Il Bargello

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"Vieni qui…" le disse prendendola per la vita, mentre con l'altra mano cercava di alzarle le gonne.

E così, per due sole parole, in casa del bargello scoppiò una vivace discussione. Le quattro pareti della casa non sembravano abbastanza solide da contenere le urla. I sassi ascoltavano per l'ennesima volta la coppia che rivendicava i propri opposti punti di vista sulla progenie che non faceva che aumentare e sul modo di metterla al mondo.

"Sei mia moglie e devi adempiere ai tuoi doveri!"

"Non se mettono in pericolo nostro figlio". Arlena prese le mani del marito e le appoggiò sul suo addome gonfio. "Stai già mettendo alla prova il mio ventre affinché ti dia dei figli, non insistere a forzarlo anche per ottenere piacere".

Jimeno, più alto di almeno una testa rispetto a tutti gli altri paesani e dalle larghe spalle, si avvicinò a meno di una spanna di distanza da sua moglie.

Ma neanche così riusciva a fare in modo che la donna non sostenesse il suo sguardo, senza mai lasciarsi intimidire dall'imponenza del bargello. Lo sguardo rimase fermo anche dopo una serie di imprecazioni che avrebbero fatto vergognare qualunque uomo timorato di Dio.

Il bargello era passato in pochi istanti dall'euforia all'ira. Era stata una notte lunghissima. Il riposo gli aveva consentito di rilassarsi ma era impaziente che la moglie gli dimostrasse quanto gli era grata per aver salvato la vita a suo figlio Alfonso. Secondo lui era logico che Arlena si dovesse mostrare affettuosa. Era una ricompensa che lui si meritava appieno.

Ma Arlena la vedeva in modo diverso ed era una donna di carattere; di quelle che una volta presa una decisione, difficilmente cambiano idea. Il

bargello lo trovava esasperante.

"Io sono un uomo! E ho necessità che mia moglie non mi può negare!".

Jimeno si diresse in cucina sentendo i passi della sua consorte dietro di lui.

Sul tavolo c'era una leccarda mezza piena, ma non c'era nessuno dei suoi figli. C'era anche del fuoco nella stufa. Debole. Prese un paio di ceppi e li buttò dentro con furia.

Arlena si avvicinò a suo marito, non avrebbe lasciato che Jimeno avesse l'ultima parola.

"Oltre che moglie sono anche madre, ed è mio dovere proteggere i miei figli che sono anche i tuoi" disse mostrando il rigonfiamento costituito dal figlio non ancora nato, e guardò suo marito negli occhi. "Bisogna svuotare l'otre prima di riempirlo di nuovo" lo rimproverò. "Non insistere, dovrai aspettare che partorisca".

"Cosa che avresti già dovuto fare" le rimproverò Jimeno. "Quel bambino è lì da troppo tempo".

Sua moglie aggrottò la fronte e lo indicò con il dito.

"Ti sbagli…" Arlena contò con le dita mentre elencava i mesi uno dopo l'altro. "Novembre, dicembre… non nascerà prima di gennaio".

"Sarà meglio che nasca questo mese!" le ordinò Jimeno, come se dipendesse da lei. "Prima della fine dell'anno. Lo sanno tutti che i figli più forti nascono prima dei nove mesi".

"Mah" disse Arlena sdegnosamente, "nessuno crede a queste cose, lo dicono solo gli ignoranti. E poi ne so più io di te, quanto a partorire".

"Sì, partorire femmine; di partorire maschi te ne intendi meno, a quanto pare. Tre figlie femmine mi hai fatto da quando hai partorito l'ultimo maschio. È tempo che tu mi dia un altro figlio".

Arlena guardò suo marito negli occhi, fiera.

"Non si può intervenire su ciò che Dio dispone al momento del

concepimento. Nascerà un maschio quando il Signore lo vorrà. E se sei così preoccupato per i tuoi figli maschi, dovresti averne maggior cura. Ciò che rende forte un fanciullo è sentirsi protetto fino al momento in cui diventa uomo" osservò. "Qualcosa che non ti riesce poi tanto bene".

