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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 9

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A. D. 775

Leone IV, figlio di Costantino V, e padre di Costantino VI, fu debole di corpo e di spirito; e in tutto il suo regno non ebbe altro gran pensiero che la scelta del suo successore. Dallo zelo officioso dei suoi sudditi fu sollecitato perchè associasse all'Impero il giovine Costantino; l'Imperatore, che lo vedea deperire, s'arrese ai loro voti unanimi, dopo avere esaminato quest'alto affare con tutta l'attenzione che meritava. Costantino di soli cinque anni fu coronato insieme con sua madre Irene; e il consentimento nazionale fu consacrato con tutte le cerimonie le più acconce, per pompa e per apparecchio, ad abbacinare gli occhi dei Greci, o ad incatenarne le coscienze. I vari ordini dello Stato prestarono giuramento di fedeltà nel palazzo, nella chiesa, e nell'Ippodromo; invocarono i santi nomi del Figlio e della Madre di Dio: «Noi chiamiamo in testimonio Gesù Cristo, esclamarono essi, noi veglieremo alla sicurezza di Costantino, figlio di Leone; esporremo la nostra vita in suo servigio, e resteremo fedeli alla sua persona e alla sua posterità». Ripeterono quel giuramento sopra il legno della vera Croce, e l'atto della lor sommessione fu depositato sull'altare di Santa Sofia. Primi a fare questo giuramento, e primi a violarlo, furono i cinque figli avuti da Copronimo nel secondo matrimonio, e n'è ben singolare quanto tragica l'istoria. Per diritto di primogenitura erano esclusi dal trono, e dall'ingiustizia del fratello maggiore erano stati privati d'un legato di circa due milioni sterlini; non credettero essi, che potessero vani titoli essere un compenso di ricchezza e di potere, e quindi in diverse riprese cospirarono contro il nipote, sia avanti, sia dopo la morte del padre. Ebbero il perdono la prima volta; nella seconda furon condannati allo stato ecclesiastico; al terzo tradimento, Niceforo, il più anziano e il più colpevole, fu privato degli occhi, e con un gastigo riputato più dolce, fu tagliata la lingua a Cristoforo, a Niceta, ad Antimio, e ad Eudossio, suoi fratelli. Dopo cinque anni di carcere fuggirono, e si ricoverarono nella chiesa di Santa Sofia, ove offersero al popolo uno spettacolo commovente. «O Cristiani, miei concittadini, gridò Niceforo in nome proprio ed in quello de' suoi fratelli che non poteano parlare, mirate i figli del vostro Imperatore, se pur li potete riconoscere in quest'orrido stato. La vita, e qual vita! ecco tutto ciò che ne ha lasciato la crudeltà dei nostri nemici: oggi è minacciata questa misera vita, e noi veniamo ad implorare la vostra compassione». Il fremito, che già si spandeva nell'assemblea, sarebbe terminato in sollevazione, se quella prima sommossa non fosse stata compressa dalla presenza d'un ministro, che con promesse e carezze seppe ammansare quei principi sventurati, e condurli dalla chiesa al palazzo. Non fu posto tempo di mezzo ad imbarcarli per la Grecia, e fu assegnata loro per luogo d'esilio la città d'Atene. In quel ritiro, e nonostante il loro stato, tormentati sempre dalla sete di regno, Niceforo e i suoi fratelli si lasciaron sedurre da un Capitano schiavone, che promise di rimetterli in libertà, e di guidarli armati e adorni della porpora alle porte di Costantinopoli; ma il popolo Ateniese, sempre zelante per Irene, ne prevenne la giustizia o la crudeltà, e seppellì finalmente nell'eterno silenzio per sino la rimembranza dei cinque figli di Copronimo.

