Lia

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(11) STORIE TRAGICHE


L’anno giunse al punto più basso della sua ruota. Nella Notte del Grande Cerchio d’Ombra, com’è tradizione, i bambini di Morraine ricevono doni, portati da una fanciulla cieca

Quell’anno ebbi una cintura di cuoio, con una borsa, che ho poi usato per buona parte delle mie peregrinazioni; carta e inchiostri colorati; un flauto in legno di bosso intagliato, che non ho mai imparato a suonare con qualche competenza.

Qui il viaggiatore scosse la testa con rimpianto.

E altre cose che non ricordo.

Ah, sì: da una zia alcune lire, con cui tornai nella bottega di Arno Borissein, uscendone con certi romanzi a poco prezzo e una malconcia Storia Universale dei Viaggi, ossia Atlante delle Terre Antiche e Moderne, ricco di mappe su cui cercai invano la mia isola.

Ogni volta che avevo qualche soldo in borsa (che mi accadeva quando lavoravo meglio o più del solito nella bottega di mio padre, oppure grazie alle misteriose leggi della generosità degli adulti), andavo da Arno, o in un paio di altre botteghe che avevo scoperto nel frattempo, dove vendevano libri di seconda mano.

La sera, mi ritiravo nella mia camera a leggere.

La chiamo camera, anche se in verità non lo era, esattamente. Forse vi interesserà sapere com’era fatta

All’angolo sud-ovest del Cortile del Nano si leva una torre massiccia, non tanto importante da meritare un nome. A ridosso di questa, una fetta di tetto era stata rialzata da qualche nostro antenato, onde ricavare le stanze dove abitavamo. Qualcuno, in seguito, aveva trasformato parte di questo tetto in una terrazza. E mio padre, quando nacqui, aggiunse la mia stanza. Così cresce Morraine: non allargandosi, ma innalzandosi e aggiungendo con grande parsimonia cellule al proprio tessuto di tetti. C’è da aggiungere che noi di Morraine, forse proprio perché viviamo tutti in una stessa casa, ci teniamo molto a potercene stare da soli, quando vogliamo. Ed è un privilegio che i genitori, appena possono, cercano di accordare anche ai loro figli. Io poi ero il primo.

Così mio padre, quando avevo compiuto appena qualche mese, andò insieme a parenti ed amici sulle colline ai piedi dell’Yiril, dove solitamente si procurava il legno per la sua bottega, e abbatté un pino non troppo alto. Ne ricavò due robuste travi, che a forza di braccia, di muli e di un carretto trasportò a Morraine. Nella sua bottega le scorticò, le piallò, le lavorò. Dal Cortile del Nano le travi vennero issate sul tetto con grande concorso degli abitanti del cortile stesso, e posate di sbieco fra il muro della nostra casa e due sostegni sporgenti dalla torre: una per reggere il pavimento, l’altra il tetto. E così, quando fui un po’ più grande, mi ritrovai con una stanza trapezoidale, il letto che occupava uno dei lati (e per quanto ne so lo occupa ancora), un armadio quello opposto, un piccolo tavolo sotto la finestra, che guardava il sorgere del sole. Non avevo da lamentarmi: esistono stanze ancora più piccole o più bizzarre, a Morraine.

La forma della mia stanza e la sua storia, devo dire, non sono affatto importanti per capire gli eventi successivi del racconto. Servono solo a farvi immaginare meglio quel ragazzino magro e sgraziato, mentre alla luce di una lampada studia la mappa che genera sogni di uccello.

Una di quelle sere, in mancanza di meglio, affrontai perfino i Fiori di bianco prato. Scoprii così che il prato in questione era il foglio e i fiori le parole. Appresi anche che si trattava di una metafora. O forse di un enigma: la distinzione non era del tutto chiara. Malgrado la prosa arcaica, trovai la lettura non priva di interesse, in parte grazie alla moltitudine vertiginosa di esempi, in parte grazie a quel fascino inquietante che è proprio dell’astuzia combinatoria.

Concepii così il primo germe di un piano temerario, ma come si vedrà in seguito non del tutto infruttuoso.