Il viso di Jimeno divenne paonazzo dalla rabbia. Come osava Arlena accusarlo di quanto era successo la scorsa notte? Quelle cose accadevano quando avevi a che fare con ladri e disertori. Succedevano e basta. Non era colpa sua.

"Al ragazzo hanno conficcato una lancia nel culo, e allora? È un posto dove non c'è niente di importante" replicò offeso. "Presto starà bene" affermò, "e dovrà ringraziare suo padre che ha ammazzato quel maledetto".

"Eppure ti dico e ti ripeto che non avresti dovuto portare Alfonso con te sulla montagna in piena notte" lo accusò Arlena. "Un uomo più assennato l'avrebbe capito. Il poveretto è a letto, costretto a dormire a pancia in giù perché non può appoggiarsi sulla ferita. Gli fa male".

"E gli farà ancora più male quando si sarà cicatrizzata" dichiarò Jimeno, ben sapendo che far guarire le ferite era una parte importante della vita di qualunque uomo. Essere consapevole del fatto che gli errori provocano dolore. Se invece di rotolare avesse alzato la spada non sarebbe stato ferito. "Il ragazzo ha già sedici anni. Se gli insegno a combattere con la spada è perché presto ne avrà bisogno. Il regno deve espandersi a sud e alla fine dell'inverno il nuovo re convocherà signori e cavalieri". Arlena cercò di intervenire ma Jimeno alzò una mano per fermarla. "So cosa stai per dire: che se il re viene soprannominato 'il Monaco' non sarà poi così ansioso di andare in guerra. Ma io ti dico, donna, che un re deve essere guerriero, che lo voglia o no; e deve sapere che, se non attacca, verrà attaccato. Avrà bisogno di giovani come il nostro Alfonso per farlo e io non permetterò che venga chiamato alle armi senza sapere come si fa ad impugnarle".

Arlena fece segno di no con la testa. I suoi occhi castani erano fissi sul marito.

"Non era quello che volevo dire" replicò. "Dico solo che sbagli a pensare che don Yéquera andrà in guerra con il nuovo re. Quel vecchio è malato, presto perderà di nuovo la ragione e nominerà erede il suo cavallo"

sostenne portandosi un dito alla tempia. In quel momento i suoi figli entrarono in cucina. La piccola Juana era tra le braccia di Sancha.

Mancava solo Alfonso. "Ma non stavamo parlando di adempiere ai miei doveri coniugali?"

Jimeno aggrottò la fronte alla vista del sorriso birichino della moglie. I suoi occhi si spostarono da quel sorriso ai suoi figli, e poi di nuovo al sorriso.

Maledizione, donna, pensò il bargello. Decise che non era il caso di continuare a discutere.

"Meglio non forzare la situazione" mormorò, "magari una delle prossime notti, con delicatezza".

Arlena annuì e fece segno ai suoi figli di sedersi intorno al tavolo. Sancha, la figlia maggiore della coppia, aiutava sua madre ad apparecchiare per la colazione mentre il giovane Ramiro aiutava il padre con il fuoco.

"Come sta tuo fratello?" gli chiese Jimeno. "Ha trascorso bene la notte?"

"Lui non so" disse Ramiro stropicciandosi gli occhi, "ma io non sono riuscito a dormire, tanto si lamenta".

Le fiamme crepitavano nel braciere che proteggeva la famiglia dal freddo esterno. In casa del bargello il fuoco era sempre acceso; la spesa per il combustibile – legna, perché Jimeno la preferiva al carbone – non era un problema, grazie alle rendite che otteneva sia dalla coltivazione di alcuni dei suoi terreni, tra i più vasti in paese, sia per la sua carica di cavaliere e bargello. Ecco perché non si preoccupò del fatto che Ramiro avesse aggiunto troppa legna nel camino.

"Tuo fratello ieri è stato molto coraggioso" disse, "non dimenticarlo e fammi il favore di portargli qualcosa per colazione".

