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Pinocchio

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Pinocchio
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Pinocchio
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XXIV. Pinocchio arriva all’isola delle Api industriose e ritrova la Fata.

Pinocchio, animato dalla speranza di arrivare in tempo a dare aiuto al suo povero babbo, nuotò tutta quanta la notte.

E che orribile nottata fu quella! Diluviò, grandinò, tuonò spaventosamente, e con certi lampi che pareva di giorno.

Sul far del mattino, gli riuscì di vedere poco distante una lunga striscia di terra. Era un’isola in mezzo al mare.

Allora fece di tutto per arrivare a quella spiaggia: ma inutilmente. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi, se lo abballottavano fra di loro, come se fosse stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine, e per sua buona fortuna, venne un’ondata tanto prepotente e impetuosa, che lo scaraventò di peso sulla rena del lido.

Il colpo fu così forte che, battendo in terra, gli crocchiarono tutte le costole e tutte le congiunture: ma si consolò subito col dire:

– Anche per questa volta l’ho proprio scampata bella!

Intanto a poco a poco il cielo si rasserenò; il sole apparve fuori in tutto il suo splendore e il mare diventò tranquillissimo e buono come un olio.

Allora il burattino distese i suoi panni al sole per rasciugarli e si pose a guardare di qua e di là se per caso avesse potuto scorgere su quella immensa spianata d’acqua una piccola barchetta con un omino dentro. Ma dopo aver guardato ben bene, non vide altro dinanzi a sé che cielo, mare e qualche vela di bastimento, ma così lontana, che pareva una mosca.

– Sapessi almeno come si chiama quest’isola! – andava dicendo. – Sapessi almeno se quest’isola è abitata da gente di garbo, voglio dire da gente che non abbia il vizio di attaccare i ragazzi ai rami degli alberi; ma a chi mai posso domandarlo? A chi, se non c’è nessuno?..

Quest’idea di trovarsi solo, solo, solo in mezzo a quel gran paese disabitato, gli messe addosso tanta malinconia, che stava lì lì per piangere; quando tutt’a un tratto vide passare, a poca distanza dalla riva, un grosso pesce, che se ne andava tranquillamente per i fatti suoi, con tutta la testa fuori dell’acqua.

Non sapendo come chiamarlo per nome, il burattino gli gridò a voce alta, per farsi sentire:

– Ehi, signor pesce, che mi permetterebbe una parola?

– Anche due, – rispose il pesce, il quale era un Delfino così garbato, come se ne trovano pochi in tutti i mari del mondo.

– Mi farebbe il piacere di dirmi se in quest’isola vi sono dei paesi dove si possa mangiare, senza pericolo d’esser mangiati?

– Ve ne sono sicuro, – rispose il Delfino. – Anzi, ne troverai uno poco lontano di qui.

– E che strada si fa per andarvi?

– Devi prendere quella viottola là, a mancina, e camminare sempre diritto al naso. Non puoi sbagliare.

– Mi dica un’altra cosa. Lei che passeggia tutto il giorno e tutta la notte per il mare, non avrebbe incontrato per caso una piccola barchettina con dentro il mi’ babbo?

– E chi è il tuo babbo?

– Gli è il babbo più buono del mondo, come io sono il figliuolo più cattivo che si possa dare.

– Colla burrasca che ha fatto questa notte, – rispose il delfino, – la barchettina sarà andata sott’acqua.

– E il mio babbo?

– A quest’ora l’avrà inghiottito il terribile Pesce-cane, che da qualche giorno è venuto a spargere lo sterminio e la desolazione nelle nostre acque.

– Che è grosso di molto questo Pesce-cane? – domandò Pinocchio, che digià cominciava a tremare dalla paura.

– Se gli è grosso!.. – replicò il Delfino. – Perché tu possa fartene un’idea, ti dirò che è più grosso di un casamento di cinque piani, ed ha una boccaccia così larga e profonda, che ci passerebbe comodamente tutto il treno della strada ferrata colla macchina accesa.

