Il Bargello

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"Non sono briganti!" gridò un vecchio. "Sono demoni!"

"Io ne ho ucciso uno con la mia spada" gli ricordò. "Come demone non era un gran che".

Accompagnò le sue parole con dei colpetti sull'impugnatura della spada.

Anche la cotta di maglia che gli ricopriva il braccio tintinnò. Voleva dimostrare loro che per quanto potessero sembrare terribili, gli albari non erano diversi da qualunque altro uomo. Tutti morivano.

"Voi siete un guerriero, noi lavoriamo la terra" disse Sancho. Il bargello si concesse un mezzo sorriso. Il Nero coltivava la terra ma non era la sua terra. Da anni ormai quei campi erano di proprietà del bargello. Sottratti al padre del Nero, condannato per omicidio. Forse Jimeno sarebbe riuscito a sfruttare quel fatto per mettere fine a quella discussione spiacevole. "Non abbiamo la vostra abilità nel combattimento e se affrontassimo uno di loro le conseguenze sarebbero molto peggiori di questi lividi".

Il Nero indicò il collo di Jimeno. Con quel dito ossuto di chi non mangiava, né tanto né poco. Sancho era costretto a fare una quantità di mestieri per riuscire a ricavarne qualcosa. Quando non preparava il carbone coltivava terre altrui, in cambio di un pugno di fagioli; rammendava calzature in cambio di un paio di cespi di lattuga, se era fortunato; faceva qualunque cosa gli impedisse di morire di fame. Erano anni che il suo corpo non era che pelle e ossa, eppure era ancora tra i vivi per dare fastidio a Jimeno, costretto a fare i conti con la sua imbarazzante presenza.

Alcuni dei compaesani si stavano convincendo che combattere fosse inutile. Jimeno sbuffò per la disperazione. Malgrado fosse evidente che erano minacciati, molti si rifiutavano di vedere che il pericolo era reale e che prima o poi avrebbero dovuto farvi fronte. Volenti o nolenti.

"Noi non siamo guerrieri" dicevano.

"Possiedono spade e cavalli".

"Moriremo".

Jimeno colpì il tavolo con tale forza che temette si potesse spezzare sotto i suoi piedi. Tutte quelle chiacchiere gli stavano facendo bollire il sangue più del calore umano che quegli animali spaventati sprigionavano.

"Allora darete la vostra vita, se sarà necessario, per proteggere i vostri cari.

E lo stesso farò io" assicurò. "Albari o no, quei ladri non abbandoneranno queste terre finché non avranno preso tutte le pecore, le galline e le vacche che vorranno. E se le nascondessimo in paese, brucerebbero i campi.

Assalteranno i nostri granai e se qualcuno cercherà di impedirglielo senza nessuno a coprirgli le spalle, lo passeranno a fil di spada. E così, uno alla volta molti di noi cadranno. Non vedete? Fare a si-salvi-chi-può non funzionerà. Dobbiamo combattere!"

"Se decidiamo di combattere, moriremo tutti" replicò Sancho. "Quel che dobbiamo fare è chiedere aiuto al re. È ora che i soldati si decidano a fare il loro lavoro. Dobbiamo mandare una lettera al sovrano, ecco cosa dobbiamo fare" aggiunse. "Guillén potrebbe scriverla".

Era veramente troppo. Non poteva più sopportare tutte quelle lamentele.

"Il re non darà alcuna importanza alla lettera di un pastore" spiegò Jimeno.

Guillén chinò la testa a quelle parole. "Ha ben altro da fare, come occuparsi degli Ordini Militari e riorganizzare il regno che gli ha lasciato suo fratello Alfonso. L'unico aiuto che avremo sarà quello che noi stessi potremo concederci. Solo noi!" Si girò verso il carbonaio. "E tu, Sancho, sei il meno indicato per attribuire responsabilità ad altri. A tuo padre non è servito a niente, e non servirà a te. Impara e insegnalo a tuo figlio".

Sulla taverna piombò un silenzio mortale. Quello era un discorso molto serio. Jimeno sapeva bene che nessuno nominava mai il padre del Nero, per rispetto nei confronti del figlio e di sua madre.

