato Bergamo, si mise in marcia per Martinengo alla volta di Brescia; il 12 riprendeva il cammino per Palazzolo, da dove passava a Polasco, mentre l'Urban con la sua divisione si trovava a Pontoglio.

Chi nel giorno 13 giugno avesse potuto guardare a volo d'uccello sulla terra Lombarda vi avrebbe scorto: l'imperatore Napoleone colla sua guardia imperiale a Gorgonzola, il re Vittorio Emanuele a Vimercate in mossa per Palazzolo, la più avanzata sinistra degli scaglioni francesi a Treviglio sulla sinistra dell'Adda, il più avanzato scaglione piemontese a Romano sulla sinistra del Serio, lo scaglione austriaco più vicino, divisione Urban, a Pontoglio e Garibaldi marciare coi suoi cacciatori da Palazzolo a Brescia; marcia pericolosa perchè fatta su strada parallela a quella del nemico, quattro volte più forte, e minacciante sul fianco. Ma il generale destreggiandosi con grande avvedutezza, facendo uso delle poche guide, comparendo or quà or là su tutti i punti della linea nemica, spingendo a marcia forzata i cacciatori delle Alpi, affranti ma non domi, all'alba del 14 si trovava già alle porte di Brescia, la quale, incitata da infuocate parole dell'illustre patriota Giuseppe Zanardelli, non aveva atteso neghittosa l'arrivo del corpo liberatore, ma era già tutto pronto per dare a colui che li emancipava potente aiuto. Dopo l'entrata in Brescia accolto dalla popolazione delirante, Garibaldi cessava di godere di quella indipendenza che era il principale fattore dei suoi successi.

Mentre i cacciatori dello Alpi eransi fermati nella sera del 14 di giugno per pernottare a S. Eufemia a due chilometri circa da Brescia, il generale Garibaldi riceveva nella notte stessa un ordine dal quartier generale espresso in questi termini: "S. M. il Re desidera, che domattina ella porti la sua divisione su Lonato, dove sarà raggiunto dalla divisione di cavalleria comandata dal generale Sambuy composta di quattro reggimenti di cavalleria di linea, con due batterie a cavallo".

Generale Della Rocca.

Ebbe anche l'ordine il generale di ristabilire il ponte del Bettoletto sul Chiese a monte del ponte di S. Marco.

Sul fare dell'alba del 15 Garibaldi lasciata una compagnia a S. Eufemia, e fatto perlustrare tutto intorno il paese si pose in marcia. Giunto a Rezzatto e non avendo notizia della divisione di cavalleria che doveva seguire, fermò la colonna e mandò al Re, a mezzo del tenente Trecchi, un rapporto scritto col quale informava che, quantunque avesse sul fianco destro la divisione Urban pure egli procedeva avanti per eseguire gli ordini ricevuti. Infatti pattuglie delle guide a cavallo avevano rapportato che avamposti nemici stavano sulla strada tra Rezzato-Castenedolo e Villa-Boffalora. Per non lasciarsi dietro al suo fianco destro truppe nemiche sì prossime, scaglionò i suoi sei battaglioni nel modo seguente. Due del 1o reggimento agli ordini di Cosenz, dietro le case Carbone in Tre Ponti; un battaglione del 2o con una squadra di carabinieri genovesi sotto il comando di Medici, in Bettola di Ciliverghe, dove la strada da Brescia a Lonato si biforca, l'una sul ponte di S. Marco, l'altra a sinistra sul ponte del Bettoletto; l'altro battaglione del 2o reggimento, e i due del 3o coll'artiglieria e con i rimanenti carabinieri genovesi Garibaldi stesso li condusse in persona al ponte del Bettoletto; al colonnello Turr addetto al suo Stato Maggiore il generale ordinava di occupare con due compagnie del 1o reggimento lo sbocco di Tre Ponti verso Castenedolo e nel tempo stesso riconoscere bene il nemico; a tutti Garibaldi raccomandava di difendere ad ogni costo la strada da Rezzato a Tre Ponti e Bettola di Ciliverghe aspettando l'arrivo della divisione di cavalleria piemontese; mandò il capitano Corte del suo Stato Maggiore ad avvisare Cialdini che era sul Mella, della sua mossa e si mise senz'altro per la via di Molinetto. Intanto il generale Rupprecht, che colla sua brigata formava l'avanguardia della divisione Urban dal Mella al Chiese, mandava ricognizioni sulla strada tra Rezzato, Tre Ponti e Bettola-Ciliverghe, mentre si portava col grosso a Castenedolo.