– Mamma mia! – gridò spaventato il burattino: e rivestitosi in fretta e furia, si voltò al delfino e gli disse: – Arrivedella, signor pesce: scusi tanto l’incomodo e mille grazie della sua garbatezza.

Detto ciò, prese subito la viottola e cominciò a camminare di un passo svelto; tanto svelto, che pareva quasi che corresse. E a ogni più piccolo rumore che sentiva, si voltava subito a guardare indietro, per la paura di vedersi inseguire da quel terribile pesce-cane grosso come una casa di cinque piani e con un treno della strada ferrata in bocca.

Dopo mezz’ora di strada, arrivò a un piccolo paese detto «Il paese delle Api industriose». Le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti lavoravano, tutti avevano qualche cosa da fare. Non si trovava un ozioso o un vagabondo nemmeno a cercarlo col lumicino.

– Ho capito, – disse subito quello svogliato di Pinocchio, – questo paese non è fatto per me! Io non son nato per lavorare!

Intanto la fame lo tormentava, perché erano oramai passate ventiquattr’ore che non aveva mangiato più nulla; nemmeno una pietanza di veccie.

Che fare?

Non gli restavano che due modi per potersi sdigiunare: o chiedere un po’ di lavoro, o chiedere in elemosina un soldo o un boccone di pane.

A chiedere l’elemosina si vergognava: perché il suo babbo gli aveva predicato sempre che l’elemosina hanno il diritto di chiederla solamente i vecchi e gl’infermi. I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di assistenza e di compassione, non sono altro che quelli che, per ragione d’età o di malattia, si trovano condannati a non potersi più guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare: e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro.

In quel frattempo, passò per la strada un uomo tutto sudato e trafelato, il quale da sé tirava con gran fatica due carretti carichi di carbone.

Pinocchio, giudicandolo dalla fisonomia per un buon uomo, gli si accostò e, abbassando gli occhi dalla vergogna, gli disse sottovoce:

– Mi fareste la carità di darmi un soldo, perché mi sento morir dalla fame?

– Non un soldo solo, – rispose il carbonaio, – ma te ne do quattro, a patto che tu m’aiuti a tirare fino a casa questi due carretti di carbone.

– Mi meraviglio! – rispose il burattino quasi offeso, – per vostra regola io non ho fatto mai il somaro: io non ho mai tirato il carretto!..

– Meglio per te! – rispose il carbonaio. – Allora, ragazzo mio, se ti senti davvero morir dalla fame, mangia due belle fette della tua superbia e bada di non prendere un’indigestione.

Dopo pochi minuti passò per la via un muratore, che portava sulle spalle un corbello di calcina.

– Fareste, galantuomo, la carità d’un soldo a un povero ragazzo, che sbadiglia dall’appetito?

– Volentieri; vieni con me a portar calcina, – rispose il muratore, – e invece d’un soldo, te ne darò cinque.

– Ma la calcina è pesa, – replicò Pinocchio, – e io non voglio durar fatica.

– Se non vuoi durar fatica, allora, ragazzo mio, – divertiti a sbadigliare, e buon pro ti faccia.

In men di mezz’ora passarono altre venti persone, e a tutte Pinocchio chiese un po’ d’elemosina, ma tutte gli risposero:

– Non ti vergogni? Invece di fare il bighellone per la strada, và piuttosto a cercarti un po’ di lavoro, e impara a guadagnarti il pane!

Finalmente passò una buona donnina che portava due brocche d’acqua.

– Vi contentate, buona donna, che io beva una sorsata d’acqua alla vostra brocca? – disse Pinocchio, che bruciava dall’arsione della sete.

– Bevi pure, ragazzo mio! – disse la donnina, posando le due brocche in terra.

Quando Pinocchio ebbe bevuto come una spugna, borbottò a mezza voce, asciugandosi la bocca:

– La sete me la sono levata! Così mi potessi levar la fame!..

La buona donnina, sentendo queste parole, soggiunse subito:

– Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d’acqua, ti darò un bel pezzo di pane.

