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Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867

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XII.
Nuovi tormenti e nuovi tormentati

– Madre superiora, noi ci presentiamo ancora una volta al venerabile arcispedale di Santo Spirito. Sia ringraziato Iddio benedetto! Per noi è andata abbastanza bene, ma le garantisco che fu un brutto affare, assai brutto.

Queste parole, colle quali uno dei medici, e precisamente quello eccentrico che ho più sopra descritto, salutava la Superiora delle suore entrando nella nostra sala dopo due giorni d'assenza, ci fecero intendere che qualche cosa di grave dovea essere accaduto.

Nulla, già lo dissi, a noi si lasciava trapelare di quanto avveniva fuori dell'ospedale. Dei fatti di Porta S. Paolo, del Campidoglio, di Casa Ajani, di Monte Rotondo noi non sapemmo nulla fino all'arrivo dei feriti di Mentana. Potemmo però comprendere chiaramente da quelle parole che un fatto d'armi era occorso e favorevole ai nostri. Infatti quel sanitario era reduce da Monterotondo.

Alla porta della sala c'era costantemente una sentinella che avea consegna di non lasciar passare se non le persone conosciute e quelle addette al servizio. In quella sera uno dei flebotomi che diceva essere stato sanitario al tempo della repubblica romana, mi confidò sottovoce e sotto sigillo che l'indomani Garibaldi avrebbe assalita Roma.

Questa notizia, ripetuta fra noi, ci riempì di gioia. La tristezza e la preoccupazione invece nell'ospedale si vedean dipinte in volto a tutti, militi, suore e prelati.

Aspettammo impazienti il domani, certi di sentire all'alba tuonare il cannone, invece… nulla.

Le visite in quel giorno furono pochissime. Evidentemente gli animi erano tutti assorbiti da altri pensieri.

Scorsero così due giorni di penosa aspettativa, giorni lunghissimi, noiosi, insoffribili.

Ma alla sera del secondo giorno un prete molto ciarliero, già cappellano nell'armata francese e che veniva spesso ad annoiarci discutendo di politica con quella tracotanza che è tutta propria della sua nazione, venne a visitarci e quasi trionfante ci disse:

– Ora sarete contenti: le truppe francesi stanno sbarcando a Civitavecchia.

Infatti era vero.

Il giorno seguente parecchi ufficiali francesi vennero a visitare l'ospedale. Uno di costoro vedendo appesi ai nostri letti scapolari e medaglie (regali di monaci e suore) ci credette feriti papalini e si rallegrava con noi perchè la nostra devozione ci avea salvati dalla morte. L'equivoco ci fece ridere non poco ed ei rimase, a dir vero, un po' male quando se ne accorse.

Noi però ancora speravamo!

Ma al mattino del giorno 4 novembre d'improvviso la porta della nostra sala si spalancò e questa fu invasa da una turba di flebotomi ed infermieri. Poco dopo comparvero quattro soldati sostenendo un ferito, poi un altro, poi un terzo, un quarto. Alcuni potevano camminare, altri eran portati a braccia o sovra un materasso, molti gemevano, altri imprecavano, chi era ferito alla testa, chi alle braccia, chi al petto, e tutti erano trasportati in una stanza attigua alla nostra, ove erano stati adattati alcuni letti.

Erano i feriti di Mentana.

Uno scoramento indicibile ci prese allorchè potemmo apprendere la triste realtà dei fatti. Si deplorava vivamente l'accaduto, si narravano particolari dolorosissimi, s'imprecava al Governo che non avea dato aiuto, si gridava, si giurava la riscossa. I francesi si sarebbero fucilati, l'imperatore impiccato, il Governo italiano posto in istato d'accusa. L'irritazione era al colmo, perchè il disastro era grande, la catastrofe immensa. Si parlava di eletta gioventù sacrificata, si diceva la colonna Valzania distrutta, i carabinieri livornesi rimasti pochissimi, Garibaldi sconfitto per la prima volta in sua vita, soprafatto dal numero, dalle armi eccellenti, dalle truppe fresche; feriti parecchi graduati, Stallo, Bezzi, Ronco, e fra tutte queste narrazioni i gemiti affermanti la terribile realtà dei fatti, lo strazio dei moribondi, le chiamate, le grida, la disperazione, la morte!

Gli infermieri, le suore, i militi accorrevano al letto ora di questo ed ora di quello. I medici prestarono le prime indispensabili cure e per tutto quel giorno fu un tetro affaccendarsi a collocare feriti, a rifar letti, a moltiplicar giacigli.