Il bargello e suo figlio si sedettero a tavola e mangiarono. Jimeno spalmò del burro su pane bianco appena sfornato e prese dal tavolo una delle

mele. Ramiro gli passò un coltello e gli chiese:

"Posso venire alla taverna, dopo?"

Il padre guardò il figlio. Il ragazzo voleva prendere parte all'assemblea dei villici. Il bargello aveva convocato tutti gli uomini del villaggio per decidere come fare fronte al problema dei briganti, che Jimeno era convinto non fosse ancora risolto. Il bargello perseverava nel suo tentativo di convincere chiunque fosse disposto ad ascoltarlo a farsi addestrare all'uso delle armi, benché non fosse ancora sicuro che si trattasse della decisione migliore.

Com'era ovvio, Ramiro voleva partecipare.

Decise di cambiare argomento.

"Non dimenticare di esercitarti con la spada quando me ne sarò andato.

Alfonso è a letto, e dovrai essere tu ad occuparti della famiglia".

Sei erano i figli che aveva avuto il bargello da sua moglie: Alfonso, Sancha, Ramiro, Teresa, Jimena e Juana, di appena un anno. Tutti vivevano sotto il suo tetto. La più grande era già in età da marito e i due maschi pronti a mettersi alla prova in combattimento, anche se non erano ancora stati in battaglia.

Alfonso sì.

Jimeno era consapevole dei pericoli della guerra, lui era veterano di molte guerre. I colpi di scure e di spada potevano strappare via a un uomo parte di quello che aveva ricevuto alla nascita, e le ferite da freccia non guarivano mai completamente. Ma inoltre sapeva che non c'erano molte possibilità di prosperare in un minuscolo villaggio come Lacorvilla, se non si rischiava la vita al servizio del re. E il suo posto era in battaglia, non in cerca di fuorilegge e bracconieri.

Il bargello pensò ai suoi due figli e si chiese se la guerra ne avrebbe fatto uomini di valore, storpi o cadaveri.

Finì di fare colazione e si alzò da tavola. Diede un bacio a sua moglie e uscì dalla cucina. Ramiro lo seguì. Jimeno cercava i suoi stivali buoni.

"Allora, posso venire con voi?" insisté suo figlio.

“No”, grugnì il bargello calzando gli stivali. "Ne parleremo più tardi, Ramiro".

Jimeno preferiva calzature leggere anche nei mesi freddi; ma in questo caso voleva offrire ai suoi compaesani l'immagine del guerriero. Ecco perché aveva indossato gli stivali da marcia e, con l'aiuto del figlio, indossò anche la cotta di maglia sopra la giubba. Ramiro, servizievole, gli porse la cintura e la spada, che il padre gli strappò di mano con prestezza. La spada, ormai un'estensione del suo braccio, era molto conosciuta a Lacorvilla. Decise di non prendere il mantello, malgrado il freddo; la taverna era vicina e all'interno del locale c'era sempre il fuoco acceso.

 

"Padre…"

"Ho detto di no, no!" ripeté il bargello. "Non puoi venire alla riunione. Non sei ancora un uomo".

"Non sono più un bambino!" replicò Ramiro.

"Dimostramelo, figlio mio. Portami la testa di un saraceno o dammi un nipote forte!" esclamò. A Jimeno non dispiacque che il suo ragazzo di tredici anni impallidisse più all'idea di generare un figlio che alla possibilità di tagliare una testa; un giorno suo figlio cadetto sarebbe stato un buon soldato. "Fino ad allora, a meno che non te lo dica io sarai un bambino.

Adesso vai ad esercitarti con la spada".

Mentre suo padre si sistemava la cintura, Ramiro uscì di casa per dedicarsi ai suoi esercizi mattutini. Jimeno si avvicinò all'alambicco che sua moglie usava per distillare liquori. Aprì uno dei recipienti e sentì un forte odore di alcol e mandorle. Vi immerse un dito e lo leccò: troppo amaro per i suoi gusti. Girandosi, vide la donna prendere il mantello che lui non aveva indossato, decisa a seguirlo alla taverna.