Guillén si avvicinò a suo cognato.

"Jimeno" sussurrò, "non c'è bisogno di tirare in ballo i brutti ricordi. Il

passato è passato".

"Non si può incolpare il figlio dei peccati di suo padre" mormorò Sancho.

"Porti il marchio di Caino!" lo accusò Jimeno, puntando un dito accusatorio che fece rabbrividire il carbonaio.

Sancho non osò dire altro. Il carbonaio uscì dalla taverna, coperto di stracci e sconfitto, lasciando a Jimeno l'ultima parola.

"Condivido le preoccupazioni del Nero, e quelle di voi tutti. Vi assicuro che non lasceremo niente al caso. Spiegherò i miei piani a don Yéquera; lui ci fornirà le spade e le lance grazie alle quali potremo difenderci. Chi vorrà accompagnarmi, sappia che sarò alla Fontana Nuova a mezzogiorno.

Con quelle parole, Jimeno mise fine all'assemblea. E anche se alcuni continuavano ad avere dei dubbi, il bargello non volle dare ulteriori spiegazioni. A poco a poco, la taverna cominciò a svuotarsi. Il bargello scese dal tavolo.

*****

Jimeno si avvicinò al bancone della taverna facendo tintinnare l'armatura.

Bermudo stava ritirando i pochi bicchieri che aveva servito durante la riunione. C'era ancora qualche avventore e l'odore di quelli che se ne erano andati ristagnava, ma ormai ci si poteva muovere senza bisogno di farsi largo e venire in contatto con altri corpi.

Si girò verso il bancone e si accorse che Bermudo lo stava guardando con attenzione.

"Se mi avessi spaccato il tavolo, sai che ti avrei ammazzato" disse con gli occhi fissi sugli stivali del bargello.

Né quello che aveva detto né il tono confidenziale che aveva usato l'oste gli diedero fastidio: Jimeno sapeva che tipo era Bermudo, aggressivo e poco incline a discolparsi. Jimeno si sedette su uno sgabello e concesse al suo corpo di riposare. Portare addosso quell'armatura era estenuante.

"Ed è l'unica cosa che hai notato?" chiese appoggiandosi al bancone. "Che ho dato una botta al tavolo?"

Bermudo schioccò la lingua.

"Hai detto pure che ho staccato la testa a un saraceno in un sol colpo"

aggiunse. Lanciò un paio di bicchieri nel lavatoio, incurante se si potessero rompere o no. "Non è vero. Mi ci sono voluti due colpi" spiegò, "perché il maledetto indossava una gorgiera che l’ha protetto dal primo colpo".

Sentendo quelle parole, Jimeno sentì un fastidio al collo. Non perché l'oste l'avesse accusato di qualcosa che in effetti era vero, ma perché gli aveva ricordato che indossava ancora la cuffia, che gli sfregava sul collo ogni volta che si girava. Decise di toglierla.

"Le verità migliorano se le abbellisci un po'" spiegò. "Alla fine l'hai ammazzato, no? È quello che importa".

Il bargello cercò l'allacciatura della cuffia per toglierla. Bermudo lo indicò con il suo grosso dito.

"Quell'armatura non ti ha protetto dal Nero" disse. Poi si offrì di aiutare Jimeno a togliersi la protezione di maglia.

Le grosse mani dell'oste cercarono l'allacciatura fino a trovarla. Con gesti bruschi tolse la cuffia dalla testa di Jimeno e la lasciò cadere sul bancone.

Il bargello lo ringraziò con un cenno del capo.

"Alla fine ho vinto" disse togliendosi i guanti. I dischetti di ferro che vi erano cuciti tintinnarono contro la cuffia. "Se n'è andato con la coda tra le gambe".

"Gli hai dato una pugnalata a tradimento, senza che nessuno si accorgesse delle tue intenzioni" lo accusò Bermudo prendendo uno straccio per pulire il bancone. "Non mi aspettavo da te una cosa del genere".