Ma sventuratamente arrivavano sempre nuovi convogli. Le sale dell'ospedale di S. Spirito erano incapaci a tanti ricoverati. Perciò l'indomani si dovette pensare ad un provvedimento. Per quella notte però tutti furono adattati alla meglio in S. Spirito.

E fu una notte infernale. Nella nostra stanza ce n'erano stati collocati tre, uno dei quali gemette per lo spasimo dalla sera all'alba. Nella stanza attigua s'udivano grida interrotte, lamenti, urla, scoppi di pianto, imprecazioni, si sentiva chiamare gli infermieri, le suore, i medici; e tanto strazio durò tutta la notte quanto fu lunga!

Nel mattino passò e ripassò il cappellano militare recitando preci, e dietro a lui erano soldati che reggevano enormi involti in lenzuola chiazzate di sangue. Erano due individui portati all'ospedale già moribondi e vaneggianti, morti nella notte senza che se ne potesse sapere il nome! Forse erano padri di famiglia, forse i loro parenti li aspettano ancora, li crederanno dispersi, fuggiti; non avendo avuto nessun annunzio della loro fine, ancora spereranno!

Tra i feriti collocati nella nostra sala ce n'era uno, maestro elementare, cui una palla avea offeso il dito medio della mano diritta che si dovette disarticolare. Non potendo scrivere, mi creò suo segretario e mi dettò parecchie lettere da spedire a suoi parenti ed amici. Tutte su per giù aveano lo stesso stile e dicevan le medesime cose. Sembrava che n'avesse preso il modello da qualche epistolario.

Nel primo giorno dopo il loro arrivo tutti i feriti furono trasportati in un locale a due piani situato a piè della salita di S. Onofrio e appartenente a monsignor Ricci commendatore di Santo Spirito.

Due o tre giorni prima dei dolorosi avvenimenti di Mentana ebbi una lettera dalla mia buona mamma, la quale si struggeva perchè non poteva venire in mio aiuto, e mi pregava di dirle in qual modo mi avrebbe potuto spedire soccorsi. Se non temessi urtare la delicata sua riservatezza, la riporterei, perchè rispecchia al giusto i sentimenti d'una vera madre italiana.20

La lettera, come al solito, portava in fine il visto del general Zappi.

Prima ancora però che io rispondessi, venne incontro al desiderio di mia madre un nostro conoscente che avea qui in Roma qualche influente relazione. Una sera si presentò al mio letto un cappellano militare e mi fece scivolar tra mano venti scudi, dicendomi che questi me li mandava il professor Luccardi da parte di mia madre e che l'indomani sarebbe venuto in persona il detto professore con Sua Eccellenza il Ministro delle armi a consegnarmi il restante d'una somma che avea ordine di farmi tenere.

– Così pure, soggiunsemi, se anche il conte Colloredo avesse bisogno di qualche cosa, il professor Luccardi è dispostissimo in suo favore, essendo amico di suo padre, il conte Giuseppe.

Il Luccardi ed il Kanzler erano cognati perchè mariti alle signore Vannutelli, romane e parenti, se non erro, ai due monsignori, ora cardinali ed al pittore.

Partito il cappellano, comunicai la cosa al Mosettig. Ne fummo impensieriti. La scoperta del pseudo Colloredo in faccia al Ministro delle armi era inevitabile. Chi potea immaginarne le conseguenze? Al postutto però non si trattava che di una sostituzione. Si stabilì quindi che io alla meglio con segni e con gesti facessi intendere al Luccardi il mutamento di nome pregandolo a non tradirci. Il Luccardi però io non lo conosceva e quindi tornava non poco difficile il mio assunto.

All'indomani, alle dieci del mattino vennero infatti il generale ed il Luccardi colle rispettive signore, ma io non ebbi nè tempo nè modo di farmi intendere. Era del resto affatto superfluo, perchè il Luccardi, accostatosi al letto dell'ammalato che tentava celarsi:

– Ah ecco, esclamò, questi è Colloredo! già lo si ravvisa subito, è suo padre spiccicato; tale e quale, nè più nè meno!

Respirai, ed anche il Colloredo, preso coraggio, si scoperse il volto senza timore per poter dar campo al Luccardi di trovare nuove rassomiglianze. Infatti egli andava ripetendo:

– Tutto, tutto suo padre: eravamo tanto amici!