"Non voglio che venga neanche tu!" sbottò il bargello. Arlena rimase impietrita dalla rudezza delle parole di suo marito. "È una riunione riservata agli uomini del villaggio. Non ci saranno donne".

"Anche noi vogliamo partecipare. Gli albari non uccideranno solamente gli uomini".

Jimeno avvampò e il cuore cominciò a battergli all'impazzata.

"Chi ti ha detto degli albari?" le chiese, furioso. "È stato Alfonso? Quel ragazzo non sa tenere la bocca chiusa".

"Allora è vero. Ieri ne hai ucciso uno. Anche noi donne dobbiamo venire alla riunione. Tutti abbiamo il diritto di dire la nostra".

"Avrete tutto il tempo di dire la vostra quando avremo deciso. Rimani a casa e continua a fare i tuoi liquori!" Con il dito furioso indicò l'alambicco. "Il liquore di mandorle è amaro".

"È così che deve essere!"

Il bargello uscì in strada sbattendo la porta.

Sentì un brivido quando il suo corpo reagì alla temperatura esterna. La sua dimora era calda e accogliente, come era giusto per un uomo del suo status. Ma il villaggio era un luogo freddo, sempre sotto la minaccia del vento gelido che scendeva dalle montagne. Il suo sguardo si posò sull'orto adiacente alla casa: prima della stagione fredda ormai non si potevano raccogliere che carote, cavoli e poco più. Ma Jimeno non era preoccupato; diversamente da molti altri, aveva scorte di cibo sufficienti per tutto l'inverno e un bel gruzzolo da parte con cui comprare tutto quello di cui avesse avuto bisogno.

La ricompensa per una vita al servizio del re.

"E quello che mi aspetta" mormorò a mezza voce. "Vedrete, vedrete… un giorno o l'altro…"

Jimeno si lasciò alle spalle una discussione di famiglia e, con un umore da cani, andò verso la taverna dove lo aspettava una discussione molto più importante.

*****

A volte qualcuno la chiamava 'La taverna di Bermudo', per via del padrone.

Ma i più la chiamavano semplicemente 'la taverna', era l'unica in paese e non aveva bisogno di un nome. All'interno si svolgeva quasi tutta la vita sociale del villaggio ed era il posto giusto per celebrare quelle riunioni importanti. E l'argomento del giorno, più che importante era vitale.

Jimeno intendeva esporre il suo piano ai compaesani e guadagnarsi la fiducia dei più adatti a portarlo a termine. A questo scopo aveva invitato gli uomini del villaggio, per cominciare ad esporre la sua proposta. Arrivò davanti alla porta e spinse.

Non c'era posto nemmeno per il silenzio. In nessun caso sarebbe potuto esistere in quella densa massa di voci umane che cercavano di farsi sentire sovrapponendosi l'una all'altra. Jimeno aveva invitato solo gli uomini ma persino i bambini piccoli erano presenti, accompagnati dalle loro madri. Tutti volevano dire la loro a proposito della minaccia che pendeva sul villaggio, ed erano ben pochi i compaesani che non erano scesi alla taverna in quella mattinata frenetica.

"Dannazione…" bofonchiò mentre entrava. Abbassò la testa istintivamente per non andare a sbattere contro l'architrave della porta.

Sembrava quasi impossibile che ci stesse anche solo uno spillo in più, con quella marea umana. Ma Jimeno si diede da fare con uno spintone a destra, uno a sinistra e si fece strada nel locale raggiungendo le prime posizioni. Alcuni si spostavano al suo passaggio, altri li spostava lui. Ben presto ebbe i palmi delle mani coperti di sudore altrui. Jimeno grugnì per il disgusto. Al fuoco della taverna si sommava il calore umano, e la temperatura interna era degna quanto meno dell'Inferno.