A. D. 780

Quest'Imperatore si avea scelta per moglie una Barbara, figlia del Khan dei Cozari; ma quando si trattò di maritare il suo erede, avea preferita una orfanella Ateniese dell'età di diciassett'anni, che pare non avesse altra fortuna che la bellezza. Le nozze di Leone e d'Irene furon celebrate con regia pompa: non tardò la principessa a conciliarsi l'amore e la fiducia d'uno sposo debole, il quale nel suo testamento la dichiarò Imperatrice, e affidò al suo governo il Mondo romano e il figlio Costantino VI, che non contava allora più di dieci anni. Durante la minorità del giovanetto, Irene si mostrò nella sua amministrazione pubblica donna ingegnosa ed attenta, fedele ed esatta ai doveri di madre; e lo zelo che pose a ristabilire le Immagini le ha meritato gli onori di Santa nei registri del calendario dei Greci; ma come fu escito dell'adolescenza, l'Imperatore ebbe a noia il giogo materno, porse orecchio a giovani favoriti della sua età, i quali, dividendo con lui i piaceri, avrebbero pur voluto partecipare alla sua autorità. Vinto dai lor discorsi, e persuaso de' suoi diritti all'Impero, e de' suoi talenti per sostenerlo, assentì che Irene, in premio de' suoi servigi, fosse confinata per tutta la vita nell'isola di Sicilia. La vigilanza, e l'accortezza dell'Imperatrice scompigliarono agevolmente i mal combinati disegni. Quei giovani, e i loro instigatori ebbero quella pena d'esilio che avean tentato di dare a lei, o fors'anche gastighi più severi; ebbe il principe ingrato quella punizione che ricevono per lo più i fanciulli. Da quel punto la madre e il figlio formavano due fazioni domestiche, ed ella invece di guidarlo colla dolcezza e di sottometterlo all'obbedienza, senza che se n'accorgesse, tenne incatenato un prigioniero e un nemico. Per abuso di vittoria ella si perdè; il giuramento di fedeltà, che volle per lei sola, fu pronunziato con ripugnanza e con bisbigli; ed avendo le guardie armene avuto il coraggio di negarlo, mosso il popolo da quest'esempio ardito, liberamente e con voti unanimi, dichiarò Costantino VI per legittimo Imperator dei Romani. Con questo titolo prese egli lo scettro, e condannò sua madre alla inazione ed alla solitudine. Allora l'alterigia d'Irene s'abbassò a dissimulare; piaggiò i Vescovi e gli eunuchi; ridestò nel cuore del principe la tenerezza filiale, ne ricuperò la fiducia, e ne deluse la credulità. Non mancava a Costantino nè sentimento, nè coraggio, ma s'era trascurata a bella posta la sua educazione, e l'ambiziosa madre denunziava alla pubblica censura i vizi da lei fomentati, e le azioni da lei consigliate secretamente. Col suo divorzio e con un secondo matrimonio ferì Costantino i pregiudizi degli ecclesiastici, e con un rigore imprudente perdè l'affezione delle guardie armene. Si formò una possente cospirazione per rimettere in trono Irene, e questo segreto, benchè confidato a gran numero di persone, fu per più di otto mesi fedelmente custodito. Finalmente l'Imperatore, entrato in sospetto del pericolo che gli sovrastava, salpò da Costantinopoli con intenzione di domandare aiuto alle province ed agli eserciti. Questa pronta fuga pose Irene su l'orlo del precipizio; tuttavolta prima d'implorar la clemenza del figlio, diresse una lettera particolare agli amici, ch'ella aveva collocati al fianco del principe, e li minacciò, se mancavano alla parola datale, di svelare il lor tradimento all'Imperatore. La paura li fece intrepidi; arrestarono l'Imperatore sulla costa d'Asia, e lo condussero al palazzo nell'appartamento porfirico, ove era nato. L'ambizione avea soffocato nel cuore d'Irene tutti i sentimenti dell'umanità e della natura; nel suo sanguinario Consiglio si decise, che si ridurrebbe Costantino ad uno stato da non poter più regnare: gli emissari di lei s'avventarono sul principe mentre dormiva; gli immersero i pugnali negli occhi, con tal violenza e precipizio, che si sarebbe detto che volessero dargli la morte. Da un passo equivoco di Teofane argomentò l'autore degli Annali della Chiesa, che di fatto l'Imperatore spirasse sotto quei colpi. L'autorità di Baronio ha illuso, o vinto i Cattolici, e in ordine a questo non ha voluto il fanatismo de' Protestanti porre in dubbio l'asserzione d'un cardinale, propenso per la protettrice delle Immagini; ma il figlio d'Irene visse ancora molti anni, oppresso dalla Corte, e dimenticato dal Mondo. La dinastia Isaurica s'estinse in silenzio, e non fu richiamata la memoria di Costantino, che pel matrimonio di sua figlia Eufrosina coll'Imperatore Michele II.