Quanto era viva la mia apprensione prima, altrettanto ridevo in cuor mio dipoi. La cosa infatti volgeva in burletta. Per comprendere la quale bisogna notare che il Luccardi dimorava qui in Roma da molti e molti anni e che se in passato avea conosciuto ed era amico dell'ottimo conte Giuseppe Colloredo, ora defunto, non conosceva però alcuno dei figli suoi o quanto meno li avea conosciuti piccini.

Questo professor Luccardi venne poscia altre volte a trovarmi. Era in complesso un buon uomo: non fu però buon italiano quando accettò da Pio IX l'incarico di fare il monumento commemorante i soldati pontifici a Mentana, monumento che, in omaggio alla politica tolleranza, si ammira ancora a Campo Verano.

Lo rividi poi nel 1870 e fui a visitare anche il suo studio, ma quantunque dovessi riconoscere il merito di taluno dei suoi lavori, pure quel monumento non glielo potetti mai perdonare. E poichè gli dissi l'animo mio francamente quando era vivo, posso ora liberamente ridirlo senza per questo che la sua fama venga offuscata o scemato il suo valore come artista. L'Ajace, uno dei primi suoi lavori, ebbe plausi ed onoranze, ed il Caino, il gruppo del Diluvio, il Raffaello e Fornarina gli procacciarono nuova fama. Il Diluvio anzi venne molto ammirato all'Esposizione mondiale di Parigi di quell'anno e gli fruttò la croce della Legion d'onore.

 

Fra gli altri pochi che spesso ci venivano a visitare, oltre a monsignor Stonor che ci recava frequenti notizie di Giovannino, vi era pure un monsignor Tizzani, uomo di molta coltura e intelligenza, ma per sua sventura vecchio e cieco. Era stato vescovo di Terni, poi avendo perduta la vista, venne creato vescovo in partibus di Nisibi. Campò ancora molto a lungo ed è morto solo da pochi anni.

La conversazione sua era molto piacevole, perchè aneddotica e perchè rivelava un uomo di scienza e di studio. Eppure anch'egli, parlandoci un giorno d'un suo cane da guardia affezionatissimo, lo chiamava Lutero! Piccinerie dell'intransigenza ed effetto d'ambiente che pur troppo talora subiscono anche gli spiriti elevati! S'intratteneva volentieri col Bassini ragionando di medicina, per la quale pare avesse una speciale inclinazione. Anzi ci portò un suo opuscolo stampato su alcuni casi di elefantiasi; non ci seccava mai nè colla confessione nè colle devozioni. Intendeva adempiere un dovere di carità visitandoci ed intrattenendosi con noi, e questo dovere si vedea che l'adempiva con vero sentimento e con profonda convinzione.

Non così potea dirsi d'un giovinotto vanitoso e scapato, quintessenza di sanfedismo sposata ad una donchisciottesca posa di crociato, un giovinotto, che venne un dì a visitarci appunto mentre stavamo conversando con monsignor Tizzani. Seppi dipoi che era un notissimo principe del patriziato romano. Questo signore, italiano pur troppo, baciata la mano al vescovo, prese a magnificare le fatiche ed i disagi da lui sostenuti in quei giorni per la difesa del papa, ossia nel dar la caccia ai nostri, e finiva coll'invitare il prelato ad ammirare l'abnegazione sua e dei suoi compagni i quali, mentre dai garibaldini non avevano avuto che sprezzi di ogni maniera e sputi in faccia (così diceva lui!), ora s'affaccendavano tra l'ospedale di Santo Spirito e quello di Sant'Agata a rendere male per bene ed a soccorrere i garibaldini.

Il vescovo gli rispose, e molto opportunamente, che di fronte alla sventura non vi sono partiti e che la carità, non facendo distinzioni di tal fatta, abbraccia tutti in un medesimo amplesso. E la risposta chiuse la bocca al petulante patrizio, il quale ora, fatto uomo e ripensando a quei giorni, troverà coll'esperienza acquistata per lo meno ridicole, se non deplorevoli, quelle giovanili sue smargiassate.

I feriti all'ospedale di Sant'Onofrio erano sistemati e tutto era organizzato il servizio medico dipendente dall'Ospedale civile di Santo Spirito, quando un bel giorno venne l'ordine di trasportare anche noi assieme agli altri. Provammo un vivissimo dolore all'idea di lasciare quel luogo, dove per le cure del capitano Galliani ricevevamo un'assistenza tutta speciale e dove si godeva d'una quiete per noi preziosa. Anche lui ne provò dispiacere intenso. Da alcune sue mezze frasi e da un leggiero tono di rancore mal celato potemmo comprendere che egli subiva una sopraffazione e che il nostro trasloco non doveva essere se non effetto delle attenzioni da lui usateci, riferite ad autorità superiori, facilmente esagerate e forse alterate.