 

Per far fronte al nemico e rigettarlo come aveva ordinato il generale Garibaldi, Medici fece costrurre una barricata al biforcamento della strada Brescia-Bettola-Ciliverghe appoggiata alla Cascina Lana che occupò militarmente; pose tre compagnie nel Cimitero di Ciliverghe munendo i muri di feritoie. Cosenz dal suo canto fece occupare Osteria di Rezzato, casa Bassalini che sta a destra della strada bresciana a capo del sentiero di Tre Ponti, munendo i muri di feritoie, lasciando in riserva il primo battaglione. Così la difesa era ordinata col fronte a Castenedolo, la destra a Osteria di Rezzato, il Centro a Tre Ponti, la sinistra a Bettola-Ciliverghe.

Una ricognizione nemica si spinse stendendo la sua catena di cacciatori fin sotto il giardino di casa Bassalini; e fu presto respinta. Alle otto di mattina il nemico molto rinforzato si avanzò a destra e a sinistra del canale Lupo, con forti riserve nelle cascine Chizzola e Chidone fra Tre Ponti e la strada ferrata. Il colonnello Cosenz deliberò di opporre attacco ad attacco; il colonnello Turr si recava di persona a Rezzato e dava ordine al comandante della compagnia posta all'Osteria di mandare una parte dei suoi uomini per un sentiero traversale in forma di testa di colonna che accennasse a girare la sinistra della catena nemica.

Ciò fatto Turr raggiunse Cosenz il quale, spinte due compagnie da casa Bassalini a risoluto attacco di fronte, costringeva il nemico a ripiegare; e tanto fu l'ardore dei nostri da riuscire a sloggiare il nemico anche dalle due cascine Chizzola e Chidone, ed occupare l'argine della strada ferrata e il ponticello sul Lupo.

I nostri, rinforzati da una compagnia del Bronzetti e da altra del Lipari, non si arrestarono, assalirono il cascinone chiamato Fenile-Ospitale e, sebbene fortemente difeso, riuscirono a cacciarne il nemico e l'occuparono.

In questo frattempo il capitano Croce, che calla sua compagnia formava l'ala spinta più avanti della estrema nostra sinistra scoprì molte forze nemiche ammassarsi sulle alture di Castenedolo; avvisatone Cosenz, questi riconoscendo di non essere in numero da potere assalire la intera brigata Rupprecht, fece suonare l'alto e l'assemblea a sinistra per prepararsi a ricevere l'urto nemico. Ma il colonnello Turr riunite quel che potè di forze, e chiamando a sè la restante debole riserva, deliberò di assalire il nemico sul roccolo che prende nome da S. Giacomo e fece suonare la carica; udito questo segnale il Cosenz, per non produrre un movimento slegato nella sua linea fece esso pure suonare la carica. I nostri si avanzarono arditamente fin presso alla falda del poggio di Castenedolo; ma il nemico suonata a sua volta la carica su tutta la linea si rovesciò imponente di forze su quelle scarse dei cacciatori delle Alpi che, minacciati di aggiramento, dovettero ripiegare. Nel tempo stesso il colonnello Turr spinse arditamente alla carica i suoi, ma il fuoco micidiale dei nemici che coronavano il roccolo boscoso li arrestò sul ponte S. Giacomo; qui il Turr avanti a tutti comandava a voce sonora… "Passo di carica, avanti…" allorchè una palla gli trapassava il braccio sinistro poco sotto la scapola; non si arrestò per questo il bravo soldato ma seguitò a comandare e incoraggiare i militi allo assalto. Ma il nemico, numeroso assai, dalla forte posizione seminava la morte; a fianco di Turr, colpito da una palla alla gola cadeva il tenente Gradenigo; nel medesimo istante era colpito mortalmente il Bronzetti e, al sergente Gnocchi che lo sorreggeva, una palla gli traversava l'omero. Non era possibile più sostenersi e i nostri dovettero ripiegare.

