Max Leitner

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L’IMPIEGO DEGLI ELICOTTERI

Notizie flash e previsioni meteo: a Merano è stata rapinata una banca e il tempo resterà bello. Max apre l’armadio in camera da letto. All’altezza degli occhi c’è una pila di magliette alta come una torre. Estrae una T-shirt rossa di Ralph Lauren, la pila viene giù e una catasta di biancheria cade per terra come la frutta troppo matura in autunno. Serve qualcosa di nuovo, magari una cabina armadio. Max si piega sulle ginocchia, tira fuori una pila di vestiti dal mucchio, sceglie un paio di pantaloncini beige e getta gli altri sul letto. Niente calze, si metterà i sandali. Le calze nei sandali fanno un’impressione strana. Da bidello. Il custode della scuola tecnica commerciale indossava calze di filo grigie con i sandali. Le tirava su fino ai polpacci secchi e subito dopo non c’era niente, solo le ginocchia nude e sopra il grembiule da lavoro grigio con le tasche sformate, erano sempre sformate. Il custode non ci metteva dentro le mani e non tirava fuori niente, come se nelle tasche ci abitasse qualche topo.

Katharina è in bagno, di fronte allo specchio. Lui la spinge fuori, si lava i denti e si fa la barba.

Notburga sta scarabocchiando su una pagina del “Dolomiten”. “Questi qui con le loro abbreviazioni! Cosa ne so io di come si abbrevia Oberstudienrat?” Max si china sul giornale: “OST, mi sembra”.

Il nuovo televisore, certo. Devono consegnarlo. È già stato ordinato e arriverà presto. Notburga prende la tavoletta, poi spiega un foglio di carta bianco, ci mette sopra la tavoletta, infila la matita nel foro, chiude gli occhi e prende le mani di Max. La tavoletta scrive: “Brutta aria. La lite finirà male”. Non dice nient’altro, come se fosse offesa. La tavoletta lo sa: Fausto e Franco litigano parecchio. Sono giorni che Franco non fa che rimproverare Fausto e lui ieri è saltato in piedi con il pugno serrato, Max ha dovuto mettersi tra i due. Si tratta di qualche femmina? Max non lo sa e non vuole saperlo, ma bisogna stare tranquilli. Proprio adesso!

Ha chiamato Luigi, era ora. Si incontrano al distributore di benzina poco prima di Bolzano. Luigi parcheggia la Fiat accanto all’autolavaggio e sale sulla Range Rover.

Confine con l’Austria. Il doganiere italiano fa un giro intorno alla macchina. Una vera Range Rover! Max abbassa il finestrino, gli allunga i passaporti. Ma il doganiere non li guarda nemmeno, infila la testa nell’auto, ammira il cruscotto, chiede del numero di cavalli e della cilindrata e se Max con la Rover va nei boschi. Lui si è fatto il deserto algerino con una Lada Taiga. Nessun problema sulla sabbia, ne sono venuti fuori dappertutto. Là non ci sono strade, solo piste, percorsi di sabbia dalla lunghezza infinita dove si può restare bloccati. E in mezzo al Sahara una donna beduina gli ha regalato una mela. Luigi tira fuori un pacchetto di Marlboro dal taschino della camicia azzurra di Pierre Cardin. Max gira la chiave dell’accensione, l’Adamo del deserto continua a sproloquiare sulla sua Eva beduina e sulla sua preziosa mela. Luigi si accende la sigaretta, soffia il fumo attraverso il finestrino aperto. Dietro la Rover si è formata la fila, i guidatori suonano il clacson. Max mette in moto l’auto, si avvia lentamente al controllo passaporti austriaco, il doganiere gli fa un cenno.

Luigi impreca contro il caldo, dopotutto sono in Austria e in mezzo alle montagne, dovrebbe fare più fresco. Max posiziona l’aria condizionata su freddo glaciale. Si fermano a un autogrill e Luigi compra due bottigliette di Coca Cola. La cassiera non accetta le lire, Luigi tira fuori dal portafoglio imprecando una banconota da cento scellini. La cassiera gli restituisce soldi austriaci. Tra poco ne avranno molti di più.