Ricordavo, infatti, a proposito di quel penoso tentativo di rappresentazione, su cui nessuno di noi era più tornato, che l’unico mio contributo a non aver suscitato imbarazzo era stato l’adattamento della ridondante versione del Mago di Qom in nostro possesso. Di qui la mia idea: se non sapevo recitare, la strada della scrittura non mi era preclusa! E chissà, un giorno Lia avrebbe perfino potuto recitare i miei versi!

Visto in questa nuova luce, l’acquisto del tutto casuale dei Fiori, seguito da quello, più deliberato, delle Tragiche Historie, acquistava l’apparenza di una predestinazione. Quale occasione migliore per mettere alla prova le mia capacità poetiche, che fornire le ossa dell’eloquenza, la carne della passione, il respiro del sentimento, a quegli scarni canovacci? Come vedete, avevo già cominciato a pensare per immagini.

Rilessi da capo i Fiori, e cominciai ad addentrarmi nei sentieri impervi della versificazione. I metri teatrali, nelle terre dove si parla la lingua yld, richiedono per tradizione un intreccio fra quantità e rima, reso complicato dal fatto che sono ammesse molte, ma non arbitrarie, licenze poetiche.

Si trattava poi di scegliere l’opera in cui cimentarmi. Scartai subito il Teseius e Phenissa, non osando misurarmi col ricordo, ancorché impreciso, di ciò che avevo udito recitare dalle labbra di Lia. Il Mago di Qom lo evitai per ragioni facilmente comprensibili. Altre trame erano troppo lunghe, altre ancora non eccitavano la mia fantasia.

Mi decisi alla fine per La schiava di Palaphon, storia di un amore infelice e di un mago: una combinazione che mi attirava per le affinità che immaginavo con le vicende di Lia. Una mago prevedibilmente crudele aveva rapito una fanciulla. Di lei si innamora un suo discepolo; il mago gliela concede, come dono per la sua fedeltà. Anche la fanciulla, forse, si innamora di lui. Ma quando scopre di attendere un figlio dal mago, preferisce darsi la morte.

Poiché la tragedia mi appariva eccessivamente cupa, decisi di introdurre qualche brano più leggero. Ispirandomi al burattino che avevo visto danzare per Lia, scrissi un intermezzo comico, in cui un buffone cerca di far sorridere la fanciulla.

Rileggendo il manoscritto dopo qualche tempo, scoprii che quella era la scena migliore (forse l’unica degna di essere salvata) della mia versione di Palaphon.

Suppongo avessi allora intuito, pur senza rendermene conto, che se il teatro deve essere uno specchio della vita, allora non può mai essere né del tutto tragico né del tutto comico.

Che non sarà forse un pensiero così originale, ma allora a me venne per la prima volta.

(12) LA FALENA LUNARE

Esitando, le giornate si fecero più lunghe. Qualche volta dalla pianura dell’Araq, il fiume che scorre parecchie leghe a occidente di Morraine, giungeva un vento che sibilava fra le fessure delle finestre, ma portava il profumo appena percettibile, e forse solo immaginato, della primavera.

– Quale maschera indosserai? – mi chiese Jues un pomeriggio, mentre sedevamo tutti e tre nella nostra soffitta, ascoltando il vento che si insinuava nelle feritoie per i colombi, insieme ai raggi obliqui di un sole arancione. La domanda era particolarmente seria. Quell'anno, per la prima volta, noi tre avremmo indossato le nostre vere maschere.

E io dissi: – Una falena lunare.

– Tutte le falene sono lunari – disse Lucibello. – Escono di notte.

– Una falena lunare è una falena che vive sulla Luna – precisai io.

– E come sarebbe fatta? – chiese Jues.

Qui ebbi qualche esitazione. – Non lo so bene, ancora.

– E come farai a saperlo? Andrai sulla Luna? – mi prese in giro Lucibello.

Non mi degnai di rispondere.

– Ma cosa significa? – chiese Jues.

Questa era la domanda più difficile.

Dovete sapere che a Morraine nel Mese-delle-Maschere si celebra la Festa delle Maschere.