Ma il Cosenz non si sconfortava; formata dalla prima compagnia e dai resti di altre che potè raccogliere una piccola colonna comandata dal tenente Martini, la spinse avanti per la via di mezzo, e sostenuta da un distaccamento guidato dal tenente Mancini per un sentiero di destra, e da altro simile affidato al tenente Logarbo che lo condusse a sinistra celato fra le boscaglie, riprendeva l'offensiva.

Giungeva in quel punto il generale Garibaldi coi bravi carabinieri genovesi e con altri valorosi; arrivavano pure in quel mentre tre compagnie del Medici, e dirette da Garibaldi stesso si spinsero ad un furioso attacco in aiuto del Cosenz; la lotta per alcun tempo fu accanita e micidiale, già il nemico balenava e cedeva terreno quando comparvero le prime avanguardie del Cialdini mandato in soccorso del Re; si poteva ben sperare di prendere fra due fuochi il nemico e distruggerlo, ma questo si affrettò a battere in ritirata lasciando i nostri padroni del campo di battaglia seminato di morti. Fu quella dei Tre Ponti una giornata ben calda; anche i garibaldini ebbero perdite gravi: centoventi feriti, fra i quali molti ufficiali e sott'ufficiali alla testa delle loro squadre; fra questi l'Elia del seguito del generale Garibaldi ed il Carbone dei carabinieri genovesi; più del quinto degli ufficiali che presero parte all'azione vi rimasero feriti. Grandi lodi meritarono prima d'altri il Cosenz, e il Turr, il capitano Bronzetti e il tenente Gradenigo, il maggiore Lipari i capitani Pesce e Rosaguti, i tenenti Mancini, Logarbo, Martini, Specchi, Pea, Ribolla, Spettini, ed i furieri Pedotti, Torre e Torchi, portati all'ordine del giorno e proposti per la medaglia al valore militare.

Il giorno 16 il generale Lamarmora si recava a trovar Garibaldi a Nuvolento – i due generali si stimavano a vicenda, e certo devono avere parlato sulle mosse ulteriori della guerra.

Il 17 Garibaldi mandava a Turr che era a Brescia a curarsi la ferita la seguente lettera:

Carissimo amico,

"Il sangue Magiaro si è versato per l'Italia, e la fratellanza che deve rannodare i due popoli nell'avvenire, è aumentata: quel sangue doveva essere il vostro, quello di un prode! Io sarò privo di un valoroso compagno d'armi per qualche tempo e d'un amico, ma spero rivedervi presto sano al mio lato, per ricondurre i nostri giovani soldati alla vittoria. Sarei fortunato in qualunque circostanza di potervi valere, e non avete che a comandarmi".

Vostro G. Garibaldi

Alla sera di quel giorno la brigata con Garibaldi entrava in Gavardo fra le acclamazioni della popolazione. La mattina del 18 all'alba Bixio, come all'ordine avuto, occupava Salò.

La mattina del 20 la brigata col generale a capo si metteva in marcia. Un ordine del Comando generale portava che i cacciatori delle Alpi senza indugio si recassero ad occupare la Valtellina.

Il 26 la brigata bivaccava a Pontida e a sera arrivava a Lecco; così il generale si approssimava alla meta designatagli, la Valtellina, preceduto buon tratto avanti dal colonnello Medici. Lecco, costeggiando il lago, mena a Colico e, continuando nella Valtellina, va per lo Stelvio al Tirolo austriaco.

La Valtellina incomincia dalla foce dell'Adda nel lago di Como e si prolunga, incassata fra altissimi monti, le cui inaccessibili punte piramidali vanno a congiungersi colle altre pure altissime dello Stelvio.

Il basso fondo della valle è così stretto da non lasciare altro spazio che al corso rapidissimo dell'Adda e ad un'unica strada carreggiabile che la costeggia fino a piccola distanza da Bormio, ove volge a sinistra per salire allo Stelvio.

Bormio, ora poco popolato, fu un punto importante cinto di fortificazioni, avanzo delle quali sono le sue antichissime torri.