Pinocchio guardò la brocca, e non rispose né sì né no.

– E insieme col pane ti darò un bel piatto di cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto, – soggiunse la buona donna.

Pinocchio dette un’altra occhiata alla brocca, e non rispose né sì né no.

– E dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio.

Alle seduzioni di quest’ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe più resistere e, fatto un animo risoluto, disse:

– Pazienza! Vi porterò la brocca fino a casa!

La brocca era molto pesa, e il burattino, non avendo forza da portarla colle mani, si rassegnò a portarla in capo.

Arrivati a casa, la buona donnina fece sedere Pinocchio a una piccola tavola apparecchiata e gli pose davanti il pane, il cavolfiore condito e il confetto.

Pinocchio non mangiò, ma diluviò. Il suo stomaco pareva un quartiere rimasto vuoto e disabitato da cinque mesi.

Calmati a poco a poco i morsi rabbiosi della fame, allora alzò il capo per ringraziare la sua benefattrice; ma non aveva ancora finito di fissarla in volto, che cacciò un lunghissimo ohhh!.. di maraviglia e rimase là incantato, cogli occhi spalancati, colla forchetta per aria e colla bocca piena di pane e di cavolfiore.

– Che cos’è mai tutta questa maraviglia? – disse ridendo la buona donna.

– Egli è… – rispose balbettando Pinocchio, – egli è… egli è… che voi somigliate… voi mi rammentate… sì, sì, sì, la stessa voce… gli stessi occhi.. gli stessi capelli… sì, sì, sì… anche voi avete i capelli turchini… come lei!.. O Fatina mia!.. O Fatina mia!.. ditemi che siete voi, proprio voi!.. Non mi fate più piangere! Se sapeste!.. Ho pianto tanto, ho patito tanto..

E nel dir così, Pinocchio piangeva dirottamente, e gettandosi ginocchioni per terra, abbracciava i ginocchi di quella donnina misteriosa.

XXV. Pinocchio promette alla Fata di essere buono e di studiare, perché è stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo.

In sulle prime la buona donnina cominciò col dire che lei non era la piccola Fata dai capelli turchini: ma poi, vedendosi oramai scoperta e non volendo mandare più a lungo la commedia, fini col farsi riconoscere, e disse a Pinocchio:

 

– Birba d’un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io?

– Gli è il gran bene che vi voglio quello che me l’ha detto.

– Ti ricordi? Mi lasciasti bambina e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma.

– L’ho caro dimolto, perché così, invece di sorellina, vi chiamerò la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!.. Ma come avete fatto a crescere così presto?

– È un segreto.

– Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch’io. Non lo vedete? Sono sempre rimasto alto come un soldo di cacio.

– Ma tu non puoi crescere, – replicò la Fata.

– Perché?

– Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.

– Oh! sono stufo di far sempre il burattino! – gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. – Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo come tutti gli altri.

– E lo diventerai, se saprai meritartelo…

– Davvero? E che posso fare per meritarmelo?

– Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.

– O che forse non sono?

– Tutt’altro! I ragazzi perbene sono ubbidienti, e tu invece…

– E io non ubbidisco mai.

– I ragazzi perbene prendono amore allo studio e al lavoro, e tu…

– E io, invece, faccio il bighellone e il vagabondo tutto l’anno.

– I ragazzi perbene dicono sempre la verità…

– E io sempre le bugie.

– I ragazzi perbene vanno volentieri alla scuola…

– E a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi voglio mutar vita.

– Me lo prometti?

– Lo prometto. Voglio diventare un ragazzino perbene e voglio essere la consolazione del mio babbo… Dove sarà il mio povero babbo a quest’ora?

– Non lo so.

– Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?

– Credo di sì: anzi ne sono sicura.

A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchio, che prese le mani alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta foga, che pareva quasi fuori di sé. Poi, alzando il viso e guardandola amorosamente, le domandò:

– Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu sia morta?

– Par di no, – rispose sorridendo la Fata.