"Era necessario" si difese. "Quell'imbecille stava minando il morale di tutti i presenti. Non ho bisogno che qualcuno ricordi ai nostri compaesani quanto

può essere pericoloso quello che ci accingiamo a fare, inducendoli a pensare che qualcuno possa farlo al posto loro. Ho bisogno che la gente del paese ci creda, a quello che ho in mente" spiegò. "Il Nero li stava solo spaventando".

Se Bermudo era della stessa opinione, non lo diede a vedere. Continuò a pulire con calma e lanciando ogni tanto un'occhiata verso la porta, come se si aspettasse che da un momento all'altro qualcuno entrasse nella sua taverna.

"Bevi qualcosa o no?" chiese, cambiando argomento.

La sua grossa mano indicò i ripiani alle sue spalle. Tutti i barili e le giare che vi erano appoggiati erano contraddistinti da segni che servivano ad indicarne il contenuto. Bermudo, come Jimeno, non sapeva leggere. Ecco perché utilizzava dei segni che gli erano familiari per differenziare le diverse bevande. Jimeno conosceva bene quelli delle grappe. Sua moglie le preparava negli alambicchi che aveva a casa e poi le vendeva a Bermudo. Finalmente trovò quello che cercava.

"Mezzo di sidro" e in risposta allo sguardo incredulo di Bermudo, aggiunse:

"per schiarirmi la gola".

"Mezzo sidro... cosa mi tocca fare" si lamentò. Mise svogliatamente un bicchiere sotto il cannello del barile e lo riempì fino a metà. Nemmeno una goccia in più. "Pessimo inverno questo, se neanche il bargello può permettersi un dannato bicchiere di sidro. Posso contare sulle dita di queste mani le bevande che ho servito oggi" assicurò l'oste aprendo le mani. Erano forti e accoglienti. Di tutti gli uomini del villaggio, Bermudo era l'unico che in qualche occasione era riuscito a far innervosire il bargello, tempo addietro. Eppure, da quando aveva comprato quella taverna era diventato un uomo tranquillo, molto diverso dall'orco che Jimeno aveva conosciuto in gioventù; quando ancora si spaventava vedendo quello che un uomo era capace di fare a un altro uomo. "E tutto il dannato villaggio è nella mia taverna!" urlò ai compaesani che sgattaiolavano via senza aver bevuto niente.

Rimasero soli.

Non ho permesso ad Arlena di venire e c'erano qui non solo tutte le donne, ma anche le vecchie, pensò Jimeno. Eppure, si accorse di una cosa.

 

"Tutti no" puntualizzò il bargello. "Ruderico non c'era".

L'osservazione non era scevra di significato. Jimeno non aveva visto il sacerdote partecipare all'assemblea e immaginò che le informazioni su ciò che era stato detto gli sarebbero giunte da altre vie. Decise di passare dalla chiesa a parlare con lui, e così assicurarsi che gli arrivasse all'orecchio la versione corretta.

"Quello viene solo ogni tanto, la sera" disse Bermudo. "Per giocare ai dadi, a carte o a quello che capita. Non che il prete goda di particolari aiuti di natura divina" aggiunse, "non è di quelli che vincono, insomma".

"Perde molti denari?" si interessò Jimeno.

L'oste tacque un momento, non sapendo se fosse o meno opportuno parlare di quelle faccende con il bargello. Jimeno continuò a sorseggiare il sidro. In attesa che l'altro parlasse. Senza fretta.

Il bargello pensava che, se il prete fosse stato a corto di denari, sarebbe stato facile tirarlo dalla sua parte facendogli qualche regalo, all'occasione.

Un poco di liquore, qualche dolce appena fatto, dei calzini pesanti... piccoli favori che Jimeno prima o poi avrebbe fatto valere.

Benché fossero soli, Bermudo guardò a destra e a sinistra.

"Mah… quando ci sono delle monete in ballo" finì per dire, "non sempre.