In quasi tutti i paesi che ho conosciuto esiste una festa di questo tipo; alcuni sostengono che sia la più antica del mondo, poiché per quanto lontano si risalga nel tempo conosciuto, gli uomini hanno sempre amato indossare una maschera. Una maschera, per sua natura, serve a nascondere il volto. Ma noi, a Morraine, riteniamo che una maschera debba essere più vera del volto che copre. Come uno specchio magico, che svela la verità.

Ma poiché la verità, soprattutto su noi stessi, è insopportabile se affrontata quotidianamente, essere saggi è lecito solo una volta all’anno.

Tale, benché bizzarra, è la Festa della Maschere di Morraine.

Ma ciò non le impedisce di apparire a un qualsiasi viaggiatore che la osservi (e molti giungono appositamente anche da città abbastanza lontane in questa occasione) non molto diversa dai normali carnevali.

Perché dunque questa immaginaria falena lunare si era impossessata di me?

In primo luogo perché era immaginaria, in secondo perché era lunare, in terzo perché era una falena. Questo fu quanto spiegai ai miei due amici, che com’è ovvio non rimasero molto soddisfatti della risposta.

– Il fatto che sia immaginaria significa che stai inseguendo una chimera – suggerì Jues.

– Questo lo sapevamo anche prima – sbuffò Lucibello, prevedibilmente.

– Ma perché lunare?

– Perché è lunatico. Cioè matto!

 

– E la falena?

Lucibello batté le mani. – Perché vola solo di notte. Cioè nei sogni!

Io ero rimasto zitto.

Le spiegazioni dei miei due amici non erano prive di fondamento. Ma al contempo, non erano del tutto vere, o almeno così mi pareva. Quale fosse la verità, d’altra parte, sfuggiva anche a me.

Mi misi comunque al lavoro.

Alcuni si costruiscono le maschere interamente da soli. Pochi se le fanno fare su ordinazione da artigiani specializzati. Molti utilizzano quelle dell’anno prima, o quelle dei loro padri, o dei loro nonni, e così via per molte generazioni. Nessuno le affitta: la maschera, come ho detto, è un affare troppo personale. Si può mentire agli amici o ai parenti; non alla propria maschera.

Poi ci sono negozi che vendono una grande varietà di larve (come vengono chiamate): maschere molto semplici e stilizzate, che riproducono dei tipi fissi e tradizionali, di cui però ogni artigiano e ogni negoziante si vanta di possedere varianti uniche; queste sono a loro volta rielaborate ed arricchite da ciascun compratore, e vengono offerte ad ogni prezzo e in molti materiali: cartapesta, legno intagliato, strati di stoffa irrigidita da colle, gusci di madreperla cuciti, cuoio pressato, lamine di rame, d'oro perfino... eccetera. All’approssimarsi della Festa, lungo i portici di Morraine, file e file di larve guardano i passanti con orbite vuote.

Mancandomi l’abilità necessaria per fabbricare la mia maschera, i soldi per servirmi di un artigiano, e non avendo ereditato alcuna falena lunare, restava una sola alternativa.

Trovai dopo molte ricerche un corridoio che si dipartiva dal Cortile della Luna Piena (il nome mi parve propizio), abbastanza nascosto da avere prezzi più bassi di altri. La vetrina, nient’altro che una finestra in realtà, era interamente occupata dalle maschere: alcune di forma piuttosto insolita, e tutte accomunate da una qualità che non riuscii a definire subito; forse perché si tratta di un sentimento estraneo alla fanciullezza: la malinconia.

L’insegna di legno dipinto diceva:

Adropalus & Charios - Costumi teatrali

Uno dei due stava servendo un cliente, il secondo non era in vista, così ebbi modo di guardarmi intorno. Le maschere erano state disposte sopra la normale mercanzia del negozio, con effetti che apparivano, forse di proposito, grotteschi: c’era un guerriero con la faccia pallida di un fanciullo piangente, un astrologo con quella di un vecchio ubriaco; dall’abito della festa di una contadina spuntava una testa di insetto: ma era piuttosto uno scarafaggio che una falena.

– Che tipo di maschera cerchi?

– Ah... Qualcosa che assomigli a una falena...

Charios, o Adropalus, mi guardò attraverso due lenti rotonde, con la montatura d’oro.