L'ordine venuto alla mattina doveva eseguirsi subito. Fu ritardato di qualche ora in causa d'un avvenimento inatteso, la visita di Pio IX all'ospedale!

Le porte infatti furono spalancate a due battenti, la sentinella presentò l'arma in ginocchio, s'udirono grida di Evviva Pio IX, evviva il Papa-Re! poi una figura bianco vestita, piuttosto pingue, apparve sul limitare, benedicendo.

Un frate benedettino che seguiva il Papa più da vicino, lo condusse al letto del Mosettig per presentargli il conte Colloredo, di cui probabilmente a Pio IX si era in antecedenza discorso.

Il Papa si accostò al suo letto e sporse la mano destra all'infermo perchè la baciasse. Questi finse di non comprendere l'atto, simulandosi molto aggravato dai dolori, e non la baciò. Al Papa non isfuggì il rifiuto, ne conservò memoria in appresso; intanto anche sul momento volle, indispettito, rendergli la pariglia.

Chi conobbe da vicino Pio IX e la infantile sua vanità che lo rendeva tanto sensibile alle lustre ed alle compiacenze personali, potrà farsi giusta ragione di questa meschina vendetta.

– Soffrite molto? gli chiese.

– Si, rispose asciutto il Colloredo.

– Ebbene, pigliate questi dolori quale salutare penitenza dalla mano di Dio e chiedetegli perdono d'averlo offeso!

E suggellò l'amorevole conforto con l'apostolica benedizione!

Il padre benedettino che l'accompagnava e che, come seppi dipoi, era un Casareto di Genova, all'udire le parole del Papa s'intenerì e gli si mosse una commozione sì abbondante che egli si stemperava in lagrime di gioia le quali gocciavano a quattro a quattro, mentre egli andava esclamando:

– Ah, Santo Padre! ih, Santo Padre! quale degnazione, quanta bontà! e piangeva come un ragazzo.

Poco dopo, partito il pontefice, s'affrettò a rientrare per sentire da noi l'impressione di quell'avvenimento, che per noi doveva essere, secondo lui, veramente straordinario e da segnarsi albo lapillo. Era ancor tutto gongolante e badava a dirci:

– Eh, ci eravamo commossi, non è vero, alla visita del Santo Padre! non potevamo trattenere le lagrime! quanta bontà! quanta dolcezza! Siete pentiti, non è vero? Vero, Colloredo?

– Sì, rispose questi, di non averlo mandato a…

Sopravvennero in buon punto gli infermieri ad annunziarci che la carrozza e le barelle erano pronte, altrimenti la frase del Mosettig, se avesse avuto seguito, avrebbe senza meno essiccate al buon padre Casareto le fonti lacrimatorie tanto facili e copiose.

XIII.
Sant'Onofrio

Riveder la luce del sole dopo la prigionia, respirar l'aria libera a pieni polmoni dopo parecchi giorni d'ospedale è soddisfazione di vita nuova, è respiro di giovinezza!

Non eravamo liberi, no, tutt'altro! anzi avevamo la certezza di andare a star peggio; ma per il momento quella boccata d'aria, la vista libera della natura ampiamente serena, del cielo purissimo, ci ricreava lo spirito come la promessa di giorni migliori.

Mentre si attendeva sulla porta dell'ospedale un delegato militare il quale ci dovea scortare, si fece crocchio di curiosi intorno a noi. Ci guardavano e squadravano da capo a piedi come si guarderebbero gli zingari, ad una rispettosa distanza. Le nostre toilettes da Lazzari resuscitati o fors'anco la presenza delle guardie li teneva in riserbo.

A Sant'Onofrio fummo collocati parte nelle sale superiori, parte nelle inferiori. Quell'ospedale improvvisato accoglieva circa centonovanta feriti, dei quali novanta nelle due corsie del primo piano e cento circa nelle sale del pianterreno.

Da un riassunto istorico-clinico pubblicato dal dottor Bianchi nel 1871 sulla cura dei garibaldini prigionieri feriti nel 1867 e ricoverati all'ospedale di Santo Spirito in Roma, risultano i seguenti dati:

Dei feriti, cinque erano romani di Roma, cinque della provincia, trentatre della Toscana, diciannove dell'Umbria, trentatre delle Marche, ventotto delle Romagne, diciannove dell'Emilia, ventitre della Lombardia, sei del Piemonte, sei della Liguria, sei delle provincie venete, tre del Trentino, un inglese ed un russo.