Luigi si mette la seconda bottiglietta di Coca Cola sulla fronte e sulle guance e la fa rotolare su e giù. L’aria condizionata soffia il suo respiro gelido dentro la Rover. Ecco finalmente l’uscita Innsbruck Süd. Escono, ci sono poche auto sul raccordo autostradale. Max esamina attentamente le zone circostanti. A sinistra c’è una strada stretta difficile da notare, è piuttosto una strada forestale. Max guida l’auto su per la stradina addentrandosi per un po’ nel bosco. Sta cercando un posto riparato, trova una zona ghiaiosa. Ecco, qui possono parcheggiare l’auto. Scendono e si addentrano ancora più nel bosco, sulla collina da cui si riescono a vedere bene l’autostrada vicina e lo svincolo. Luigi indica in basso, da lì – muove il braccio e la mano a destra – arriverà il furgone carico di scellini da depositare a Innsbruck. Ci saranno dentro due uomini. Si saranno dati il cambio alla guida durante il viaggio, ma saranno comunque stanchi. Stanchi per il viaggio faticoso sulle autostrade italiane, da Bologna, dove le strade sono sempre intasate, in direzione nord. Attraversare l’Alto Adige a Ferragosto è un inferno.

Fa molto caldo già di mattina. Max infila tutte le cartucce nel taschino, indossa il berretto e sale su una Renault rossa. La Rover rimane nel bosco vicino a Innsbruck. Se i conducenti del furgone dovessero fare resistenza e si dovesse arrivare a un conflitto a fuoco, allora via sui sentieri impervi e pieni di sassi: con le loro vecchie carrette della polizia nel sottobosco non lo troveranno mai.

Max guida fino al punto di incontro. Franco è appoggiato alla portiera del guidatore. L’altra auto è un Mitsubishi Pajero grigio scuro. Franco getta il mozzicone della sigaretta sulla banchina e resta in piedi a braccia conserte. Max gli chiede perché non sale. Franco gira la testa verso il finestrino, Fausto tiene lo sguardo fisso davanti a sé con aria rabbiosa. Un’altra lite! Max apostrofa Franco: sali! Franco apre la porta del guidatore e sale in auto. L’aria è carica di elettricità, la rabbia diventa opprimente come una cappa di piombo.

Max ha bevuto un caffè e un bicchiere d’acqua. Con questo caldo deve bere molto per tenere la mente lucida. Non lo dice ai ragazzi se no si scolano una birra già di primo mattino – anche quella tiene la mente lucida. Sono nervosi, dicono. Max proibisce le bevute, niente alcol prima di aver sbrigato il lavoro. C’è un tempo per il dovere e uno per il piacere.

Max va avanti. Oggi c’è tutta Italia per strada, come se dovessero fare provviste per l’inverno o per una guerra mondiale. Vorrebbe suonare il clacson, spazzare via tutti dalla strada. Ma si costringe a stare calmo, niente liti. La tavoletta l’ha predetto, ne deriverebbero solo seccature.

“Vi uccideranno”, ha detto Notburga. Max non ha risposto, non ha detto niente, neppure ai ragazzi. Loro non gli credono. Sono testardi, sono dei bulletti pieni di foga e alla fine quel che vogliono è contare i soldi. “Non li conteremo”, dice Max, “li peseremo.”

Oltreconfine il sole del tramonto posa i suoi raggi benevoli sull’autostrada austriaca deserta fiancheggiata da verdi boschi di conifere, abeti rossi e bianchi. A sinistra compare un lago, Max guarda fuori. Sarebbe bello scendere, togliersi i vestiti, tuffarsi, fare qualche energica bracciata, proseguire il viaggio rinfrescati. Ma non c’è tempo per il refrigerio. Tasta tra i piedi, apre la borsa sportiva, tira fuori dell’acqua minerale, apre la bottiglia con i denti, si versa un po’ d’acqua sulla testa e beve il resto. Bere molto per tenere la mente lucida.

