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L'ignoto: Novelle

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III

Il dottore m’aspettava, con le mani sul dosso, con l’ultimo fascicolo della Phrenologische Zeitschrift sotto l’ascella, appie’ della vasta scala che mena ai corridoi superiori. Ricominciammo a parlare del suo nuovo soggetto: una giovane donna ch’era stata affidata alle sue cure speciali.

– Tipo non comune. Nessuna delle degenerazioni fisiche che io riscontro nelle altre ammalate di tal genere. Ecco: forse quelle iridi grige che talvolta si slargano…

S’arrestava al sommo della prima tesa delle scale e pigliava fiato.

– E di che cosa è malata?

– Ebbene, pel momento non vi saprei dire. Ha delle frenosi complicate d’isterismo e di catalessia, e una mania di pianto. Per lo più è muta e solitaria. Qualche volta l’ho udita cantare. La lascio fare, la lascio libera. Ella non farà mai male ad alcuno. Non s’agita, non urla. Nessuna irrequietezza. Per tanto è una isterica: e pure m’oppugna il Sydenam, che al cospetto di lei si troverebbe forse per la prima volta in presenza d’una di queste paranoiche la quale non ha, come lui dice, la costanza dell’incostanza. In fondo, siamo sempre lì – soggiunse il dottore, soffermandosi con me sul largo pianerottolo – le solite devastazioni di quel risvegliatore eterno, dolcissimo ed iniquo, d’ogni male latente. L’amore. Dico bene? Secondo me quella poverina ama o ha amato qualcuno che non ha mai potuto raggiungere.

S’apriva davanti a noi il lungo e spazioso corridoio dalle bianche pareti, deserto. Tutte le porte delle celle erano chiuse.

– È qui, ai pagamenti. – disse il dottore – Numero quaranta.

Con le nocche delle dita picchiò sulla porta e attese qualche poco. Poi ficcò la chiavetta nella toppa e la porta s’aperse.

Ora egli, di su la soglia, col cappello in mano, salutava.

– Buongiorno, signorina.

La vidi, subitamente. Era seduta presso la sponda del suo bianco letto e ci voltava le spalle. Vidi un’onda di capelli d’oro, quasi disciolti, vidi una mano, pallida e sottile, come abbandonata sulla tavola sparsa di fiori, accanto a lei; una mano che s’appressava a quei crisantemi con quel moto lievo e incerto che hanno le dita dei ciechi.

Il dottore presentava:

– Il mio amico Legrenzi.

Ella si volse, e si levò, di scatto. Con un grido, un grido che non potrò mai dimenticare! Si trasse addietro, s’addossò quasi a uno stipite della finestra. La luce della finestra la circonfuse; ma la coglieva alle spalle, e io non vedevo che un fantasma, alto, sottile, dalle braccia levate in atto di meraviglia e di terrore.

Che cosa io balbettai, che cosa feci in quel punto! Non so… M’è parso di piegarmi, di mancare. Le mie mani si sono afferrate allo spigolo della tavola, gli occhi miei fisi e spalancati hanno visto venire verso di me, lento, dal luminoso fondo della finestra, il fantasma. Ho sentito una mano che mi si posava sulla spalla. Ho visto confusamente lei, che si chinava, che mi guardava. E m’è parso che sorridesse, con gli occhi pieni di lagrime…

E ho udito poi la sua voce:

– Ti ricordi!.. Dimmi… Ti ricordi!..

IV

Ebbene, sì, ricordavo. Una intera esistenza vi può ripassare davanti agli occhi in un attimo.

Rivedevo, in quella bionda e pallida figura, mia madre, mia madre adorata, morta quando io nulla ancora potevo intendere della vita e delle sue tragedie, dei suoi profondi dolori, delle orribili amarezze che vi invecchiano di colpo e vi abbandonano, disfatti, al tedio o alla disperazione. Sì, rivedevo mia madre, in costei. Era il suo profilo puro e dolce, erano i suoi capelli d’oro che io amavo di carezzare, erano i suoi grandi occhi chiari, d’un azzurro grigiastro, pieni di lume e di dolore. E la voce! La voce ch’era rimasta nel mio orecchio da quel tempo della mia infanzia, in cui la udivo suonare melodiosa e pur breve nella triste solitudine della mia casa. Sì, sì: a che varrebbe nasconderlo? Tutto, ora, tutto ricordavo. Ricordavo che un giorno mio padre, silenzioso, mi prese per mano e mi condusse nella camera ove mia madre moriva. Da tanto tempo non m’avevano lasciato vedere mia madre! Come era bianca nel suo letto, come le sue mani sottili tremavano sulla mia testa! Che mi disse? Balbettava parole che io non potetti comprendere. Oh, Dio, Dio! E pure erano le ultime sue! E poi mio padre, che a un punto disse: Basta! – con la sua voce cupa, quasi irritata. Mi parve un sogno. E poi tutto finì. Mi trovai solo con mio padre, in un’altra casa, in campagna, molto lontano dalla città. Tutto sparito: i servi, il mio precettore, la cameriera di mia madre, e quella bambina bionda, Federica, mia sorella, alla quale mio padre non aveva mai parlato, che non aveva carezzata mai. E poi… e poi venticinque anni della mia vita trascorsi in un baleno, i miei studii, i miei viaggi, la morte improvvisa di mio padre… E quella sera, a Bamberga, al ballo della Croce rossa ove dopo tanti anni rividi e riconobbi a stento un signore ch’era stato amico di lui, qualcosa come un diplomatico, freddo, compassato, di poche parole. La figlia no: la figlia ch’egli v’accompagnava non gli somigliava che nella bella statura, soltanto. Dopo la prima contradanza, mentre ella mi parlava, sommessamente, nel vano d’una finestra, e io bevevo il suo sguardo e le sue parole, il vecchio le si avvicinò e le disse qualcosa, sottovoce. Ella mi stese la mano.

– Arrivederci – mormorò sorridendo – mio padre vuol rincasare.

E da quella sera, non la rividi più…

V

La pazza continuava a guardarmi, immobile, assorta.

Mi pareva che si sforzasse anche lei di penetrare le nebbie d’un passato confuso e incerto, di ricordar qualcosa, qualcuno…

E fra tanto mi sentivo trascinare addietro, pian piano, dal dottore. Subitamente egli rinserrò la porta. Un grido, ancora un grido risuonò nella celletta, un ultimo grido straziato. E un nome —il mio nome.

– Livio!

Il dottore, sul corridoio, si volse a me, stupefatto.

– Ma come?.. Vi conosce?..

– No! – esclamai – No!.. Non so… Ma chi è costei?.. Come si chiama?..

Egli, un po’ stranito, rispose:

– Federica Vossler.