A. D. 792

I più fanatici dei cattolici han giustamente detestato una madre sì snaturata, che nella storia dei misfatti non ha forse l'uguale. La oscurità di diciassette giorni, durante la quale molti vascelli smarrirono la strada nel pieno meriggio, fu considerata dalla superstizione per un effetto del suo delitto, come se il Sole, quel globo di fuoco, sì remoto e sì ampio, avesse ne' suoi movimenti qualche simpatia cogli atomi d'un pianeta, che gira intorno a lui. L'atrocità d'Irene rimase per cinque anni impunita; luminoso era il suo regno; e se la sua coscienza tacea, poteva essa ignorare, o non curare l'opinione degli uomini. Il Mondo romano si sottomise al governo d'una donna, e quando ella passava per le strade di Costantinopoli, quattro patrizi a piedi, tenean le redini di quattro cavalli bianchi, attaccati al cocchio d'oro, su cui era portata la Regina; ma quei patrizi comunemente erano eunuchi; e la lor negra ingratitudine giustificò, in quest'occasione, l'odio e il disprezzo che si avea per essi. Tratti dalla polvere, arricchiti, ed elevati alle prime dignità dello Stato cospirarono da vili contro la propria benefattrice: il gran tesoriere per nome Niceforo fu segretamente ornato della porpora; il successore d'Irene fu collocato nel palazzo, e coronato in S. Sofia da un Patriarca, che avevano subornato con doni. Nel primo abboccamento col nuovo imperatore, Irene ricapitolò dignitosamente i vari accidenti che aveano agitata la sua vita; rimproverò dolcemente a Niceforo la sua perfidia; lasciò trapelare, ch'egli dovea la vita alla sua clemenza poco sospettosa; poi in compenso del trono e dei tesori, ch'ella abbandonava, domandò un ritiro decoroso. Niceforo gli negò questo discreto compenso, e l'Imperatrice, confinata nell'isola di Lesbo, non ebbe per sussistere che i guadagni della sua conocchia.

A. D. 802-811

Non v'ha dubbio, che vi furono tiranni più rei di Niceforo; ma niuno per avventura fu odiato più generalmente dal suo popolo. Tre vizi vergognosi, l'ipocrisia, l'ingratitudine e l'avarizia, lo deturparono; non supplivano i talenti al difetto di virtù, e gli mancavano qualità piacevoli, che coprissero il difetto di talenti. Inetto e sfortunato in guerra, fu vinto dai Saraceni, e ucciso dai Bulgari, e la sua morte si ebbe in conto di fortuna, la quale, nell'opinion pubblica, contrappesò la perdita d'un esercito romano. Stauracio, suo figlio ed erede, scampò dalla battaglia con una ferita mortale; ma sei mesi d'una vita, che fu un'agonia continua, bastarono a smentire la promessa aggradevole al popolo, ma indecente per sè medesima, da lui fatta, dicendo, che avrebbe in tutto evitato l'esempio del padre. Quando si conobbe che gli restavan pochi giorni da vivere, tutti i voti e in Corte e in città s'accordarono in favore di Michele, gran maestro del palazzo, e marito di Procopia, sorella del principe. Non mancò a Michele che il suffragio del suo invidioso cognato. Il quale pertinacemente fermo a ritenere uno scettro, che gli cadeva di mano, cospirò contro la vita del successore designato, e si lasciò sedurre dall'idea di fare dell'Impero romano una democrazia; ma questi inconsiderati disegni non valsero che ad attizzare il popolo, e a dissipare gli scrupoli di Michele. Il quale accettò la porpora, e il figlio di Niceforo, col piè sul sepolcro, implorò clemenza dal nuovo sovrano. Se in un tempo di pace fosse asceso Michele ad un trono ereditario, avrebbe potuto essere amato e poi pianto come padre del popolo; ma le sue virtù pacifiche si addiceano piuttosto alla oscurità della vita privata, ed egli non seppe mai reprimere l'ambizione degli uguali a lui, nè resistere alle armi dei Bulgari vittoriosi. Mentre per difetto di talenti e di trionfi era egli esposto alle beffe dei soldati, il maschio coraggio di sua moglie Procopia si concitò la loro indignazione. Anche i Greci del nono secolo si adontarono dell'insolenza d'una donna, che stando davanti agli stendardi, volea dirigerne le mosse, e animarli a combattere; le loro grida tumultuose avvertirono la nuova Semiramide di rispettar la maestà d'un Campo romano. Dopo una campagna infelice l'Imperatore lasciò svernare in Tracia un esercito malcontento, e comandato dai suoi nemici, i quali con artificiosa eloquenza persuasero ai soldati esser tempo di togliersi dal governo degli eunuchi, di degradare il marito di Procopia, e di rinnovare il diritto della elezion militare. Marciarono adunque verso la capitale; in questo mezzo, il Clero, il Senato, il Popolo di Costantinopoli stavano per Michele, e le milizie e i tesori dell'Asia potevano aiutarlo a prolungar le calamità d'una guerra civile; ma Michele per un sentimento d'umanità, che gli ambiziosi chiameranno debolezza, protestò, che non lascerebbe spargere per la sua causa una sola goccia di sangue cristiano, e i suoi deputati offersero alle soldatesche, giunte di Tracia, le chiavi della città e del palazzo. Esse furono disarmate dalla sua innocenza e sommessione; nulla si osò contro la sua vita; non gli furono cavati gli occhi; Michele entrò in un monastero, dove, dopo essere stato spogliato della porpora, e separato dalla moglie, godè per trentadue anni e più le consolazioni della solitudine e della religione.