Guillén era salito su uno dei tavoli del locale e raccontava ai presenti i fatti della sera precedente. Né Jimeno né Alfonso gliene avevano parlato, quindi doveva averlo saputo da Sancho, il Nero. Le sue parole venivano ascoltate dai presenti con grande attenzione e la preoccupazione emergeva decisa al di sopra dell'odore pestilenziale che pervadeva il locale.

"…videro due cavalieri oscuri avvicinarsi a tradimento. Con le loro nere lance pronte ad uccidere…"

In pochi si accorsero della presenza di Jimeno, che ricevette qualche pacca sulla sua eroica schiena. Quando raggiunse le prime file vide sua sorella, Jimena, che era riuscita a farsi largo e si era messa in un angolino.

Schiacciata nel poco spazio a disposizione e respirando la stessa aria impregnata dell'odore di decine di persone scambiò un'occhiata con il bargello.

"Sorella…"

"Jimeno, come sta Alfonso?"

La bocca del bargello si curvò in un mezzo sorriso e disse a sua sorella che Alfonso stava bene. Che non doveva preoccuparsi per suo nipote. Era stato sfortunato, nulla di più. O il cavaliere era stato molto fortunato.

Quando si trattava di lance o di combattimenti, il caso aveva un ruolo importante. La punta della lancia si era conficcata in profondità e non avevano potuto prendersi cura di lui prima di aver raggiunto il castello. A quel punto avevano visto che non aveva perso molto sangue, e che la ferita non era fatale. Gli avrebbe fatto male e poi sarebbe guarita.

"E quando avrà smesso di fargli male gli servirà di lezione".

Jimena rise.

"Una lancia nel culo" osservò scherzosamente, "che grande maestra! E io che credevo che la cosa migliore per i figli fosse insegnar loro un mestiere".

Sorrise mostrando quella dentatura che si era conservata in perfetto stato per più di quarant'anni.

"Il furfante si alzò in piedi, ergendosi imponente accanto al suo cavallo morto. Con occhi accesi dal furore si scagliò su Jimeno e combatterono, combatterono fino alla morte! Cling, clang, facevano le spade…"

Il pubblico era incantato ad ascoltare la storia narrata da Guillén, che agitava le mani e dava calci sul tavolo schivando stoccate invisibili.

"Ha la pelle da pastore ma è nato bardo" disse Jimena, indicando suo marito con un cenno del capo. Il bargello non poté fare altro che annuire: gli sarebbe piaciuto combattere nel duello che Guillén stava descrivendo.

Il pastore non era mai piaciuto a Jimeno. Era un uomo dall'aspetto strano e dagli occhi grigi ancor più strani. Dire che era poco piacente era essere generosi; con la faccia che aveva, non c'era da stupirsi che i suoi nipoti fossero i ragazzini più brutti del villaggio. Eppure, secondo Jimeno, sua sorella era una donna piuttosto attraente benché massiccia, un po' come il bargello. Anche i loro genitori erano stati dei contadini robusti.

Invece Guillén era piccolo di statura, pur avendo le spalle larghe. Piccolo, brutto e non troppo coraggioso. Però era intelligente. E al suo fianco, a sua sorella non erano mai mancate le comodità. Il pastore era riuscito a fare fortuna grazie al commercio e all'artigianato. Allevava agnelli, tosava le sue numerose pecore e Jimena, con l'aiuto di altre donne del paese, trasformava la lana in tessuto e poi in vesti che si vendevano a Luna o ad Ayerbe.

Jimeno non riusciva comunque ad apprezzare fino in fondo quel pastore arricchito, abbigliato come qualcuno che poteva permettersi di possedere diversi vestiti da usare nello stesso mese. Ma era il miglior marito che sua sorella potesse avere a Lacorvilla. E stava raccontando ai villici una storia di cui Jimeno era l'eroe. Si meritava un'opportunità.

"E com'è andata, esattamente?" chiese sua sorella.

Jimeno scrollò le spalle.

"Come racconta tuo marito, no?"

Jimena brontolò.

"In questo villaggio raccontano molte cose, e non è il caso di ascoltarne neanche la metà. L'ultimo pettegolezzo che ho sentito è che Sancho e suo figlio si mangiano il carbone che non riescono a venderci" disse Jimena

"ma prima lo avvolgono in bucce di mela".