Da Bormio incomincia una strada tortuosa tagliata lungo il fianco del monte Cristallo; verso la sommità si trova la fortissima posizione della Cima di Sponda Lunga che gli austriaci tenevano chiusa con doppie palizzate e con parapetti, oltre a due fortini all'estremità, armati di più pezzi per battere di fianco e di fronte il sottoposto stradale, nei cui ponti e gallerie vi avevano praticato delle mine. Trincerati in tale inespugnabile posizione gli austriaci vi possedevano la chiave dell'unica comunicazione della Valtellina all'Alto Tirolo.

Il generale Cialdini avendo assunto l'incarico della difesa delle Valli limitrofe al Tirolo aveva concentrato il nerbo delle sue forze in Valcamonica e come principale punto lo stretto di Breno che mise tosto in stato di difesa.

A Garibaldi era dato l'incarico d'impedire la discesa in Lombardia di masse nemiche dal Tirolo. Importava prima di tutto impadronirsi delle gallerie soprastanti alla strada dello Stelvio, per frapporre un ostacolo inespugnabile alla minacciata invasione. Necessitava quindi conquistare la sommità dello Stelvio onde far nostro lo sbocco alla valle dell'Adige.

Questo compito era affidato al colonnello Medici, che precedeva la brigata comandata da Garibaldi, il quale aveva formato una colonna di ottocento combattenti con volontari che il maggiore Fanti, il capitano Bassini ed il tenente Bottini avevano arruolati ed armati alla meglio.

Il giorno 25 giugno Medici diede ordine al tenente Zambelli, comandante una compagnia di volontari Valtellinesi, di occupare il ponte del Diavolo come estremo avamposto, e la seconda linea di Prese-Mondadizza e Balladore, mentre faceva avanzare le altre truppe su Mazzo, Grosetto e Grosio, e si assicurava i fianchi con un distaccamento in Val Grosina, ed un altro alla sommità del Monte Mortirolo che comunica colla Val Camonica.

Il giorno 26 mentre Medici erasi recato ad ispezionare l'estremo avamposto, questo venne di sorpresa attaccato. I pochi ma valorosi Valtellinesi si ritiravano calmi e combattendo, ma arrestati dal Medici in una forte posizione a cavallo della strada, quel pugno d'uomini per oltre un'ora oppose valida resistenza, finchè raggiunto da altra compagnia di Valtellinesi comandati dal capitano Strambio gli austriaci furano costretti a ritirarsi.

Il colonnello Medici visto che la scelta del ponte del Diavolo per estrema linea di difesa era stata poco abile, si spinse ad occupare l'indomani S. Antonio di Morigone e fattevi erigere alcune opere di fortificazione si mise in grado di potersi vantaggiosamente sostenere fino allo arrivo di Garibaldi col grosso delle forze.

Frattanto il generale Garibaldi colla brigata sbarcava a Colico il 27 giugno e proseguiva fino a Tirano, dove seppe che il generale Cialdini dovendo ripiegare su Brescia, incaricava lui della difesa degli sbocchi dello Stelvio, Tonale e Caffaro con Rocca d'Anfo, in conseguenza di che il generale affidava al Medici, col secondo reggimento, con un battaglione del terzo comandato da Bixio, colla compagnia carabinieri genovesi comandata dal tenente Chiassi, con una sezione d'artiglieria ed un distaccamento del Genio, la difesa dell'Alta Valtellina, mentre Garibaldi scaglionava in dietro il resto dei cacciatori delle Alpi.

Il 1o luglio una deputazione di Bormio avvertiva Medici che quel municipio aveva ricevuto l'intimazione di provvedere una forte somma di denaro, viveri e bestiame agli austriaci.

Il 3 luglio il Medici si spingeva avanti per lo stradale e per le alture laterali. Giunto a Ceppina fece occupare a sinistra il monte Oga, ed a destra le alture di Piazza e Ratta che si stendono verso Bormio. Dopo di che fece avanzare due compagnie ad occupare il ponte di S. Lucia.

Il distaccamento austriaco che si trovava in Bormio per l'intimata requisizione, strepitava contro il Municipio che ritardava la consegna; ma intanto due compagnie agli ordini del maggiore Fanti si avanzavano su Bormio il che fece decidere gli austriaci a darsi a precipitosa fuga. A mezzogiorno Bormio era salva.