– Se tu sapessi, che dolore e che serratura alla gola che provai, quando lessi qui giace…

– Lo so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia, c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perché son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma…

– Oh! che bella cosa! – gridò Pinocchio saltando dall’allegrezza.

– Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io.

– Volentieri, volentieri, volentieri!

– Fino da domani, – soggiunse la Fata, – tu comincerai coll’andare a scuola.

Pinocchio diventò subito un po’ meno allegro.

– Poi sceglierai a tuo piacere un’arte o un mestiere…

Pinocchio diventò serio.

– Che cosa brontoli fra i denti? – domandò la Fata con accento risentito.

– Dicevo… – mugolò il burattino a mezza voce, – che oramai per andare a scuola mi pare un po’ tardi…

– Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi.

– Ma io non voglio fare né arti né mestieri…

– Perché?

– Perché a lavorare mi par fatica.

– Ragazzo mio, – disse la Fata, – quelli che dicono così, finiscono quasi sempre o in carcere o all’ospedale. L’uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia, e bisogna guarirla subito, fin da ragazzi: se no, quando siamo grandi, non si guarisce più.

Queste parole toccarono l’animo di Pinocchio, il quale rialzando vivacemente la testa disse alla Fata:

– Io studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perché, insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero?

– Te l’ho promesso, e ora dipende da te.

XXVI. Pinocchio va co’ suoi compagni di scuola in riva al mare, per vedere il terribile Pescecane.

Il giorno dopo Pinocchio andò alla scuola comunale.

Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino! Fu una risata, che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro; chi gli levava il berretto di mano; chi gli tirava il giubbettino di dietro; chi si provava a fargli coll’inchiostro due grandi baffi sotto il naso; e chi si attentava perfino a legargli dei fili ai piedi e alle mani per farlo ballare.

Per un poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò via; ma finalmente, sentendosi scappar la pazienza, si rivolse a quelli, che più lo tafanavano e si pigliavano gioco di lui, e disse loro a muso duro:

– Badate, ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone. Io rispetto gli altri e voglio essere rispettato.

– Bravo berlicche! Hai parlato come un libro stampato! – urlarono quei monelli, buttandosi via dalle matte risate: e uno di loro, più impertinente degli altri allungò la mano coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso.

Ma non fece a tempo: perché Pinocchio stese la gamba sotto la tavola e gli consegnò una pedata negli stinchi.

– Ohi! che piedi duri! – urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che gli aveva fatto il burattino.

– E che gomiti!.. anche più duri dei piedi! – disse un altro che, per i suoi scherzi sguaiati, s’era beccata una gomitata nello stomaco.

Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata Pinocchio acquistò subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un bene dell’anima.

E anche il maestro se ne lodava, perché lo vedeva attento, studioso, intelligente, sempre il primo a entrare nella scuola, sempre l’ultimo a rizzarsi in piedi, a scuola finita.

Il solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni: e fra questi, c’erano molti monelli conosciutissimi per la loro poca voglia di studiare e di farsi onore.

Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava di dirgli e di ripetergli più volte:

– Bada, Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno prima o poi col farti perdere l’amore allo studio e, forse forse, col tirarti addosso qualche grossa disgrazia.

– Non c’è pericolo! – rispondeva il burattino, facendo una spallucciata e toccandosi coll’indice in mezzo alla fronte, come per dire: «C’è tanto giudizio qui dentro!».

Ora avvenne che un bel giorno, mentre camminava verso scuola, incontrò un branco dei soliti compagni, che andandogli incontro, gli dissero:

– Sai la gran notizia?

– No.

– Qui nel mare vicino è arrivato un Pesce-cane, grosso come una montagna.

– Davvero?.. Che sia quel medesimo Pesce-cane di quando affogò il mio povero babbo?

– Noi andiamo alla spiaggia per vederlo. Vieni anche tu?

– Io, no: voglio andare a scuola.

– Che t’importa della scuola? Alla scuola ci anderemo domani. Con una lezione di più o con una di meno, si rimane sempre gli stessi somari.