Poi getta la bottiglia vuota dietro, la sente cadere sul sedile e rotolare giù, vede nello specchietto che il Pajero è due auto dietro di lui.

Vanno ancora avanti, finalmente compare un cartello: area di sosta di Nößlach a 2000 metri. Il Pajero ha recuperato terreno, c’è Franco alla guida. Max indica l’uscita. Si fermano, bevono, si sgranchiscono le gambe, pisciano dietro i cessi perché dentro c’è troppa puzza. Max vuole impartire le ultime istruzioni, ma i ragazzi gli danno un’occhiataccia e lui ammutolisce.

Avanti verso nord. Di fianco all’autostrada scorre un torrentello. Max ha studiato bene la mappa, si tratta del Grüblbach. Ora sta pensando: a come andrà, se lasciare aperta la palestra, se è meglio comprarsi una Porsche o una BMW 850. Vedremo. Dopo la rapina tenere la palla a terra fino a quando i custodi della legge andranno a custodire da qualche altra parte e a fare in modo che le brave persone non siano disturbate. Max guarda l’orologio, sono le 19. Ancora una mezz’ora. Costringeranno il furgone portavalori a fermarsi, trasborderanno i sacchi pieni di denaro, saliranno sulle macchine e taglieranno la corda. Dietro il Brennero le abbandoneranno, saliranno sui piccoli bolidi che hanno parcheggiato là e torneranno indietro. Bisognerà ascoltare la radio, guardare la televisione e controllare i messaggi sulle radiotrasmittenti. Cosa sanno i carabinieri? Ne sanno troppo? Allora piano B: proseguire verso sud, nascondersi a Vicenza, Padova o Venezia e aspettare fino a quando le acque non si saranno calmate.

Ma non ci sarà un piano B.

Max ha quasi superato l’uscita sud dell’autostrada e fa onore alla corsia di decelerazione: da centosessanta a ottanta all’ora in tre secondi. Il Pajero è incollato dietro di lui. Escono, proprio lì davanti c’è la stradina sterrata. Si dirigono veloci ai posti convenuti. Il Pajero è fermo più avanti verso sud. Quando arriverà il furgone, il Pajero lo bloccherà da davanti e la Rover da dietro, bisognerà calzare le maschere e correre fuori. Se i conducenti non dovessero arrendersi subito spareranno dei colpi di avvertimento alle ruote e poi gli punteranno contro le pistole. In ogni caso bisognerà sparare contro le ruote fino a distruggerle e sequestrare tutte le ricetrasmittenti, portare via qualsiasi apparecchio con cui i due tizi possano chiamare aiuto. Max afferra il walkie-talkie: “Sono le 19.35. Il furgone arriva da destra, a ore tre. L’informatore dice che sarà qui alle 19.50. Passo”. “Capito. Passo”, risponde Franco.

 

Subito dopo l’assalto il sole tramonterà. Proseguono a luci spente. Non sull’autostrada, perché li cercheranno proprio lì. Scivoleranno sulla statale del Brennero che corre parallela. Invisibili sulla strada deserta, come dei fantasmi.