Non mi piace vedere certe cose nella mia taverna. Ogni tanto li accontento, per dovere di cortesia" aggiunse sorridendo al bargello, dato che sarebbe stata sua responsabilità fare in modo che tali giochi non fossero praticati nel loro villaggio. "Ma non giocano quando c'è gente. Non mi piacciono le chiacchiere e il gioco ne provoca in abbondanza. Lo sai che dire qualcosa qui… è come dar fuoco alla paglia".

Jimeno sapeva bene di cosa stesse parlando l'oste. I pettegolezzi erano

molto pericolosi per la reputazione di un uomo. Ancora di più per una donna. Non si era mai abbastanza prudenti nel parlare o nell'agire. Tutto poteva essere... interpretato.

Finì di bere e appoggiò delicatamente il bicchiere sul bancone di legno.

Chiese l’altro mezzo bicchiere di sidro. Bermudo si avvicinò al barile; passando vicino al braciere si accorse che si stava spegnendo e si fermò ad aggiungere un po' di carbone per ravvivare il fuoco.

Il carbone del Nero.

Bermudo, senza neanche pulirsi le mani, riempì di nuovo il bicchiere fino a metà. Un po' meno, notò il bargello, ma lasciò correre.

"Quindi, denari non ne perde..". indagò. Bermudo negò con la mano e non disse altro. Lasciò il sidro davanti a Jimeno e si avvicinò di nuovo al braciere. Con le dita aveva lasciato un paio di impronte nerastre intorno al bordo del bicchiere. "E tu?" gli chiese accompagnando la domanda con un sorriso, perché sapeva che stava forzando la situazione.

"Io non gioco più. Ho perso molto denaro quando ero giovane, me lo potevo permettere perché per un soldato c'era sempre il bottino" ricordò con un sorriso, mostrando i due buchi nella mandibola sinistra. Il colpo di una mazza ferrata. "Ma adesso non sono in grado di andare in guerra e non intendo rischiare quello che possiedo giocando ai dadi o alle carte".

Jimeno si chiese fino a che punto il buon senso nascondesse la paura.

Bermudo era ancora un uomo forte. Guerriero formidabile tempo addietro, era stato ferito gravemente e aveva abbandonato la vita del soldato. Con il denaro messo da parte aveva costruito quella taverna che era la sua unica fonte di sostentamento, e aveva lasciato che il suo corpo aumentasse di volume a causa di una vita inattiva.

Il bargello era diverso, aveva ancora delle aspirazioni. La guerra poteva fare grandi cose per un uomo e lui non era disposto a lasciare le armi.

Voleva di più, anche se non sapeva esattamente cosa.

Guardò l'oste.

"Credevo che i vecchi guerrieri non fossero mai abbastanza vecchi".

"L'anca..". si lamentò Bermudo, "ormai non posso più montare a cavallo.

Ma non avrò problemi a spiccare qualche testa, se ne avrò l'occasione. In un sol colpo" puntualizzò.

E mentre parlava mostrò l'arma che teneva sotto il bancone.

Era un'ascia d'arme, di quelle che chiamano 'ferrate' perché interamente in ferro, abbastanza pesante da assestare colpi potenti ma abbastanza piccola da poter essere brandita da un uomo a cavallo. Sul lato opposto alla lama presentava uno spuntone usato per colpire le armature dei nemici.

"È ancora affilata?"

Bermudo assentì con orgoglio.

"Speri di averla a tua disposizione quando ci scontreremo con gli albari?"

Il bargello sorrise, si scolò l'ultimo goccio rimasto nel bicchiere e lasciò cadere una moneta sul bancone. Prese la cuffia e i guanti, si aggiustò la cintura e si diresse all'uscita.

Quando si trovava già sulla soglia Bermudo gli disse:

"Il Nero è un tipo coraggioso. È un dato di fatto". Jimeno si girò verso l'oste e con un cenno gli fece capire che non sapeva di cosa stesse parlando.

"Forse proprio in questo momento sta pensando di andare alla Carbonera, anche se ci sono gli albari. È l'unico luogo dove c'è qualcosa che può considerare veramente suo" disse con il viso serio. "Lavora duramente, fa il carbone. Poi, con la sua abilità con le parole, ce lo vende. È un tipo sveglio. Qui tutti bruciamo il suo carbone. Puoi sentirne l'odore ad ogni passo, per le strade del villaggio. È come se avessi sempre un braciere sotto il naso".