– E il maestro che dirà?

– Il maestro si lascia dire. È pagato apposta per brontolare tutto il giorno.

– E la mia mamma?..

– Le mamme non sanno mai nulla, – risposero quei malanni.

– Sapete che cosa farò? – disse Pinocchio. – Il Pesce-cane voglio vederlo per certe mie ragioni… ma anderò a vederlo dopo la scuola.

– Povero giucco! – ribatté uno del branco. – Che credi che un pesce di quella grossezza voglia star lì a fare il comodo tuo? Appena s’è annoiato, piglia il dirizzone per un’altra parte, e allora chi s’è visto s’è visto.

– Quanto tempo ci vuole di qui alla spiaggia? – domandò il burattino.

– Fra un’ora, siamo bell’e andati e tornati.

– Dunque, via! e chi più corre, è più bravo! – gridò Pinocchio.

Dato così il segnale della partenza, quel branco di monelli, coi loro libri e i loro quaderni sotto il braccio, si messero a correre attraverso ai campi; e Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che avesse le ali ai piedi.

Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti a una bella distanza, e nel vederli, ansanti, trafelati, polverosi e con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore. Lo sciagurato in quel momento non sapeva a quali paure e a quali orribili disgrazie andava incontro!..

XXVII. Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni: uno de’ quali essendo rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato dai carabinieri.

Giunto che fu sulla spiaggia, Pinocchio dette subito una grande occhiata sul mare; ma non vide nessun Pesce-cane.

Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da specchio.

– O il Pesce-cane dov’è? – domandò, voltandosi ai compagni.

– Sarà andato a far colazione, – rispose uno di loro, ridendo.

– O si sarà buttato sul letto per far un sonnellino, – soggiunse un altro, ridendo più forte che mai.

Da quelle risposte sconclusionate e da quelle risatacce grulle, Pinocchio capì che i suoi compagni gli avevano fatto una brutta celia, dandogli ad intendere una cosa che non era vera; e pigliandosela a male, disse a loro con voce di bizza:

– E ora? Che sugo ci avete trovato a darmi ad intendere la storiella del Pesce-cane?

– Il sugo c’è sicuro!.. – risposero in coro quei monelli.

– E sarebbe?..

– Quello di farti perdere la scuola e di farti venire con noi. Non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni così preciso e così diligente alle lezioni? Non ti vergogni a studiar tanto, come fai?

– E se io studio, che cosa ve ne importa?

– A noi ce ne importa moltissimo perché ci costringi a fare una brutta figura col maestro…

– Perché?

– Perché gli scolari che studiano fanno sempre scomparire quelli, come noi, che non hanno voglia di studiare. E noi non vogliamo scomparire! Anche noi abbiamo il nostro amor proprio!..

– E allora che cosa devo fare per contentarvi?

– Devi prendere a noia, anche tu, la scuola, la lezione e il maestro, che sono i nostri tre grandi nemici.

– E se io volessi seguitare a studiare?

– Noi non ti guarderemo più in faccia, e alla prima occasione ce la pagherai!..

– In verità mi fate quasi ridere, – disse il burattino con una scrollatina di capo.

– Ehi, Pinocchio! – gridò allora il più grande di quei ragazzi, andandogli sul viso. – Non venir qui a fare lo smargiasso: non venir qui a far tanto il galletto!.. Perché se tu non hai paura di noi, noi non abbiamo paura di te! Ricordati che tu sei solo e noi siamo in sette.

– Sette come i peccati mortali, – disse Pinocchio con una gran risata.

– Avete sentito? Ci ha insultati tutti! Ci ha chiamati col nome di peccati mortali!..

– Pinocchio! chiedici scusa dell’offesa… se no, guai a te!..

– Cucù! – fece il burattino, battendosi coll’indice sulla punta del naso, in segno di canzonatura.

– Pinocchio! la finisce male!..

– Cucù!

– Ne toccherai quanto un somaro!..

– Cucù!

– Ritornerai a casa col naso rotto!..