 

Abbiamo già detto, che ai tempi che regnava Niceforo, un ribelle, il celebre e sciagurato Bardane, ebbe vaghezza di consultare un Profeta asiatico, il quale, dopo avergli annunciata la caduta del tiranno, gli presagi la fortuna, che avrebbero un giorno Leone l'Armeno, Michele di Frigia e Tommaso di Cappadocia, tre suoi officiali primarii. La profezia lo informò inoltre, per quel che si asserisce, che i due primi regnerebbero un dopo l'altro, e che il terzo farebbe un'impresa infruttuosa, che gli sarebbe funesta. L'avvenimento avverò, o piuttosto originò questa predizione. Dopo dieci anni, quando le milizie della Tracia deposero il marito di Procopia, venne offerta la corona a Leone, primo per grado nell'esercito, e segreto autore della sommossa. Come fingeva egli d'esitare, il suo collega Michele gli disse: «Questa spada, che ti schiuderà le porte di Costantinopoli, e che ti sottometterà la capitale, te la immergerò nel seno, se tu ti opponi alle giuste brame de' tuoi commilitoni». Assentì l'Armeno ad accettare la porpora, e regnò sette anni e mezzo col nome di Leon V. Educato nei campi, e ignaro di leggi e di lettere, introdusse nel governo civile il rigore, ed anche la crudezza della disciplina militare; ma se la sua severità fu talvolta pericolosa per gl'innocenti, almeno fu sempre terribile pei colpevoli. Colla sua incostanza in ordine alla religione, si meritò l'epiteto di Camaleonte, ma i Cattolici, per bocca d'un santo confessore, hanno riconosciuto, che la vita dell'Iconoclasta fu utile allo Stato. Lo zelo di Michele ebbe in premio ricchezze, onori e comandi militari, e l'Imperatore seppe impiegare a beneficio del Pubblico i suoi talenti adatti soltanto ad un posto secondario; ma non fu contento il Frigio a ricevere come un favore una scarsa porzione di quell'Impero, che egli avea procacciato ad un uguale, e finalmente il suo malumore, dopo averlo esalato per qualche tempo in parole imprudenti, fu da lui manifestato in una guisa più minacciosa contro un principe ch'egli dipingeva come un tiranno crudele. Tuttavia questo tiranno scoperse, in più volte, i disegni dell'antico suo collega; lo ammonì, e gli perdonò sin a tanto che in fine il timore ed il risentimento la vinsero a fronte della gratitudine. Dopo un lungo esame delle azioni e delle intenzioni di Michele, fu questo convinto del reato di lesa maestà, e condannato ad essere arso vivo nella fornace dei bagni privati. La pia umanità dell'Imperatrice Teofane divenne funesta al marito suo ed alla sua famiglia; era fissata l'esecuzione al venticinque dicembre; ella rappresentò, che un sì inumano spettacolo mal conveniva nell'anniversario della nascita di Cristo, e Leone, sebbene con ripugnanza, concedette una sospensione che pareva ragionevole; ma nella vigilia di Natale, da un'interna inquietudine fu condotto l'Imperatore a visitare, nel silenzio della notte, la stanza ove era detenuto Michele, e lo trovò, che sciolto dalle catene, dormiva profondamente sul letto del suo custode: quest'indizio di sicurezza e d'un accordo cogli uomini, che erano mallevadori della persona del carcerato, sbigottì non poco Leone: egli si ritirò senza fare strepito, ma uno schiavo nascosto in un canto della prigione, lo vide entrare ed uscire. Col pretesto di chiedere un confessore, Michele avvisò i congiurati, che i loro giorni dipendevano omai dalla sua discrezione, e che non avean che poche ore per salvarsi, e per liberare il loro amico e l'Impero. Nelle grandi feste ecclesiastiche un drappello di sacerdoti e di musici andava a palazzo, passando per una picciola porta, a cantare i mattutini nella cappella, e Leone, che faceva osservar nel suo coro una disciplina così esatta come nel campo, quasi sempre assisteva a questo ufficio della mattina. I congiurati, vestiti degli abiti ecclesiastici, e armati di spada, nascosta sotto le vesti, entrarono alla rinfusa con quelli che doveano ufficiare; s'appiattarono negli angoli della cappella, aspettando che l'Imperatore intuonasse il primo salmo, che appunto era il segnale convenuto. Subito s'avventarono ad uno sciagurato, ch'essi credeano Leone; potea l'oscurità del giorno, e l'uniformità del vestimento favorire la fuga del principe, ma quelli ben tosto s'avvidero dello sbaglio, e accerchiarono da tutti i lati la regia vittima. L'Imperatore senz'armi e senza difensori, afferrata una croce pesante contenne gli assassini per qualche istante; dimandò grazia, ma gli fu risposto da una voce terribile «esser quello il momento non della misericordia, ma della vendetta». Un fendente di sciabola atterrò da prima il suo braccio destro e la croce; e poscia fu egli trucidato ai piè dell'altare.