"Ah, perché, mangiano mele?" disse il bargello, sarcastico.

Sua sorella stava per rispondere, ma Guillén aveva finito di raccontare la storia e qualcuno aveva messo una mano sulla spalla a Jimeno, chiedendogli:

"Davvero gli avete conficcato una spada nel cuore?"

"Come?" Il bargello si girò verso l'uomo, distratto. Si accorse che tutti lo stavano guardando e sentì un calore improvviso che nulla aveva a che vedere con la temperatura. "No, nello stomaco. In quella zona non ci sono ossa ed è più facile che la lama penetri. La morte non sopraggiunge istantanea, ma è un colpo fatale". Mimò con le mani il movimento della spada che penetra nella carne. "Fatale".

I villici assentirono in segno di approvazione. Un colpo fatale, dissero.

Sissignore, è così che si fa.

Jimeno ricevette altre pacche sulle spalle e parecchi ringraziamenti. Alcuni si informarono sulla salute di suo figlio o sulla gravidanza di Arlena.

Sapendo che presto avrebbe dovuto chiedere loro un favore, cercò di essere tanto cortese quanto le sue rozze maniere da soldato gli consentirono. Normalmente non era una persona benvoluta, ma quando il villaggio si sentiva minacciato nessuno sembrava lamentarsi di avere un bargello che sapeva impugnare la spada.

Non sapeva molto bene come presentare la situazione. Sapeva cosa voleva da loro, ma non come chiederglielo. Per fortuna, sua sorella fece una domanda grazie alla quale ebbe l'occasione di prendere l'iniziativa.

"Alcuni di noi hanno sentito dire che il brigante non era solo" iniziò Jimena,

"cosa ne sapete voi? Ce ne sono altri, sulla montagna?"

Guillén gli tese la mano perché salisse anche lui sul tavolo e Jimeno la accettò. Poi il pastore scese lasciandolo solo. Il bargello fu costretto a tenere la testa china per non sbattere sul soffitto. In paese non costruivano case per giganti. Arricciò il naso sentendo con maggior forza l'odore della gente nella taverna. Era come se dopo essere salito su quel tavolo, l'odore raggiungesse il suo naso più facilmente. Era molto sgradevole, era l'odore di chi ha paura e ha bisogno di essere tranquillizzato. Da lassù vide il volto

annerito di Sancho il Nero. Si scambiarono muti sguardi d'odio. Il bargello sguainò la spada.

Come aveva immaginato, quel gesto attirò l'attenzione dei presenti.

Appoggiò la punta sul tavolo e strinse le dita intorno all'impugnatura, una sensazione familiare che lo fece sentire come un gigante guerriero davanti a quella moltitudine. Batté con il piede sul tavolo per ben quattro volte per attirare l'attenzione di quelli che stavano ancora parlando tra loro. Dovette anche gridare a quelli che non stavano zitti. Voleva dimostrare che l'uomo che bussava alle loro porte per riscuotere le gabelle era qualcosa di più.

Jimeno, il bargello, vegliava su di loro.

“Cittadini di Lacorvilla!” cominciò. “Ieri ho ucciso un brigante, sì. E non credo che fosse solo, no". Un mormorio di preoccupazione corse tra i presenti. Jimeno batté di nuovo sul tavolo chiedendo di fare silenzio.

"Qualche giorno fa, Guillén mi disse che gli era sparita una pecora ma non gli diedi troppa importanza. Sono cose che succedono, lo sappiamo tutti.

 

Ma alla seconda e alla terza pecora mancanti cominciai ad avere qualche sospetto. Un ladro di bestiame non oserebbe rubare pochi capi alla volta in giorni così ravvicinati. Doveva trattarsi per forza di più uomini".

"Gli albari!" gridò qualcuno. Un coro di voci preoccupate gli fece eco.