– Cucù!

– Ora il cucù te lo darò io! – gridò il più ardito di quei monelli. – Prendi intanto quest’acconto e serbalo per la cena di stasera.

E nel dir così gli appiccicò un pugno sul capo.

Ma fu, come si suol dire, botta e risposta; perché il burattino, come c’era da aspettarselo, rispose con un altro pugno: e lì, da un momento all’altro, il combattimento diventò generale e accanito.

Pinocchio, sebbene fosse solo, si difendeva come un eroe. Con quei suoi piedi di legno durissimo lavorava così bene, da tener sempre i suoi nemici a rispettosa distanza. Dove i suoi piedi potevano arrivare e toccare, ci lasciavano sempre un livido per ricordo.

Allora i ragazzi, indispettiti di non potersi misurare col burattino a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai proiettili, e sciolti i fagotti de’ loro libri di scuola, cominciarono a scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini e altri libri scolastici: ma il burattino, che era d’occhio svelto e ammalizzito, faceva sempre civetta a tempo, sicché i volumi, passandogli di sopra al capo, andavano tutti a cascare nel mare.

 

Figuratevi i pesci! I pesci, credendo che quei libri fossero roba da mangiare, correvano a frotte a fior d’acqua; ma dopo avere abboccata qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito facendo con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire: «Non è roba per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto meglio!»

Intanto il combattimento s’inferociva sempre più, quand’ecco che un grosso Granchio, che era uscito fuori dell’acqua e s’era adagio adagio arrampicato fin sulla spiaggia, gridò con una vociaccia di trombone infreddato:

– Smettetela, birichini che non siete altro! Queste guerre manesche fra ragazzi e ragazzi raramente vanno a finir bene. Qualche disgrazia accade sempre!..

Povero Granchio! Fu lo stesso che avesse predicato al vento. Anzi quella birba di Pinocchio, voltandosi indietro a guardarlo in cagnesco, gli disse sgarbatamente:

– Chétati, Granchio dell’uggia!.. Faresti meglio a succiare due pasticche di lichene per guarire da codesta infreddatura di gola. Vai piuttosto a letto e cerca di sudare!

In quel frattempo i ragazzi, che avevano finito oramai di tirare tutti i loro libri, occhiarono lì a poca distanza il fagotto dei libri del burattino, e se ne impadronirono in men che non si dice.

Fra questi libri, v’era un volume rilegato in cartoncino grosso, colla costola e colle punte di cartapecora. Era un Trattato di Aritmetica. Vi lascio immaginare se era peso dimolto!

Uno di quei monelli agguantò quel volume e, presa di mira la testa di Pinocchio, lo scagliò con quanta forza aveva nel braccio: ma invece di cogliere il burattino, colse nella testa uno dei compagni; il quale diventò bianco come un panno lavato, e non disse altro che queste parole:

– O mamma mia, aiutatemi… perché muoio!

Poi cadde disteso sulla rena del lido.

Alla vista di quel morticino, i ragazzi spaventati si dettero a scappare a gambe e in pochi minuti non si videro più.

Ma Pinocchio rimase lì, e sebbene per il dolore e per lo spavento, anche lui fosse più morto che vivo, nondimeno corse a inzuppare il suo fazzoletto nell’acqua del mare e si pose a bagnare la tempia del suo povero compagno di scuola. E intanto piangendo dirottamente e disperandosi, lo chiamava per nome e gli diceva:

– Eugenio!.. povero Eugenio mio!.. apri gli occhi, e guardami!.. Perché non mi rispondi? Non sono stato io, sai, che ti ho fatto tanto male! Credilo, non sono stato io!.. Apri gli occhi, Eugenio… Se tieni gli occhi chiusi, mi farai morire anche me… O Dio mio! come farò ora a tornare a casa?.. Con che coraggio potrò presentarmi alla mia buona mamma? Che sarà di me?.. Dove fuggirò?.. Dove andrò a nascondermi?.. Oh! quant’era meglio, mille volte meglio che fossi andato a scuola!.. Perché ho dato retta a questi compagni, che sono la mia dannazione?.. E il maestro me l’aveva detto!.. e la mia mamma me lo aveva ripetuto: «Guàrdati dai cattivi compagni!». Ma io sono un testardo… un caparbiaccio… lascio dir tutti, e poi fo sempre a modo mio!.. E dopo mi tocca a scontarle… E così, da che sono al mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di bene. Dio mio! Che sarà di me, che sarà di me, che sarà di me?..