Ore 19.48. Max contatta l’informatore via radio. Dov’è il furgone? Arriva, abbiate pazienza, sarà qui presto. Improvvisamente si sente un frastuono, un’auto si dirige a tutta velocità verso Max, la luce dei fari è accecante. Non è il furgone portavalori. Sulla sua testa volteggia minaccioso un elicottero. L’auto inchioda, si sentono degli spari. Saltano giù degli uomini in tuta mimetica, sono armati. Sono militari, no, poliziotti. L’elicottero volteggia sopra il tetto dell’auto e spara. Max non lascia cadere il mitra. La Range Rover è circondata da BMW blindate, saranno tre o quattro. I proiettili la crivellano, sfondano la portiera del guidatore, gli passano di fianco fischiando ed escono dall’altra parte. I poliziotti urlano: “Giù le armi, arrendetevi, immediatamente!”. Pallottole nel ginocchio, nel bacino, nella coscia. Max vede il sangue che continua a scorrere, ha caldo, sempre più caldo. La gamba… è persa. I colpi continuano a esplodere vicino all’orecchio, i finestrini sono scoppiati. La vista gli si annebbia, ha le vertigini. Non deve svenire, non adesso. Alzarsi, fuori, a terra! Max apre la portiera del guidatore e si lascia scivolare per terra, non riesce a camminare né a strisciare, non riesce neppure a muoversi. I proiettili cadono a pochi centimetri, a pochi millimetri, colpito. Un colpo alla mano. Un colpo vicino all’orecchio. Un frastuono incredibile. Il sangue di Max si riversa per terra, la inzuppa.

Prima di morire, si dice, ci passa davanti tutta la nostra vita.

IL VALZER DELLA BIONDINA

Andare alla scuola elementare di lingua italiana fu solo un breve sollievo prima che i miei genitori mi comunicassero una nuova, funesta notizia. Le persone sfortunate imparano presto a leggere i volti di coloro che popolano il loro mondo. Cattive notizie come “Andiamo a trovare tuo cugino Stefano, fa’ il bravo con lui!” sono date con un’aria seria. Le sopracciglia si aggrottavano, le guance tremavano, la pelle diventava rossa fino alla radice dei capelli: voleva dire arresti domiciliari o divieto di vedere la televisione. In questo caso, però, mentre mi toglieva la terra da sotto i piedi mia madre aveva un’aria raggiante. Raggiante come se stesse per dirmi che potevo andare a vedere la finale di Coppa dei campioni o che Pelé mi aveva invitato in Brasile. Non presagivo niente. E non volevo crederci, mi sembrava uno scherzo, una storiella. Invece non era così: la mamma era incinta, non ero più l’Unico.

In quell’istante finì la mia infanzia. Da allora mia madre non si sedette più con me a fare i compiti, non mi mise più a letto, non mi lesse più niente ad alta voce. E da allora sentii quella frase, la frase che ho giurato di non dire mai ai miei figli: “Quando avevo la tua età…”. Sì, papà, quando avevi la mia età hai sgobbato sui libri perché questo ti dava gioia. Perché eri contento quando vivevi tra i libri e non tra le persone. Ma io, papà, volevo stare fuori a giocare a calcio, leggere i fumetti e guardare i cartoni animati in tv. Io, da solo.

Dopo un anno e mezzo arrivò un altro marmocchio. Violetta. Mio fratello non sperimentò mai l’orrore di trovarsi accanto un fratello senza volerlo. Lui era felice, era uguale a papà. Paolo sapeva leggere già prima di andare a scuola. Era contento di andarci, alla fin fine in lui inclinazione e dovere si sposavano alla perfezione. Ma Violetta era la più felice perché poteva fare quello che voleva. Quando studiava i miei genitori erano orgogliosi, quando non studiava la trovavano dolce, estrosa e affascinante.

Quello che non viveva affatto una vita idilliaca ero io. Trascorsero anni densi e oscuri come la pece, su cui da lontano sventolava la bandiera a scacchi del traguardo con un numero: sedici. Sedici anni e un motorino. Tutti erano sollevati quando lo ero io. Il goffo sbattere delle mie membra troppo lunghe in un ambiente che mi sembrava ostile, la svogliatezza, la scontrosità, il sentirmi diverso, la rabbia che provavo avevano un nome: pubertà. Che aveva appunto i suoi difetti: membra troppo lunghe, svogliatezza, rabbia. Invidiavo i ragazzi che studiavano in collegio, perché su di loro la melassa della famiglia si riversava solo nel fine settimana.