A. D. 820

Il destino di Michele secondo, cognominato il Balbo, per un difetto che avea nell'organo della parola, diede occasione ad un cangiamento memorabile. Campò egli dalla fornace cui era stato condannato per salire al trono dell'Impero, e perchè in mezzo al tumulto non si potè subito trovare un fabbro ferraio, gli restarono le catene alle gambe per molte ore, dopo che fu asceso sul soglio dei Cesari. Senza vantaggio alcuno del popolo fu versato il sangue reale, ch'era stato il prezzo dell'esaltazion di Michele. Conservò egli sotto la porpora i vizi ignobili della sua nascita, e perdè le province con grande indifferenza, come se le avesse ricevute per eredità dai suoi avi. Gli fu conteso l'Impero da Tommaso di Cappadocia, l'ultimo dei tre officiali contemplati dalla predizione fatta a Bardane. Dalle rive del Tigri e dalle sponde del mar Caspio condusse Tommaso in Europa ottantamila Barbari ad assediare Costantinopoli; ma si impiegarono tutti i presidii temporali e spirituali a difendere la capitale. Avendo un Re bulgaro investito il campo degli Orientali, Tommaso o per disgrazia, o per debolezza cadde vivo in potere del vincitore. Gli furon tagliati i piedi e le mani; fu messo sopra un asino, e in mezzo alle villanie della plebaglia fu condotto in giro per le vie, ch'egli irrigava col suo sangue. L'Imperatore assistette a questo spettacolo, e da ciò si potrà giudicare quanto feroci o depravati fossero i costumi di allora. Michele, sordo ai lamenti del suo commilitone, si ostinava a volere discoprire i complici della ribellione; ma un ministro o virtuoso o reo lo trattenne, chiedendogli: «se presterebbe fede alle deposizioni d'un nemico contro i suoi amici più fedeli». Perduta che ebbe l'Imperatore la moglie, fu indotto dal Senato a sposare Eufrosina, figlia di Costantino VI, che viveva in un monastero, ed egli acconsentì alla preghiera. Per un riguardo probabilmente all'augusta nascita d'Eufrosina, si dichiarò nel contratto nuziale, che i figli suoi dividerebbero l'Impero col loro fratello primogenito, ma questo secondo matrimonio fu sterile, ed Eufrosina si contentò del titolo di madre di Teofilo, figlio e successor di Michele.