La mattina seguente Medici disponeva un attacco simultaneo da Bormio e da Ceppina; tosto che vide le due colonne in marcia, il nemico si ritirava dai Bagni Nuovi sui Bagni Vecchi, dando fuoco alle mine, per cui in un istante si vide cadere il magnifico ponte della galleria.

Il Medici diè ordine di occupare i Bagni Nuovi; s'impegnò una viva fucilata fra i due stabilimenti. Garibaldi giunto in quel momento, 3 luglio, si portò sul luogo del combattimento; la resistenza degli austriaci durava ostinatissima; ma sul fare della sera, presi di fianco da un distaccamento, asceso a sinistra fino a metà del monte delle Scale, e minacciati alle spalle da altro distaccamento disceso dalle Torri di Fraele, il nemico battè in ritirata dando fuoco alle mine delle altre gallerie, ma senza molto successo.

 

Al Medici importava scacciare il nemico al di là dello Stelvio. Con questo intendimento dava le seguenti disposizioni. Il maggiore Bixio colle forze di cui disponeva, più la compagnia del genio, doveva dalle alture di Piatta-Martina avanzarsi fin oltre a Val Vitelli per minacciare l'estrema sinistra nemica fortificata a Cima di Sponda Lunga, e così con un finto attacco distrarre l'attenzione del nemico dalla sua destra.

Il capitano Bosisio, doveva la mattina dell'8 impadronirsi delle vette del monte Pedenello con trecento uomini scelti del secondo reggimento; il tenente Croft con circa cento carabinieri doveva mostrarsi a tempo opportuno sull'altura che domina la quarta Cantoniera bersagliando il nemico alle spalle; il Bosisio doveva assalire con vigore dalla nostra sinistra il nemico, minacciargli la ritirata e rendere possibile un assalto di fronte; sulla strada dello Stelvio nelle gallerie, tra la prima e la seconda Cantoniera, era disposto un battaglione in colonna d'attacco agli ordini del maggiore Sacchi rinforzato da pochi pezzi d'artiglieria che a gran stento eransi potuti trascinar fin lassù.

Come alle istruzioni avute la mattina dell'8 Bixio riusciva ad occupare la posizione che minacciava la sinistra nemica; gli austriaci aprivano un fuoco vivissimo colle eccellenti loro carabine, alle quali solo i carabinieri potevano rispondere. Nonostante Bixio si mantenne nella posizione finchè non ebbe ordine di ritirarsi.

Il nemico prevedendo un attacco aveva chiesto ed ottenuto rinforzi, tanto che in quelle formidabili posizioni vi aveva concentrato settemila uomini delle migliori truppe oltre un numero di volontari tirolesi con eccellenti carabine; per questo fatto la sorpresa di sinistra non potè riuscire perchè il Bosisio trovava già solidamente occupate le alture di Pedenollo. Del resto quello dell'8 fu un combattimento inutile, perchè in quel giorno era stato segnato l'armistizio.

Difatti dopo le vittorie di Solferino e di S. Martino l'imperatore Napoleone mandava all'imperatore d'Austria una proposta di armistizio. Il giorno 8 di luglio in seguito ad una conferenza dei commissari incaricati venivano regolate le condizioni dell'armistizio stesso.

Secondo questa convenzione la ripresa delle ostilità era fissata per il 16 di agosto.

Ma l'armistizio nel pensiero di Napoleone segnava il preludio della pace; e a tal fine mandava a chiedere un convegno all'imperatore d'Austria che lo accordava.

Il giorno 11 i due imperatori ebbero una conferenza a Villafranca, nella quale furono fissate le basi del trattato di pace, a concludere il quale fu incaricato il principe Girolamo Bonaparte.

Il 12 di luglio l'imperatore Napoleone mandava all'armata, dal suo quartier generale di Valeggio, il seguente proclama:

Soldats!

"Les bases de la paix sont arrétêes avec l'empereur d'Autriche, le but principal de la guerre est ateint, l'Italie va devenir pour la primière fois una nation.

"Une confederation de tous les Etats de l'Italie, sous la presidence honoraire du Saint-Pere, reunira en un faisceau les membres d'une même famille; la Venétia reste, il est vrai, sour le sceptre de l'Autriche: elle sera neanmois une province italienne faisant partie da la confederation.