E Pinocchio continuava a piangere, e berciare, a darsi pugni nel capo e a chiamar per nome il povero Eugenio: quando sentì a un tratto un rumore sordo di passi che si avvicinavano.

Si voltò: erano due carabinieri

– Che cosa fai così sdraiato per terra? – domandarono a Pinocchio.

– Assisto questo mio compagno di scuola.

– Che gli è venuto male?

– Par di sì!..

– Altro che male! – disse uno dei carabinieri, chinandosi e osservando Eugenio da vicino. – Questo ragazzo è stato ferito in una tempia: chi è che l’ha ferito?

– Io no, – balbettò il burattino che non aveva più fiato in corpo.

– Se non sei stato tu, chi è stato dunque che l’ha ferito?

– Io no, – ripeté Pinocchio.

– E con che cosa è stato ferito?

– Con questo libro. – E il burattino raccattò di terra il Trattato di Aritmetica, rilegato in cartone e cartapecora, per mostrarlo al carabiniere.

– E questo libro di chi è?

– Mio.

– Basta così: non occorre altro. Rìzzati subito e vieni via con noi.

– Ma io…

– Via con noi!

– Ma io sono innocente…

– Via con noi!

Prima di partire, i carabinieri chiamarono alcuni pescatori, che in quel momento passavano per l’appunto colla loro barca vicino alla spiaggia, e dissero loro:

– Vi affidiamo questo ragazzetto ferito nel capo. Portatelo a casa vostra e assistetelo. Domani torneremo a vederlo.

Quindi si volsero a Pinocchio, e dopo averlo messo in mezzo a loro due, gl’intimarono con accento soldatesco:

– Avanti! e cammina spedito! se no, peggio per te!

Senza farselo ripetere, il burattino cominciò a camminare per quella viottola, che conduceva al paese. Ma il povero diavolo non sapeva più nemmeno lui in che mondo si fosse. Gli pareva di sognare, e che brutto sogno! Era fuori di sé. I suoi occhi vedevano tutto doppio: le gambe gli tremavano: la lingua gli era rimasta attaccata al palato e non poteva più spiccicare una sola parola. Eppure, in mezzo a quella specie di stupidità e di rintontimento, una spina acutissima gli bucava il cuore: il pensiero, cioè, di dover passare sotto le finestre di casa della sua buona Fata, in mezzo ai carabinieri. Avrebbe preferito piuttosto di morire.

Erano già arrivati e stavano per entrare in paese, quando una folata di vento strapazzone levò di testa a Pinocchio il berretto, portandoglielo lontano una decina di passi.

– Si contentano, – disse il burattino ai carabinieri, – che vada a riprendere il mio berretto?

– Vai pure: ma facciamo una cosa lesta.

Il burattino andò, raccattò il berretto… ma invece di metterselo in capo, se lo mise in bocca fra i denti, e poi cominciò a correre di gran carriera verso la spiaggia del mare. Andava via come una palla di fucile.

I carabinieri, giudicando che fosse difficile raggiungerlo, gli aizzarono dietro un grosso cane mastino, che aveva guadagnato il primo premio in tutte le corse dei cani. Pinocchio correva, e il cane correva più di lui: per cui tutta la gente si affacciava alle finestre e si affollava in mezzo alla strada, ansiosa di veder la fine di questo palio feroce.

Ma non poté levarsi questa voglia, perché il cane mastino e Pinocchio sollevarono lungo la strada un tal polverone, che dopo pochi minuti non fu più possibile di veder nulla.