A. D. 829

Teofilo ci dà l'esempio ben raro d'un eretico e d'un persecutore, il cui zelo religioso ha dimostrato, e forse esagerato le sue virtù. I suoi nemici fecero prova sovente del suo valore, e i sudditi della sua giustizia. Ma il valore fu temerario ed infruttuoso; la giustizia arbitraria e crudele. Spiegò lo stendardo della Croce contro i Saracini; ma le sue cinque imprese terminarono con una tremenda sconfitta. Amorio, patria de' suoi antenati, fu rasa, e dalle sue fatiche militari non ricavò altro, che il soprannome di Sfortunato. Un sovrano fa mostra della sua sapienza nell'istituire leggi, e nell'eleggere magistrati; e mentre sembra inerte, il governo civile fa la sua rivoluzione intorno al suo centro col silenzio e col buon ordine del sistema planetario. Teofilo fu giusto, come lo sono i despoti dell'Oriente, i quali, esercitando l'autorità da sè, seguono la ragione, o la passione del momento, senza pensare alle leggi, o senza misurare col delitto la pena. Una povera donnicciuola venne a gettarsegli ai piedi e a dolersi del fratello dell'Imperatrice, il quale aveva edificato il suo palazzo a tale altezza, che privava d'aria e di Sole la sua bassa abitazione. Provata la cosa, invece di darle, come avrebbe fatto un giudice ordinario, quel compenso che bastava nel caso, od anche di più, le assegnò il palazzo e il terreno; non contento di questo decreto stravagante, trasformò un affar civile in azion criminale, e il misero patrizio nella pubblica piazza di Costantinopoli fu battuto colle verghe. Per falli leggieri, per un difetto d'equità o di vigilanza, i suoi principali ministri, un prefetto, un questore, un capitan delle guardie erano cacciati in esilio, mutilati, immersi entro la pece bollente, o abbruciati vivi nell'Ippodromo. Naturalmente queste terribili condanne, dettate forse dall'errore e dal capriccio alienarono da lui l'affetto dei migliori e de' più saggi cittadini; ma l'orgoglioso monarca si compiaceva di questi atti di potere, ch'egli considerava come atti di virtù; tranquillo nella sua oscurità facea plauso il popolo al pericolo ed alla umiliazione dei Grandi. A dir vero, tanto rigore fu in qualche parte giustificato da conseguenze salutari, avvegnachè dopo esatte ricerche per diciassette giorni non si trovò nè nella capitale, nè in Corte un sol motivo di doglianza, nè abuso da denunziare; si dee fors'anche concedere, che fosse mestieri reggere i Greci con uno scettro di ferro, e che il ben pubblico è il movente e la legge del magistrato supremo. Nel giudicare del delitto di lesa maestà questo giudice è credulo o parziale più d'un altro. Condannò Teofilo a tarda pena gli assassini di Leone, e i liberatori di suo padre, continuando egli a godere il frutto del lor delitto; e la gelosa sua tirannia immolò alla propria sua sicurezza il marito di sua sorella. Un Persiano della razza de' Sassanidi era morto a Costantinopoli nell'esilio, e nella povertà, lasciando un figlio unico del suo matrimonio con una plebea. Questo fanciullo, di nome Teofobo, era nell'età di dodici anni, quando venne in cognizione del secreto della sua nascita, e non era già indegno il suo merito di tal origine. Fu educato nel palazzo di Bizanzio da cristiano e da soldato, fece rapidi passi nella strada della fortuna e della