– Le falene non vanno molto, quest’anno – disse, con tanta serietà che per un momento non capii se stesse scherzando o no.

– Deve solo assomigliare a una falena.

L’uomo sorrise. Aveva abbastanza rughe da sembrare anche lui una maschera, e il sorriso aveva l'effetto di ridefinire tutte le rughe del suo viso.

– Vediamo... – Accarezzò con le dita varie maschere appese, come se la loro natura gli si svelasse meglio al tatto che alla vista. Aveva dita lunghe e ossute, come il resto del suo corpo.

– Qui non c’è nessuna falena, temo... Ma vieni.

Una porticina, in fondo al negozio, era chiusa da una pesante tenda nera. Il vecchio dovette chinarsi per passare. Dietro la tenda c’era il suo laboratorio: un lungo bancone illuminato da qualche lampada appesa al soffitto, e da una finestrella che si apriva chissà dove. Sul bancone, una gran quantità di maschere in vari stadi di lavorazione; altre, appese ad asciugare, ci scrutavano come teste mozzate di fantasmi. Sulla parete opposta al bancone, file sovrapposte di costumi, appesi a delle grucce. Un garzone, che poteva avere un anno più di me, comprimeva strati di cartapesta ancora umida su forme di legno.

– Che dici, Beniz, abbiamo qualche falena? – Il ragazzo alzò gli occhi ma non disse niente. Evidentemente non ci si attendeva una risposta da lui.

Il padrone passò in rassegna le maschere sul soffitto. Poi prese una scala, e sparì quasi in mezzo ad esse, fra gli strati superiori già asciutti. Ne discese con una larva oblunga, grandi occhi sporgenti, la bocca simile ad un tozzo becco.

Me la porse.

– Questa è la Formica Saggia. – Le larve hanno tutte dei nomi tradizionali.

Presi la maschera, me la rigirai fra le mani. Poteva andar bene? La fissai negli occhi.

– Non costa molto. E ti posso dare questi...

L’uomo frugò in una scatola, sotto il bancone. Ritirò la mano e me la porse. Era piena di scintillanti pietruzze color smeraldo.

– Incollate sugli occhi fanno un grande effetto.

Ne presi una. Era di vetro, a facce irregolari. Alzai gli occhi. Anche il garzone mi stava guardando, come se la mia decisione rivestisse un qualche arcano significato. Del resto le maschere, a Morraine, sono una faccenda molto seria.

– Va bene.

Il proprietario versò le pietre in un pezzo di carta, lo ripiegò, appoggiò il pacchetto nel lato concavo della maschera.

Prima di uscire dal retrobottega mi fermai a guardare i costumi. Molti sembravano usati.

– Li affittiamo spesso – spiegò il negoziante, senza che gli avessi chiesto alcunché – alle compagnie di attori girovaghi. Ogni città ha dei personaggi favoriti, e non possono portarsi dietro tutti i costumi necessari.

Vidi degli alamari d’oro, e una giacca blu...

– Questo...?

– Guardia di corte.

Scostai i costumi vicini, per accertarmi.

Sì, era uguale.

– C’è anche più piccolo?

– Per te?

– No... Per una marionetta.

– Ah. – Il vecchio fece una pausa. Poi disse, a bassa voce: – Come quelle di Lelius?

Era la prima volta che sentivo qualcuno, a Morraine, pronunciare quel nome.

– Ho visto la sua rappresentazione, la primavera passata... – dissi.

Il vecchio parve sorpreso. Mi ricordai che non c’erano stati molti ragazzini, a parte noi tre, a quello spettacolo. Mi guardò comunque con maggiore rispetto. Forse immaginò che abitassi nel Cortile Segreto.

– Un teatrante di grande talento – disse.

– Non viene spesso a Morraine, vero?

– No. – Si sentì la campanella sulla porta del negozio. Il vecchio si mosse per uscire dal retrobottega.

Io lo seguii. – E dove...?

Le dita ossute scostarono la tenda nera. – Mah! Questi attori non sai mai dove siano. Ma Lelius, credo che preferisca le città della costa: Aspix, Brizern, Narina... Gyenna.