"Non capisco..". cominciò Jimeno prima di essere interrotto dall'oste.

"È l'unico in paese che si rallegra se l'inverno è così freddo che le palle ti si incollano alle gambe. E non è che sia meschino" spiegò. "è che se non

facesse freddo, Sancho non avrebbe modo di tirare avanti. E nemmeno García, suo figlio, che è un bravo giovane. Se gli albari sono alla Carbonera, non c'è alcun modo per il Nero di fare il carbone da vendere"

spiegò guardando fisso il bargello. "Senza carbone niente denari, e niente cibo. E il Nero muore. Lui lo sa" continuò, "questo è certo. Eppure, ritiene che sia meglio aspettare che dei veri soldati si occupino di quei briganti bianchi" rifletté battendo sul bancone con le nocche. Alzò gli occhi verso il bargello. "Mi fido più del giudizio di un poveraccio coraggioso che fa prevalere il buonsenso alla fame che di un bargello, anch'egli valoroso, che dà per scontato che una banda di contadini potrà far fronte a guerrieri di lungo corso".

Jimeno fece schioccare la lingua. Era seccato al pensiero di essere l'unico in paese a credere veramente che la sua gente avrebbe potuto farsi valere da sé.

Sguainò la spada e la mostrò a Bermudo. Metallo di qualità. Ben affilata.

"Io non sono nato sapendo già impugnare una spada. Mio padre me le ha date con una di queste finché ho avuto più lividi che pelle. E man mano che guarivano, io diventavo più abile e beccavo meno botte. Con il tempo, fu lui che cominciò a lamentarsi dei dolori" dichiarò orgoglioso. "È la pratica a fare il maestro".

Jimeno ruotò la lama facendola luccicare e la rinfoderò. Resse lo sguardo dell'oste.

Io insegnerò loro a combattere. Spada, scure e mazza. Ci eserciteremo fino a quando non ce la faranno più. In due giorni saranno migliorati abbastanza da rendersene conto loro stessi. E al crescere dell'abilità aumenterà anche la fiducia. Non saranno diventati dei bravi soldati, ma saranno buoni per combattere.

Bermudo sapeva bene quali fossero i pensieri del bargello.

"Guarda, Jimeno, ti dirò una cosa" lo avvertì appoggiandosi al bancone.

"Non riuscirai a reclutare truppe per le guerre future. Quelli del villaggio non sono buoni per fare i soldati. Tre o quattro al massimo. Gli altri sono

contadini dalla punta dei capelli alle unghie dei piedi: non saprebbero lottare neanche se glielo insegnassi tu personalmente. L'unica cosa che potresti ottenere mandandoli contro gli albari sarebbe farli ammazzare. No"

tagliò corto mentre prendeva la scopa e usciva da dietro il bancone per spazzare il pavimento del suo locale. Il vecchio oste non sembrava proprio un guerriero. "Se non dovessero venire, non andare a caccia di problemi.

Chiedi aiuto al re o a chi vuoi tu. Proteggi la tua gente dagli albari e non li coinvolgere. Non ne vale la pena. Accontentati della vita che hai. Dedicati a coltivare la terra, carote, fagioli, cipolle, qualsiasi cosa. Non sei poi così giovane come credi" aggiunse stancamente. "Basta con le avventure. Fai altri cinque figli e lascia che combattano loro, se lo vorranno. Non siamo più quelli di una volta".

*****

A metà pomeriggio, Jimeno pensò di aver ormai assolto la missione che si era dato fatta di discorsi, spiegazioni e promesse di successo. Da quando aveva fatto sentire la sua voce alla taverna, i compaesani erano venuti da lui in cerca di altri dettagli su quello che intendeva fare. Di quanti uomini abbisognava? In che modo intendeva addestrarli? Avrebbe consentito loro di portare le armi in paese? Don Yéquera li avrebbe accolti nel suo castello? In che modo sarebbe stato riconoscente per il servizio reso?