gloria; sposò la sorella dell'Imperatore, ed ebbe il comando di trentamila Persiani, che come suo padre aveano lasciato il lor paese per iscampare dai Musulmani. Quei trentamila guerrieri, accoppiando i vizi de' fanatici a quelli delle milizie mercenarie, vollero rivoltarsi contro al lor benefattore, e inalberare il vessillo del principe concittadino; ma il fedele Teofobo ne ributtò la proferta, scompigliò le trame, e si ricoverò nel campo, o nel palazzo del cognato. Se l'Imperatore lo ammetteva ad una generosa confidenza avrebbe procacciato un bravo e fido tutore a sua moglie, e al figlio ancor tenero, che Teofilo nel fior degli anni avea lasciato erede dell'Impero. Le infermità corporali, e l'indole invidiosa crebbero in lui le inquietudini; ebbe timore di virtù, che poteano farsi pericolose nel debole stato suo, e nel letto di morte domandò la testa del Principe persiano. Dimostrò un piacere barbaro, ravvisando le sembianze del fratello: «Tu non sei più Teofobo» egli disse, e ricadendo sull'origliere, soggiunse con voce agonizzante: «E anch'io ben presto, troppo presto oimè, non sarò più Teofilo». I Russi, che presero dai Greci il maggior numero delle loro leggi civili ed ecclesiastiche, han mantenuto sino all'ultimo secolo un'usanza singolare in occasione del matrimonio del Czar: raunavano le giovanette, non già di tutti i gradi e di tutte le province, il che sarebbe stato ridicolo ed impossibile, ma quelle della primaria Nobiltà, e le obbligavano ad aspettare in palazzo l'elezion del sovrano. Vuolsi, che si osservasse quest'uso per le nozze di Teofilo. Egli passeggiò con un pomo d'oro in mano in mezzo a quelle Belle schierate in due file: le grazie di Icasia fissarono i suoi sguardi, e questo principe, poco destro ad introdurre un discorso, non trovò altro da dirle se non che le Donne avean fatto gran male: «è vero, Sire, rispose la giovanetta vivacemente, ma han fatto anche molto bene». Questa affettazione di spirito fuor di tempo spiacque all'Imperatore; che le voltò le spalle. Icasia andò a nascondere la sua vergogna in un convento, e Teodora, ch'era stata modestamente zitta ebbe il pomo d'oro. Fu degna dell'amore del suo padrone; ma non potè sottrarsi alla sua severità. Dal giardino del palazzo, avendo veduto un vascello assai carico ch'entrava in porto, e informato, ch'era pieno di merci della Siria, appartenenti a sua moglie, condannò alle fiamme la nave, e fece amaro rimbrotto a Teodora perchè avviliva la dignità d'Imperatrice, facendo la mercantessa: tuttavolta in punto di morte le affidò la tutela dell'Impero, non che del figlio Michele, che aveva allora cinque anni. Il nome di Teodora divenne caro ai Greci pel ristabilimento delle Immagini, e per la totale espulsione degli Iconoclasti; ma nel suo fervor religioso ella non trascurò le premure volute dalla gratitudine per la memoria e la salvezza di suo marito. Dopo tredici anni d'un'amministrazione saggia e temperata, s'avvide che la reputazione di lei declinava; ma questa seconda Irene imitò solamente le virtù della prima. Invece di tentar nulla contro la vita e l'autorità del figlio, si consacrò senza resistere, ma non senza dolersi, alla solitudine della vita privata, compiangendo i vizi, l'ingratitudine e la ruina inevitabile dell'indegno suo figlio.