Lasciai che Adropalus (o Charios) servisse il suo cliente, tenendo fra le mani la mia maschera con l’involto di pietruzze smeraldo.

Il prezzo che mi fece fu molto contenuto.

Prima di andarmene dissi: – Grazie, signor...

– Lyian.

Alzai gli occhi, perplesso.

– Adropalus e Charios sono morti da un pezzo – mi spiegò Lyian.

(13) LA FESTA DELLE MASCHERE


La Festa quell’anno cadeva il tredicesimo giorno del Mese-delle-Maschere.

I bambini escono la mattina; i ragazzi si uniscono a loro nel pomeriggio; la sera, la festa raggiunge il suo culmine, con i giovani e gli adulti che esibiscono le maschere più fantastiche, sfarzose, enigmatiche. È proprio indossando la prima vera maschera che a Morraine si raggiunge la maturità.

Io trascorsi la mattina negli ultimi preparativi, che consistevano nel cucire le ali del costume. La maschera stessa era già pronta da qualche giorno. Dal Cortile del Nano giungevano risate di bambini, voci in falsetto, colpi secchi, brontolii cupi: per tradizione nel nostro cortile, la mattina della Festa, si teneva uno spettacolo di burattini. In mezzo ai bambini doveva esserci anche mia sorella.

E d’improvviso fui afferrato dalla tristezza.

Aprii la finestra, montai su una sedia. Dalla mia camera potevo vedere solo i tetti. Uscendo sulle tegole, cosa che avevo fatto molte volte, avrei potuto sbirciare nel cortile. Ma non mi mossi. Ascoltai le voci dei burattinai, riconobbi la storia. Dopo un po’ richiusi la finestra.

L’anno prima ero stato anch’io in mezzo a quei bambini. Niente ansie, niente misteri, niente desideri inappagati. Niente Lia.

Incredibilmente, sentii i miei occhi gonfiarsi di lacrime. Per la prima volta, guardavo la mia infanzia come una cosa che apparteneva al passato.

La falena, per parte sua, mi guardava con occhi smeraldo. Io la guardavo attraverso due fessure tagliate sotto gli occhi della maschera.

Mossi la testa e le antenne della falena ondeggiarono.

Lo specchio che avevo in camera era molto piccolo, e dovetti eseguire vari contorcimenti per esaminare la falena nella sua interezza. L’insetto mi imitava in una sorta di balletto. Le ali, un velo di organza steso su un’intelaiatura di canne, sbattevano in maniera convincente. Non sapevo quanto avrebbero resistito fra la folla del carnevale, ma ne ero molto orgoglioso.

Indossavo, come si addice ad una falena, una corta tunica di un colore marrone arsiccio, di panno spesso e consunto, ritrovata in qualche cassapanca. Ma sul petto avevo disegnato tre spirali concentriche, in rosso, giallo e azzurro.

Ma cosa significava? mi chiesi ancora una volta.

Se l’avevo creata dovevo saperlo. Semplicemente, non l’avevo ancora scoperto. Forse ci sarei riuscito prima di sera. Alcuni trascorrono una vita intera con la stessa maschera, senza mai riuscire a penetrarne il segreto. Altri cambiano maschera spesso, magari da un anno all'altro, alla ricerca del medesimo segreto.

Tornai ad aprire la finestra. Il cielo era coperto, ma le nuvole alte non minacciavano pioggia. Un gatto dal pelo striato e rossiccio ebbe un sobbalzo, sulle tegole. Poi qualche felina percezione lo convinse che ero solo io, e venne a strofinarsi contro la mia mano.

– Ciao, Tigre – dissi.

L’appuntamento era sotto l’orologio del Cortile Rosso, nell’ora in cui il folle con il martello batte due tocchi sulla campana. Perché, vi chiederete, è un matto a battere le ore? Forse perché tenere il conto di tutte le ore di tutti i giorni del tempo è un’operazione di suprema follia.

Comunque arrivai in anticipo, perché non c’erano né Jues né Lucibello. O meglio: non c’erano le loro maschere. Che quel giorno erano Jues e Lucibello.