Avrebbero ricevuto il soldo?

Il bargello era stato felice di constatare che nessuno più gli chiedeva quanti fossero gli albari e se fossero davvero pericolosi. Molti erano entusiasti all'idea di combattere. Erano ansiosi di raggiungere Yéquera. E anche Jimeno lo era.

Tuttavia, aveva accettato il consiglio di Bermudo e aveva fatto scrivere a suo cognato una lettera per il re in cui chiedeva aiuto, anche se non aveva molte speranze di ricevere una risposta soddisfacente. O anche solo una risposta.

Alla fine, i preparativi avevano richiesto più tempo del previsto; quando infine percorse insieme al figlio minore la discesa che portava alla Fontana

Nuova, l'ora meridiana era ormai passata. I raggi del sole che tramontava a ovest illuminavano la moltitudine accorsa vicino a casa del fornaio. Il viaggio aveva suscitato grandi aspettative e sembrava che mezzo paese si fosse dato appuntamento per vederli partire.

Fermarono i cavalli e osservarono la gente lì riunita.

"Quanta gente!" esclamò Ramiro, evidentemente sorpreso. "Credo che i vicini siano dalla vostra parte, padre".

"Non perdere tempo a chiacchierare con loro" ordinò Jimeno al figlio, smorzando il suo entusiasmo. "Dobbiamo partire al più presto".

"Sì, padre" rispose obbediente mentre spronava il cavallo per non fermarsi.

Jimeno vide suo figlio avvicinarsi baldanzoso al gruppo di compaesani e si concesse un sorriso orgoglioso, vedendo come la gente lo guardava.

La maggior parte degli abitanti del villaggio indossava una camicia e delle braghe. Alcuni avevano una giubba e la maggior parte di loro si proteggeva dal freddo con una ruvida cappa di lana. Ramiro invece indossava un'elegante tunica color verde chiaro a maniche lunghe, ottimi stivali da monta del miglior cuoio che si fosse visto in paese e un mantello con la chiusura d'argento. I capelli neri erano coperti da un basco rosso, simile a quello usato dai nobili della Navarra.

"Ecco qui un bel signorino" aveva detto Arlena dopo avergli sistemato il mantello sulle spalle. "Al cospetto di don Yéquera comportati con educazione. Dimostra che sei un gentiluomo e non limitarti a sembrarlo".

Sua madre si era data molto da fare affinché Ramiro si distinguesse dai villici che sarebbero andati a incontrare il signore del castello.

Il piano di Jimeno prevedeva che i suoi figli facessero visita a don Yéquera; l'allegria della gioventù era quel che c'era di meglio per far tornare le forze a un vecchio. Desiderava che l'anziano cavaliere si sentisse a suo agio con i ragazzi mentre Jimeno esaminava l'arsenale del castello. Se quello che conteneva fosse stato di suo gradimento avrebbe fatto richiesta di poterlo portare con sé per addestrare i villici; lo avrebbe portato via comunque. E

don Yéquera avrebbe accettato molto più facilmente di cedere le sue armi se fosse stato di buon umore.

Arlena non dimenticava neanche per un attimo quello che era successo a suo figlio Alfonso, e per andare al castello non si poteva non passare nelle vicinanze della Carbonera. Aveva accettato obtorto collo che Ramiro accompagnasse il padre, e solo dopo che Jimeno le aveva giurato più e più volte che non avrebbe permesso che a suo figlio accadesse niente di male.

 

Qualcuno alle sue spalle si schiarì la voce e Jimeno vide dietro di sé sua sorella a cavallo di Roccia. Il mulo non sembrava felice di avere Jimena in groppa. E nemmeno quelle grosse bisacce.

"Vieni al castello?" chiese Jimeno, indicando le bisacce.

"No, è solo che avevo voglia di fare un giretto su questo mulo puzzolente"

sospirò rassegnata mentre si risistemava sulla cavalcatura. "Ho parlato un po' con tua moglie. Abbiamo preparato una torta per don Yéquera, qualche liquore e della biancheria, di ottima qualità naturalmente". spiegò.