Jimeno imprecò. Lo sapevano già. Cercò Sancho tra la folla, certo che fosse stato lui a far girare la voce tra i compaesani senza chiedergli il permesso. Strinse con forza il pomo della spada e decise di continuare, ormai non aveva più senso tirare in lungo.

"Nel momento in cui cominciai a sospettare che ci fossero dei banditi sulle nostre terre mi diressi verso il monte della Carbonera per dare un'occhiata in un certo posto adatto all'insediamento di un accampamento. Sapete bene di cosa parlo: il pozzo di San Giovanni. Portai mio figlio con me ed esplorammo quella zona. Sapete già quello che è successo dopo" e fece una pausa teatrale. "Gli albari sono qui. Non agitatevi, state tranquilli! So cosa fare, adesso" aggiunse, mentre i presenti esprimevano i loro dubbi.

"Ho già avuto a che fare con briganti come questi. Sembrano invincibili ma sono solo dei vigliacchi. Chi si nasconde in montagna in pieno inverno lo fa

perché ha paura di essere scoperto. Ieri abbiamo dato il fatto suo a uno di loro e l'altro è scappato con la coda tra le gambe. Ho intenzione di infliggere lo stesso trattamento a tutti loro.

"Oggi andrò a Yéquera a parlare con il signore del castello e gli proporrò di autorizzarmi a addestrare i miei bravi vicini per condurre una lotta breve e trionfale. Accetterà! Sa che i briganti sono già spaventati perché ieri hanno perso un uomo e adesso sono ancora più deboli. Non chiederò uomini valorosi perché so che in questo villaggio tutti lo sono" affermò. La spavalderia fu ben accolta dai compaesani che lo acclamarono. "Faccio appello agli uomini più forti, uomini che siano in grado di spaccare la testa di quei parassiti con una bastonata. Uomini capaci di colpirli con la loro scure con la stessa facilità con cui abbatterebbero un albero. Uomini che con la forza di chi protegge la sua gente siano disposti a spaccare le ossa a quei disertori. Uomini come Bermudo" esclamò indicando l'oste "che ha tagliato la testa di un maomettano con un solo colpo di spada. Tutti insieme scacceremo quei maledetti e lanceremo un messaggio chiaro ai futuri ladri: nel nostro villaggio non permettiamo che ci rubino ciò che è nostro! Non siamo una banda di codardi che aspetta che altri risolvano i problemi al posto loro, no! Vicini, chi vuole entrare a far parte delle storie che un giorno ascolteranno vostri nipoti?"

Nella taverna sovraffollata si udirono due voci: quella degli uomini, che si sentivano tutti novelli Alfonso I el Batallador, il Battagliero, e quella delle donne che chiedevano di usare il buonsenso prima di prendere una simile decisione, rivolte a mariti che non le ascoltavano. Tutto quel vociare impediva di cogliere anche solo una parola, ma Jimeno capì che era riuscito a convincere molti di loro affinché si unissero all'impresa. Serrò le dita intorno alla spada e si concentrò sulla solidità dell'impugnatura. Certo, quella spada il giorno prima gli aveva fatto ottenere una piccola vittoria, ma presto l'avrebbe impugnata davanti ai suoi uomini. Chissà quanti dei presenti si sarebbero rivelati buoni soldati?

Sancho il Nero si avvicinò al tavolo a sua volta e fece per salire. Jimeno gli mise un piede davanti e glielo impedì.

"Che cosa vuoi?" gli disse dall'alto, aggressivo.

"Non avete detto che ad ammazzarlo siamo stati in tre" lo accusò il Nero.

"E dei due che erano, ne abbiamo fatto fuori uno solo".

Sancho voltò le spalle a Jimeno. Rinunciò al tavolo decidendo di salire su uno sgabello, e Jimeno non poté evitarlo. Per qualche ragione che il bargello non riusciva a capire, il Nero sapeva suscitare una certa simpatia intorno a sé.