"La réunion de la Lombardie au Piémont nous crée de ce cotè des Alpes un allié puissant qui nous devra son indipendance; les gouvernements restés en dehors du mouvement, on rappelés dans leur possessions, comprendront la necessité de réforms salutaires.

"Un amnistie générale fera disparaître les traces des discords civiles. L'Italie, desormais maitresse de ses destinées, n'aura plus qu'à s'en prendre á elle-même, si elle ne progresse pas réguliërment dans l'ordre e la libertè.

"Vous allez bientôt retourner en France, la patrie reconnaissant accuillera avec transport ses soldats qui ont porté si haut la gloire de nos armes á Montebello, á Palestro, á Turbigo, á Magenta, á Marignano, et Solferino, qui en deux mois, ont affranchi le Piémont e le Lombardie, et ne se sont arretés, que parce que la lutte allait prendre des proportions qui n'etaient plus en rapport avec les intéréts que la France avait dans cette guerre formidable.

"Soyez donc fiers de vos succés, fiers des résultats obtenus, fiers sourtout d'etre les enfents bien-aimés de cette France qui sera toujours la grande nation, tant q'elle aura un coeur pour comprendre les nobles causes et des hommes comme vous pour les défendre.

Napoleon"

Così mentre le vittorie di Solferino e di S. Martino ci dovevano schiudere i varchi all'Adige ed all'agognata conquista del Veneto, inattesa e dolorosa come una catastrofe giungeva la notizia della pace di Villafranca, che tale ormai poteva chiamarsi.

L'Italia, prima i garibaldini, accolse con vivo dolore la fatale notizia che troncava d'un colpo le più belle speranze. Ma pensandoci poi a sangue freddo, si dovette trovare che la pace fu una provvidenza. Se l'aiuto della Francia ci costò per la liberazione della Lombardia, Nizza e Savoia, che cosa altro ci avrebbe costato l'aiuto per la liberazione del Veneto? Di più avremmo veduto ingrandirsi il predominio della Francia imperiale, e forse effettuata l'idea Napoleonica della Confederazione Italica presieduta dal Papa!

Invece restava agli italiani soltanto il compito doveroso di completare l'unità della Patria, e questo dovere essi lo compirono con prudenza e con fermezza.

Un articolo del trattato di pace – quello nel quale veniva stabilito il non intervento – giovò all'unità della Patria, perchè permise alle diverse provincie sorte a libertà di proclamare coi loro plebisciti l'unione nazionale.

Verso la metà di agosto, la Toscana, la Romagna, Modena e Parma concludevano una lega, costituendo un governo dell'Italia centrale e prescegliendo come comandante supremo il generale Manfredo Fanti, e comandante in seconda il generale Giuseppe Garibaldi.

Nell'ottobre sparsasi la voce che le truppe al soldo del Papa si adunavano a Pesaro per marciare di qua della Cattolica, e che le Marche si preparavano ad una generale sollevazione, il Fanti disponeva che Garibaldi si recasse alla frontiera, per far fronte ad ogni attacco del nemico, batterlo ed inseguirlo oltre il confine, occupando le Marche.

Giunto il generale a Rimini vi stabiliva la sede del comando, volle fosse data esecuzione ad un suo disegno che avrebbe giovato all'occupazione delle Marche; quello cioè di armare alcune delle navi mercantili che si trovavano in quel porto-canale.

Furono scelte pel momento le due migliori, lo Scooner "Arimino" e "la Fenice" di proprietà del patriota Agostino Pericoli; del primo il generale diede il comando ad Andrea Rossi di Oneglia, del secondo ne fu nominato comandante Augusto Elia entrambi col grado di sotto-tenenti di Vascello dell'Italia centrale. Essi si misero all'opera senza ritardo per armare ed equipaggiare il naviglio facendo tesoro dei consigli che ad essi dava il loro amico colonnello Bixio. L'Elia intanto per ordine del generale e con l'intesa dei patrioti di Pergola, G. B. Jonni, Ginevri, Bertiboni e Bertuccioli per la via di S. Marino aveva fatto pervenire nell'Urbinate buon numero di fucili affine di promuovere un movimento insurrezionale che provocasse l'intervento di Garibaldi.

Tutto era pronto e non si attendeva che l'ordine di marciare.