Mi sedetti sul bordo di una delle panche di pietra ai piedi della torre dell’orologio, per non rovinare le mie ali, e osservai le maschere che mi passavano davanti. Vidi un liocorno e una salamandra, un giullare e un buffo anatroccolo. Forse dietro ciascuno di quei gusci di carta, o cuoio o metallo, c’era un viso noto. Poiché la Festa delle Maschere è innanzi tutto un mistero.

Da lontano vidi una forma nera che avanzava con passo lento e ondeggiante. Sopra il mantello che la copriva fino ai piedi, una maschera con un lungo becco di uccello, e un cappello a larghe tese.

Mi alzai. Quando la maschera dal mantello nero mi fu vicina, vidi che era molto più alta di me. I suoi passi producevano un rumore secco sul selciato di pietra.

– Lucibello? – mormorai a voce molto bassa. Durante la Festa delle Maschere è sconveniente pronunciare i nomi normali delle persone in maniera che altri possano sentirli.

La maschera chinò il becco verso di me. Doveva avere delle specie di trampoli per essere così alta.

– Gli ubu sono ghiotti di falene – disse.

Forse non ci crederete, ma quella frase mi gelò il sangue. Poiché durante la Festa sono le maschere a guidare le persone.

L’arrivo di Jues mi salvò dall’imbarazzo. Era vestito da Pagliaccio Assorto: una maschera bianca, dalla bocca un po’ triste, gli occhi che guardavano in basso, un sobrio costume bianco e nero.

Ci osservammo a vicenda. Come succede fra amici molto stretti, ci eravamo svelati in anticipo la natura delle nostre maschere, ma non le avevamo mai viste.

 

– Perché i colori? – mi chiese Lucibello. – Le falene sono grigie, o marroni.

– Non sulla Luna – dissi. – Sulla Luna tutto è al contrario. Le falene sono grandi e colorate. E mangiano gli ubu.

L’uccello mi colpì col becco sulla spalla.

– Ma qui siamo sulla Terra!

– No – dissi io. – Siamo alla Festa delle Maschere di Morraine.

E per la prima volta da che mi ricordassi, Lucibello non ebbe nulla da replicare.

Iniziammo così ad aggirarci fra cortili e corridoi.

È impossibile descrivere la Festa delle Maschere a chi non l’abbia mai vista. O meglio, diciamo che io non ne sono capace. Basti sapere questo: ogni cortile dei 240 che compongono la città offre uno spettacolo proprio, allestito a cura dei suoi abitanti. Duecentoquaranta spettacoli in un solo giorno! Nessuno potrebbe vederli tutti. E dunque, ciascun maschera non può che seguire il proprio istinto.

Ciò significa che ben presto, io, Jues e Lucibello ci separammo.

Ma la Festa delle Maschere non solo separa, unisce. Sì, perché una medesima maschera incontrata in più cortili allude ad una segreta affinità. Tanto più che una sola cosa, per inflessibile convenzione, le maschere non osano nascondere: il sesso di chi le indossa. Si dice perciò che la maggior parte dei fidanzamenti, a Morraine, avvengano durante la Festa delle Maschere. Come la maggior parte delle separazioni.

Jues lo lasciammo nel Cortile dell’Ombra, preso da uno spettacolo di mimi dai gesti lenti e misurati, il cui significato sfuggiva alla comprensione mia e di Lucibello, ma evidentemente non a quella del Pagliaccio Assorto.

Procedendo, io e l’ubu scambiammo occhiate con altre maschere, cercando qualche segno... Di cosa, neppure noi sapevamo. Alcuni, nella folla, erano privi di maschera: si trattava invariabilmente di stranieri, poiché è considerata una grave sconvenienza per un abitante di Morraine uscire a volto scoperto in questa occasione. Ma anche molti di coloro che indossavano qualche costume erano stranieri; facilmente riconoscibili, tuttavia, dalla grossolana banalità delle loro scelte, che non sfuggiva neppure a noi ragazzini, benché, temo, sia quasi impossibile da spiegare a chi non è nato e cresciuto nella mia città.

Giungemmo nel Cortile Dorato, che è uno dei più grandi e ornati della città. Qui si esibiva una compagnia venuta da fuori, come capita nei cortili ricchi, dove gli abitanti raccolgono somme a volte ingenti per ingaggiare attori famosi. Segretamente speravo di trovare... ma è inutile che ve lo dica.