Andammo in auto fino a Lasa, dove c’è un acquedotto. Pardon, un impressionante acquedotto. Papà favoleggiò di antiche tecniche idrauliche, ci spiegò che gli Etruschi, che se ne intendevano parecchio, a Roma avevano costruito la Cloaca Maxima. Paolo lo ascoltava attentamente, mentre accanto a loro due io ciondolavo. A mio padre non piaceva la mia faccia, e neppure a me piaceva. Avrei voluto assomigliare a Charles Bronson, e invece ero quello che in Alto Adige si definisce un Milchgesicht, uno sbarbatello.

“Perché hai quell’aria?”, mi chiese mio padre. “Non ti interessa proprio niente?”

No, niente. Ero fatto così. Cosa sarebbe potuto venire fuori da uno del genere? La cattiva strada mi si spalancava inevitabilmente davanti, così come un canale della Cloaca Maxima finiva nel successivo.

Uno strumento largamente sottovalutato nella prevenzione dei crimini sono le camminate della domenica. Invece di lasciarmi a casa, come quando andavo ancora alle elementari, mio padre aveva ricominciato a portarmi con sé.

Il giorno 20 andai in montagna, ora però vestito in modo civile. In auto papà osservò che avrei dovuto essere contento. Contento, e perché? Perché non saremmo andati da soli. Ci accompagnava un suo paziente, il direttore del club alpino di lingua tedesca. Anche mio padre era socio del club alpino, quello italiano ovviamente. Dovevamo incontrarci con una specie di Almöhi, il nonno di Heidi, che avrebbe portato con sé sua figlia. L’avevo sognata: ciabattavo su e giù per i Monti pallidi con una Heidi smorta e saccente, dalle guance incavate e dal petto completamente piatto.

Invece non era affatto smorta e non aveva le guance incavate: era bionda e somigliava a Grace Kelly. Anzi, era ancora più bella, molto di più. Ed era interessata a me più o meno quanto io mi appassionavo alla Cloaca Maxima. Il sentiero saliva, diventò persino ripido, e io avevo il batticuore. Arrivati in cima mio padre mi diede una pacca sulle spalle e farneticò qualcosa sul panorama e sulla vista limpida. Mangiammo i nostri panini e le nostre mele. O meglio: gli altri mangiarono i panini e le mele, perché io non avevo appetito.

Grace Kelly – chi l’avrebbe mai detto – era una specie di camoscio. Si arrampicava sui detriti e sulle pietre con una tale abilità da farmi venire le vertigini. A me sembrava che la notte prima i miei arti fossero cresciuti in maniera incontrollata. Così mentre i tre assi del club alpino scendevano rilassati e tenendo un buon ritmo io restavo indietro inciampando nelle mie zampe da capra di montagna dalla lunghezza spropositata, e quando arrivammo al parcheggio ero triste. Avevamo scambiato in tutto cinque frasi: io quattro, lei una.

I giorni successivi trascorsero in qualche modo. Mi mangiavo le unghie e ogni tre metri inciampavo dieci volte nei miei stessi piedi. Se fossi rimasto alla scuola elementare tedesca ormai avrei padroneggiato perfettamente la lingua.

Nel fine settimana un’altra escursione. E un’altra ancora in quello successivo. La questione era sempre se con o senza di lei. Io andavo anche se lei non c’era, per tenermi in allenamento. Imparai ad arrampicare oltre a qualche nozione di geografia, orientamento o biologia. Dopo qualche settimana riconoscevo la soldanella ancora prima che papà infilasse l’indice nel suo tenero calice violetto. Scoprii che i licheni non sono muschi che vivono in verticale ma una simbiosi tra un fungo e un’alga, che credevo vivesse solo in mare.