La miseria in cui versava e la sua sfortuna lo avevano reso una persona da compatire. La sua sagoma sottile si erse in modo da poter essere visto sopra le teste degli altri; era un uomo di bassa statura ed emaciato. Aveva la pelle scura a causa dello strato di carbone che mascherava il suo vero colore. Jimeno non poteva vederlo in faccia ma immaginava che stesse esaminando i visi dei presenti con quei suoi strani occhi. Gli occhi ossuti di un teschio in preda all'agitazione. Tossiva ininterrottamente. I capelli lunghi e scoloriti e la barba incolta gli conferivano un aspetto miserabile.

Indossava pesanti scarpe invernali, confezionate da lui stesso, ma il resto del suo abbigliamento testimoniava l'estrema miseria in cui viveva. La camicia e le brache avevano più rammendi che stoffa originale e per quanto lavasse i suoi vestiti, le macchie dovute all'usura non si potevano pulire. Erano inoltre abiti troppo grandi per il suo corpo smagrito, e nessuno in paese si sarebbe stupito se li avesse rubati a un morto; era in effetti una delle voci che circolava su di lui, insieme a molte altre.

Jimeno si infuriò vedendo che in taverna regnava il silenzio senza che Sancho avesse dovuto chiederlo. Il dannato carbonaio voleva sempre esprimere la sua opinione, sapendo che sarebbe stato ascoltato: ma il risultato avrebbe potuto rivelarsi fatale. Jimeno fu costretto a pensare in fretta come poter ribattere efficacemente alle sue parole, in caso contrario il carbonaio sarebbe riuscito a far dimenticare immediatamente ai compaesani il coraggio che Jimeno aveva appena suscitato in loro.

Maledetto Nero!

Il carbonaio parlò.

"Non temo di unirmi alla lotta con i miei compaesani. Però mi piacerebbe capire con certezza quale sia la minaccia che dovremo affrontare. Il bargello non vi ha detto tutta la verità" annunciò il Nero. "Forse non ha voluto spaventarvi spiegandovi quello che sta succedendo veramente, ma prima o poi lo scoprirete e a me sembra giusto che lo sappiate tutti.

Abbiamo dovuto metterci in tre per sconfiggere uno solo di loro. E ce l'abbiamo fatta solo perché l'altro brigante è rimasto a guardare".

Quelle affermazioni sì che provocarono una gran confusione. Per qualche minuto fu impossibile ristabilire il silenzio e alcuni, tra i quali vi erano uomini forti come quelli che cercava Jimeno, persero la speranza.

"Jimeno, è vero?"

"In tutti i gruppi di guerrieri c'è sempre qualche valoroso e qualche codardo" disse loro. Quel dannato Sancho stava minando la fiducia dei loro compaesani con storielle dell'orrore buone per i bambini. Il bargello pensava che gli albari non fossero pericolosi neanche la metà di quanto pensavano gli altri. "Quello coraggioso è morto ieri. Quante possibilità ci sono che gli altri albari siano tutti come quello che è morto e non come quello che è fuggito? Nessuna! Non sono fantasmi, né mostri, né spettri maligni. Sono semplici briganti sfuggiti alla giustizia per troppo tempo. Non bisogna trasformare in diluvio delle semplici gocce d'acqua. Non lasciate che Sancho vi inondi di paura. Tutta la fama di cui godono gli albari non è che una leggenda, e solo i bambini si spaventano per le storie di mostri".

Jimeno rifletté che forse chiamarli bambini non era stata un'ottima idea, ma almeno era riuscito a mitigare le loro preoccupazioni circa i briganti. Strinse i denti mentre pensava a cos'altro dire.

Il Negro lo anticipò.

"Come potete dire così, dopo quello che è successo durante gli ultimi inverni?" disse a voce bassa, come se gli stesse rimproverando un comportamento indegno. "Che cosa credete che ci renda diversi dagli altri villaggi?"

"Io!" rispose immediatamente il bargello. "Io sono qui, con voi. Gli altri

villaggi erano indifesi e sono stati devastati, ma qui ci sono io per fare fronte al pericolo. Ciò che ho detto prima non è cambiato: voglio uomini disposti ad opporsi a quei briganti. Che siano albari o no".