Su un palcoscenico illuminato da lampade colorate, benché fosse ancora giorno, personaggi in abiti di seta, rasi e velluti di gran pregio, con ornamenti che sembravano, a chi li guardava dalla platea, di autentico oro e pietre preziose, eseguivano complicate evoluzioni, lanciando di tanto in tanto grida modulate, in cui con qualche fatica riconobbi delle parole, accompagnate da una musica stridente.

Dopo poco, entrò in scena un eremita, la lunga barba bianca, l’abito grigio cenere a brandelli, e misteriosamente, forse proprio per la sua incongruenza, o forse per l’abilità dell’attore, attirò su di sé tutta l’attenzione. L’eremita diede inizio ad un lungo sermone religioso, a cui gli altri personaggi reagirono in varie maniere, a seconda delle loro indoli: scherno, noia, ozioso interesse, fastidio; solo la Principessa, una eterea creatura quasi interamente ricoperta di gioielli, parve commossa e turbata.

Con mia grande sorpresa, Lucibello decise di fermarsi. Per conto mio, ero in preda ad una confusa irrequietezza. Mi allontanai silenziosamente, e voltandomi vidi l’ubu proteso con il lungo becco giallo verso l’eremita, la nera figura che sovrastava di una testa gli altri spettatori.

Trovai, in successione: saltimbanchi che costruivano piramidi umane; un giullare che narrava un cantare cavalleresco aiutandosi con pannelli dipinti e percussioni di vario genere; un cortile semivuoto, mentre gli artisti si riposavano fra un numero e l’altro; dei trapezisti su una corda tesa fra i tetti; nella Piazza dei Miracoli (in cui non avevo più messo piede dall’estate), un corsa di cavalli montati da cavallerizze scarsamente vestite, che avevano come mete le due fontane; una pantomima di orsi ammaestrati. E altri. Le maschere che incontrai erano troppo varie per essere descritte: ci vorrebbe tutta la sera. Notai comunque che la falena lunare suscitava un certo interesse, soprattutto fra maschere ugualmente notturne, che erano poi quelle da cui lei stessa era attratta.

Giunsi infine nel Cortile della Luna Piena.

La sera era già calata su un cielo screziato di viola e di rosso, mentre gli adulti, con le maschere più ricche, avevano cominciato ad uscire.

Lo spettacolo non era ancora iniziato, forse in attesa del buio completo. Su un lato del cortile si alzava un semplice telone bianco, che nascondeva quasi interamente le facciate delle case.

Mi fermai incuriosito, notando la presenza di molte maschere notturne, come del resto si addiceva al luogo.

Poi il telone si illuminò. L’ombra di un drago alato si stagliò su di esso. Vidi che la luce giungeva da dietro il telone. Dalla coda del drago nacque un fiore, da cui crebbe un muso di tigre, poi un volto di fanciulla, poi...

Mi addentrai fra il pubblico. Nel frattempo era iniziata una musica lenta, ma con esplosioni improvvise di cembali, piatti e campane. Terminata la virtuosistica introduzione, destinata ad attirare gli spettatori, iniziò la rappresentazione vera e propria. Quale fosse esattamente la storia, non saprei dire: c’erano solo la musica e le ombre, e forse le ombre erano solo un commento alla musica. O meglio: era un teatro che aspirava a diventare pura immagine, privandosi delle voci e dei corpi. Riconobbi comunque gli indizi di una favola mitologica, in cui un giovane eroe cerca di conquistare l’amore della sacerdotessa di una gelida divinità lunare.

Ma seppi, fin dal primo momento, che era quanto andavo cercando, nella mi identità di Falena Lunare.

Ci fu un’altro evento, in verità, che mi impedì di seguire con attenzione la storia. Fra la folla, scorsi una maschera che sembrava guardarmi: si trovava esattamente di fronte a me, e dunque doveva voltare le spalle alla scena; era metà bianca e metà nera, gli occhi due buchi scuri e insondabili, la bocca leggermente aperta.

Mi pareva di averla già vista, ma non riuscivo a ricordare dove.