Furono giorni, settimane, mesi di equivoci chiariti e non chiariti. Lei aveva quattordici anni, io da poco sedici. Avevo bisogno di un motorino, più di qualsiasi altra cosa al mondo. Funziona così: le ragazzine di quattordici anni di sera hanno il permesso di andare solo dalle amiche, di cui in genere abbondano. Arrivate là qualcuno passa a prenderle per andare insieme a fare cose proibite. Preferibilmente con un’auto. O almeno con un motorino. Un landò, un aereo da turismo o un dirigibile andavano ugualmente bene. Anita era esperta, erano già venuti a prenderla due tizi in motorino.

L’anno scolastico volgeva al termine. In geografia, tedesco e biologia ero tra i più bravi e se non avessi raggiunto a malapena la sufficienza almeno in italiano e fisica sarei passato per un vero secchione. Il che non mi giovava di certo. A fine maggio mia madre mi chiese cosa desiderassi per il mio compleanno. Un motorino, che altro? Mia madre disse di no. La sua risposta mi rimbombò nelle orecchie. Perché no? Lei dipinse quadri raccapriccianti di traumi al cervello che certi ragazzi si erano procurati subendo incidenti gravi, di stati vegetativi e di paraplegici. Io non credetti a una sola parola.

I miei genitori: capitalisti, medici che guidavano un’Alfa Romeo, proprietari di una casa, e non mi concedevano neppure un motorino. La mamma bussò alla porta, disse che doveva parlarmi. Io restai nella mia stanza, almeno per il momento. Ci sono persone che sanno come si fa ad avere un motorino, e volevo essere anch’io uno di loro.

LA VITA

L’intera sua vita gli passa accanto. Passa accanto a Max e va lontano da lui, verso qualcun altro. Non starà nascendo un bambino in questo momento? L’anima di Max non volerà proprio verso questa nuova creatura? Non volerà dentro di lui? Non attecchirà in lui? E non ricomincerà tutto da capo in qualche altro luogo? Da zero, completamente? E dove sarà, in Indocina o in Africa, in Canada o in Australia? Speriamo in un posto in cui fa caldo, pensa Max, perché ora ha freddo. Ha un freddo così terribile che è convinto che non si riscalderà mai più. I proiettili piovono da tutte le direzioni. E la vita gli passa accanto. Non si ricorda della sua nascita, e quasi nulla dei primi anni. Era l’inizio degli anni Sessanta, al maso. Una casa grande con una stalla, e dietro i prati e vicino il bosco. Nella stalla c’era il bestiame, a sinistra i campi di mais.

Poi era avvenuto il grande incendio. Era notte, e tutta la casa era andata a fuoco. Era bruciato tutto tra fiamme altissime. Sua madre era corsa fuori dalla casa con i bambini e suo padre aveva creduto di poter ancora salvare gli animali. Ma sua madre era corsa da lui e gli aveva urlato: il Poldi è ancora dentro. Allora suo padre era uscito a rotta di collo dalla stalla, tanto che aveva quasi fatto cadere la mamma, era corso verso la casa ed era saltato su uno dei travetti del tetto, che si era appena schiantato in fiamme davanti alla porta. Poi era entrato, ed era tornato fuori con il piccolo. Dio sia lodato, aveva detto sua madre, e aveva pianto tutta la notte e poi ancora le notti, i giorni e le settimane successivi. Suo padre aveva parlato con quelli dell’assicurazione ma senza riuscire a ottenere niente. Era sottoassicurato, gli aveva spiegato il tizio, e suo padre aveva detto che le assicurazioni sono una massa di imbroglioni.