Jimeno volse di nuovo lo sguardo verso le bisacce che probabilmente contenevano la biancheria. Prodotta nel vecchio capanno vicino alla chiesa, trasformato da sua sorella in un laboratorio che fruttava dei bei soldi. Grazie alla lana di Guillén e con la benedizione di padre Ruderico, che si teneva una parte degli incassi per la cessione di quello spazio.

Se non puzzano quanto quel pollaio dove sono stati tessuti, sono sicuro che finiranno per prendere l'odore disgustoso di questo mulo.

"E così... dei regali, eh?" indagò il bargello.

"Qualcuno in questa famiglia deve assumersi il ruolo di testa pensante, un forte braccio non basta" gli rimproverò Jimena. Poi si volse verso i suoi compaesani. "Sembra che siano venuti tutti a salutarci" osservò, "neanche fossimo destinati a morire lungo la strada..".

Jimeno grugnì e guardò tutta la gente riunita davanti al forno. Più persone di quante lui riuscisse a contare ronzavano intorno ad un carretto trainato da due asini, guidato da padre Ruderico. I suoi folti baffi si agitavano di qua

e di là, evidentemente era nervoso all'idea di cosa avesse in serbo per loro quel viaggio. Il bargello fu lieto che il sacerdote si fosse aggregato al gruppo, e anche del fatto che si fosse portato dietro il carro. Su quel carro Jimeno sperò di poter portare in paese le armi custodite al castello.

A giudicare dal fumo che usciva dal camino, il fornaio doveva aver acceso il forno per vendere i suoi prodotti appena sfornati alla gente in attesa davanti alla sua bottega. Ad averci pensato prima, Jimeno avrebbe potuto fissare il luogo di ritrovo a casa sua, così Arlena avrebbe potuto vendere qualche liquore.

Non si può pensare a tutto, si lamentò.

Raddrizzò la schiena e spronò il cavallo affinché avanzasse con portamento fiero, dando ad intendere che aveva tutto sotto controllo. Sua sorella lo seguiva con Roccia.

L'ambiente profumava di pane caldo e di aria fredda. La gente si era suddivisa in capannelli e si scambiava opinioni, e un otre di sidro mezzo vuoto passava di mano in mano. I villici sembravano oziosi e Jimeno guardò verso il sole calante.

Non gli sorrideva per niente l'idea di dover cavalcare così di fretta fino a Yéquera con le notti che arrivavano così presto in quel periodo e gli albari che infestavano i paraggi. Meglio partire al più presto.

Jimeno e Ramiro erano gli unici a cavallo. Jimena aveva il mulo. Gli altri viaggiavano a piedi o sul retro del carretto.

Il corpo del bargello ebbe un piccolo brivido a causa del freddo. Raddrizzò le spalle facendo finta di niente e si sistemò il pesante mantello di lana. Da Lacorvilla al castello di Yéquera c'era solo un miglio di distanza, ma dovendo girare intorno alla Punta del Paco la strada si allungava diventando tre volte tanto.

"Cosa stiamo aspettando?" volle sapere guardando i suoi vicini dal cavallo.

La risposta non gli giunse gradita.

L'uomo che era tutto ossa uscì dalla bottega del fornaio a lunghe falcate.

Proteggeva dal vento una grossa pagnotta, appena fatta. Il nero se la passava da una mano all'altra quando il calore diventava insopportabile. Si avvicinò al carretto a passo lesto e con un salto salì sulla parte posteriore, che il suo modesto peso non spostò neanche di mezzo pollice.

"Che cosa ci fa qui Sancho, padre?" chiese Ramiro. Come suo fratello maggiore, condivideva l'astio del genitore nei confronti del Nero.

"Anch'io vorrei saperlo".