 

A. D. 842

Fra quelli, che successori di Nerone e d'Elagabalo ne imitarono la malvagità, non s'era per anche trovato un principe, che considerasse il piacere come la cosa più importante della vita, e la virtù come nemica del piacere. Per quanto grandi fossero le cure di Teodora per l'educazione del figlio, la disgrazia di questo principe fu d'essere sovrano prima d'esser uomo; ma se si adoperò questa madre ambiziosa ad impedire che la sua ragione si sviluppasse, non potè calmarne il bollore delle passioni, e il suo procedere, interessato per sè, fu giustamente punito dal dispregio e dalla ingratitudine di quel giovinastro caparbio. Di diciott'anni scosse il freno di Teodora, senz'avvedersi che non era in caso da governar l'Impero, nè da governar sè stesso. Alla partenza di Teodora, abbandonarono la Corte la sapienza e la gravità; non si videro più regnare che il vizio o la follia alternativamente, e non fu possibile acquistare, o conservare il favore del principe senza perdere la pubblica estimazione. I milioni accumulati pei bisogni dello Stato furono profusi ai più vili degli uomini che lo adulavano, e partecipavano ai suoi sollazzi; e in un regno di tredici anni il più opulento monarca si ridusse a vendere gli ornamenti preziosi del suo palazzo e delle Chiese. Somigliante a Nerone, era pazzo pei divertimenti teatrali, e al par di lui sentiva dispetto d'essere superato in cose, per le quali doveva arrossire della sua abilità. Ma lo studio che aveva fatto Nerone della musica e della poesia indicava qualche gusto per le arti liberali; e le inclinazioni più basse del figlio di Teofilo eran tutte pel corso di carri nell'Ippodromo. Non cessavano di ricreare gli oziosi abitanti della capitale le quattro fazioni, ch'aveano disturbata la pubblica quiete: l'Imperatore prese per sè la divisa degli Azzurri; distribuì ai suoi favoriti i tre colori rivali, e nell'ardenza sua per questi vili esercizi, dimenticò la dignità della sua persona, e la sicurezza degli Stati. Impose silenzio a un corriere, che per informarlo che il nimico aveva invaso una provincia dell'Impero, s'avvisò di fermarlo nel momento più bello della corsa, e fece estinguere i fuochi importuni, che, fatti segnali di pericolo, troppo spesso metteano lo spavento nei paesi fra Tarso e Costantinopoli. I più bravi aurighi avevano il primo posto nella sua confidenza, e nella sua stima; accettava banchetti da loro, e ne teneva i figli al Sacro Fonte: allora si facea bello della sua popolarità, e affettava di biasimare il freddo e maestoso contegno de' suoi predecessori. Erano omai divenute ignote all'Universo quelle dissolutezze contrarie alla natura, che disonorarono anche l'età virile di Nerone; ma Michele logorava le forze in braccio all'amore ed alla intemperanza. Riscaldato dal vino, nelle sue orgìe notturne, dava gli ordini i più sanguinari, e quando col ritorno della ragione, si facea sentire l'umanità, era poi costretto ad approvare l'utile disobbedienza dei servi. Ma una delle prove più straordinarie della cattiva indole di Michele è la profana licenza, con che metteva in ridicolo la religion del paese. Sia pure, che la superstizion dei Greci potesse movere a riso un filosofo; ma il riso del saggio sarebbe stato ragionevole e temperato, e avrebbe disapprovata la sciocca ignoranza d'un giovine, che insultava gli oggetti della pubblica venerazione. Un buffone di corte si vestiva da Patriarca; i suoi dodici Metropolitani, uno de' quali era l'Imperatore, si coprivano di abiti ecclesiastici; maneggiavano e profanavano i vasi sacri, e a rallegrare i lor baccanali amministravano la Santa Comunione con un ributtante miscuglio d'aceto e di senapa. Nè già si teneano ascose queste empietà ai pubblici sguardi; in un giorno di gran festa, l'Imperatore, i suoi vescovi e i suoi buffoni correndo per le vie, montati sopra giumenti, incontrarono il vero Patriarca, seguìto dal suo Clero, e con grida licenziose, e lazzi osceni sconcertarono la gravità di quella processione cristiana. Non mai uniformossi Michele alle pratiche della devozione, se non che per oltraggiare la ragione e la verace pietà; raccogliea da una statua della Vergine le corone teatrali, e violò la tomba imperiale di Costantino, l'Iconoclasta, pel piacere di arderne le ossa. Questo contegno stravagante lo rendette tanto spregevole, quanto era odioso. Ogni cittadino desiderava ardentemente la liberazione della patria, e i suoi favoriti medesimi temevano, non un suo capriccio li privasse di ciò, che dono era d'un capriccio. Nell'età di trent'anni, e in grembo all'ebbrezza ed al sonno, Michele III fu assassinato nel suo letto dal fondatore d'una nuova dinastia, al quale egli aveva conferito un grado e un potere uguale al suo proprio.