E poi si erano trasferiti in un piccolo appartamento. Questo Max se lo ricorda bene. Era buio e lui aveva molto freddo perché il suo letto era umido. Era sempre umido, sia d’estate che d’inverno, perché accendevano il riscaldamento con parsimonia. Suo padre diceva che faceva bene ai bambini, li induriva. E così era diventato anche lui. Duro. Non sorprende affatto che qualcuno diventi duro perché è stato sottoposto a un trattamento del genere. Lo diceva anche la maestra, che Max era troppo duro. Troppo duro, diceva, era ostinato e irriducibile. Non lo piegava nessuno. Così non andava bene. Avevano cercato lo stesso di piegarlo, e allora non era più andato a scuola. La maestra non sapeva più come aiutarlo, tanto era ostinato. E allora l’avevano spedito a Cesenatico. Dare in affido un ragazzino di neppure dieci anni, e mandarlo così lontano da casa. La scuola era così dura che Max riusciva a malapena a tenere il passo con i compiti. E il collegio non era meglio. Non mangiavi la pastasciutta? In punizione. Non ti svegliavi al mattino? In punizione. Giocando a pallone finivi coinvolto in una rissa? Una settimana in punizione. Così aveva tagliato la corda, insieme a quel ragazzo di Bolzano: erano scappati via dalla città con l’intenzione di tornare a casa in corriera. Ma erano stati scoperti da suor Chiara alla fermata dell’autobus e lei li aveva riportati indietro. Max aveva pianto ma non era venuto nessuno a consolarlo, così lontano da casa. Ottimo, aveva detto suo padre, così il ragazzo diventa indipendente. E lui lo è diventato. Completamente indipendente. E molto duro. Perché anche restare solo lontano da casa è un modo per indurirsi.

 

Al suo ritorno era diventato un altro. Oddio, non proprio un altro, ma un fallito. Aveva compreso che alle persone non si può dire tutto. Che ci si deve tenere dentro molte cose e ce la si deve sbrigare da soli. Che si può fare affidamento su poche persone, anzi su pochissime. Forse ora dovrebbe ridere quando ci pensa, perché si è fidato di nuovo di qualcuno di cui non poteva fidarsi. Ma non ride. Il sangue scorre, la vita se ne va, esce da Max e sprofonda nel terreno. E là si disperderà.

L’istituto tecnico commerciale. Chi aveva avuto l’idea di ficcare Max proprio in una scuola commerciale? Forse la maestra della scuola elementare? Aveva messo lei la pulce nell’orecchio a sua madre che Max un giorno sarebbe potuto diventare un impiegato? Un contabile con le mezze maniche che si porta il caffè da casa nel thermos insieme al panino con lo speck? Al terzo anno aveva lasciato la scuola.

E poi il primo crimine. Allora conosceva già Franco. Si erano ficcati dei collant in testa ed erano entrati in banca correndo, con in mano delle armi giocattolo. L’impiegata della banca, che nella giornata mondiale del risparmio distribuiva salvadanai e il gioco in scatola “Non t’arrabbiare”, si era spaventata, tremava come una foglia dalla gran paura ed era bianca come un cencio. Max aveva spinto la borsa sul tavolo e l’impiegato l’aveva riempita, poi erano scappati. Un colpo da ragazzotti stupidi. Ma improvvisamente avevano dei soldi. Soldi da spendere in discoteca e per le ragazze. Max si era comprato la sua prima auto, una Golf quasi nuova.

La vita gli passa oltre. Max non riesce a muovere la mano, è rimasta incastrata nel mitra. Non c’è aria, ha le vertigini. Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te, tu sei benedetta fra le – Franco si è arreso – donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte.

Anche Fausto si è arreso. E allora perché continuano a sparargli addosso?

Era già qualcosa, all’epoca. Così tanti soldi in una botta sola, così facilmente e senza nessuna fatica. E la vita era qualcosa, era una festa perenne. Tutto era una festa, una festa allegra dove si beveva e si rideva ad alta voce. A voce alta, molto alta. E per tutto il resto della vita Max non sentirà più nulla, solo questo sibilo dei proiettili. È l’ultima cosa che vede e che sente. Non ha più aria, non riesce a respirare. Gli hanno perforato un polmone. Ha della terra in bocca. O è sangue, ha un sapore schifoso, sembra aceto. Sente un dolore alla mano, è come un chiodo. Max non può fare a meno di sputare, di tossire, poi cala il buio, diventa tutto nero. È finita, è andata.

Per l’eternità, amen.