"Vado a trovare mia madre" spiegò Sancho. Jimeno schioccò la lingua ricordando che la madre di quel miserabile era la fantesca del castello. Per ragioni che lui non riusciva a capire, don Yéquera aveva accettato che la vedova dell'assassino servisse alla sua tavola. Adesso quel pezzente del carbonaio aveva una scusa per accompagnarli nel loro viaggio. "E poi anch'io voglio aiutare la mia gente".

Allo sguardo adirato di Jimeno, aggiunse che il bargello non poteva impedirgli di andare a trovare sua madre né di aiutare i suoi compaesani.

No di certo, se il bargello era quel brav'uomo che al mattino, alla taverna, aveva detto di essere.

Ramiro mise mano con impeto all'impugnatura della spada ma suo padre lo fermò.

"Non vale la pena di discutere con lui" disse con disprezzo.

Il Nero parve soddisfatto del suo piccolo trionfo e si sistemò meglio sulla parte posteriore del carretto.

Senza ulteriori perdite di tempo, partirono. Quelli che rimasero augurarono loro buon viaggio.

Saremo a Yéquera prima che il sole tramonti. Non capisco il motivo di tutta questa preoccupazione.

Facevano strada alcuni abitanti del villaggio che procedevano a piedi. Il bargello e suo figlio seguivano il carretto. Jimena cavalcava Roccia

accanto a loro. Soffiava nella loro direzione un forte vento che sollevava molta polvere; Jimeno era spesso costretto a chiudere gli occhi con forza, e li sentiva umidi. Ogni volta che li apriva, Jimeno vedeva il carbonaio seduto nella parte posteriore del carretto che canticchiava qualcosa di inintelligibile. Sembrava felice.

A quella vista Jimeno stava perdendo la calma.

Vedeva Sancho viaggiare come un re. Godersi un viaggio che non gli costava il minimo sforzo. Jimeno sapeva che era un uomo indebolito dalla fame, e ammetteva che aveva una grande volontà di vivere e grande abilità nell'affrontare le avversità della vita. Ma la cosa non sarebbe durata a lungo.

Non appena si fosse insediato il nuovo signore, il vecchio don Yéquera non aveva più molto da vivere, avrebbe convinto il nuovo arrivato ad esiliare Sancho. Quando fosse andato via non sarebbe più stato una vergogna per il villaggio. Non c'era posto per i ladri nel paese di Jimeno.

Tutti sappiamo che è un ladro, le piccole cose non spariscono da sole e anche se muore di fame non si decide mai a morire. Bisogna scacciarlo appena ce ne sarà l'occasione, decise. Ma la cosa migliore sarebbe che morisse una buona volta. Così non avrei problemi con la gente del villaggio. Me l'ha detto Bermudo che in paese si mormora che abbiamo rubato le sue terre. Non bisogna continuare a buttare legna sul fuoco.

Quello che si prospettava era un inverno di carestia, e nessuno pensava che il Nero potesse superarlo. Non era malato, ma presto lo sarebbe stato.

Chiunque si ammala se non mangia abbastanza, e Jimeno sperava che il carbonaio non fosse un'eccezione.

"Perché sei venuta, zia?" chiese Ramiro.

La domanda di suo figlio riscosse Jimeno dai suoi pensieri.

"Per assicurarmi che facciate le cose come si deve" rispose Jimena.

"La guerra non è roba da donne" precisò Jimeno.

Sua sorella alzò un sopracciglio.

"Chi ha parlato di guerra? Vedi perché non si può lasciarvi soli? Stamane parlavi di una banda di briganti e al pomeriggio li hai già trasformati in un esercito" argomentò con un grande sorriso. "Vista la situazione, è meglio che qualcuno vi tenga d'occhio".

"Pochi o tanti, quando gli uomini combattono è sempre come se fossero in guerra. Non è roba da donne, ma da uomini. Da guerrieri. La spada vuole affondare nella carne. Ci sono sempre dei morti e il sangue inonda il terreno" raccontò Jimeno descrivendo immaginari colpi di spada. "E quelli che non hanno avuto il buonsenso di prepararsi sono i primi a cadere sulla fredda terra. Sarà meglio per voi che, quando sarà tutto finito, siamo noi i vincitori".

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