Rispetto alle lesioni, centocinquantuno erano feriti di arma da fuoco, sedici erano feriti per arma da punta, nove per semplici contusioni o distrazioni, dieci erano affetti da malattie mediche e provenienti dalle prigioni del palazzo Salviati, due non avevano lesioni e due cessarono, come dissi, di vivere poco dopo giunti all'ospedale senza che si potesse precisamente conoscere il gravissimo loro stato.

La maggior parte delle ferite, come si vede, erano di arma da fuoco e aveano colpito le estremità inferiori.

Dei feriti centotrentasei guarirono ovvero partirono in lodevoli condizioni (io fra questi) e cinquantaquattro morirono. La mortalità fu dunque del 27 per cento.

E per i medici aggiungerò che la morte fu cagionata: per ventiquattro, da ferite trasfosse di vario genere; per due, da ferite penetranti nell'addome con lesione del retto e della vescica; per nove, da ferite penetranti nel petto, con grave lesione polmonare; per dodici, da fratture semplici; per cinque da fratture comminute, e due spirarono appena portati all'ospedale.

E basti delle cifre.

Appena entrato nella corsia, mi sentii chiamare per nome. Mi volsi e riconobbi il maestro elementare. Tosto mi pregò di scrivergli altre lettere, non avendo potuto trovare un nuovo segretario.

Chi venendo dalla Città Leonina imbocchi la Lungara, a pie' della salita che guida a Sant'Onofrio, di fronte al manicomio, vedrà un locale abbastanza ampio che allora aveva la forma di un granaio, specialmente nel piano superiore. Ora venne ristaurato e ripulito e vi si è allogata la ditta Calzone e C., la quale vi stabilì un suo laboratorio di cartonaggio.

Questo era il nuovo ospedale improvvisato. Il mio letto stava al piano superiore sull'angolo e portava, se ben ricordo, il numero ventiquattro.

Si fece presto conoscenza coi nuovi amici, specialmente coi vicini. Fra questi rammento il capitano marchese Ronco di Genova, gentiluomo distinto e soldato valoroso. Si era segnalato in tutte le campagne dell'indipendenza, rimanendo però sempre incolume. A Mentana invece era stato colpito nel momento in cui si credeva meno esposto, mentre stava ragionando con un suo amico, senza pensare menomamente a pericoli. La sua conversazione era piacevole, perchè colto ed arguto parlatore. Pochi anni dopo seppi con vero cordoglio da un comune amico che era morto, non però per la ferita o per conseguenze riportatene.

Come si prevedeva, a Sant'Onofrio si era caduti in peggio d'assai quanto al trattamento. Mancava anzitutto la schietta cortesia del capitano Galliani; il vitto era ben altro da quello dello spedale militare; il servizio era fatto da inservienti di piazza o da infermieri salariati ben diversi dai militari. Cotesti infermieri ci frodavano atrocemente sulle spese e sulle commissioni. Il locale pure era basso ed opprimente e le finestre da un lato sovrastavano ad un letamaio od immondezzaio. Quindi le condizioni igieniche infelicissime. Da ultimo avevamo peggiorato anche quanto a libertà e perfino quanto all'assistenza delle suore. Quelle di Santo Spirito appartenevano alle dame di S Vincenzo, volgarmente dette Cappellone, dall'enorme cuffia a vela inamidata che portano in testa. Erano disinvolte, andavano venivano, e facevano le faccende loro con alacrità e senza inceppamenti o pastoie di regole e di prescrizioni. Queste di Sant'Onofrio, oltre all'avere un vestito incappucciato e chiuso, sembravano impacciate anche nel camminare, procedevano lente lente, nè potevano accostarsi al letto di un ammalato se non a due a due; avean l'aspetto gesuitico e per colmo erano brutte ed antipatiche. Seppi di poi che tra queste e quelle di Santo Spirito esisteva un odio implacabile, che non cessò finchè le Cappellone non furono sfrattate dall'ospedale e mandate lontano.

Di queste ultime, ripeto, non posso dire che bene, e ricorderò sempre la madre superiora, ottima dama belga, che parlava distintamente l'italiano, disinvolta, franca, intelligente e di florido e piacevolissimo aspetto.

Questo mi è rimasto talmente impresso, che pochi anni sono, ossia circa ventisei anni più tardi, trovandomi un giorno tra una corsa e l'altra fermo alla stazione di Catania e adocchiando un crocchio di suore che, reduci da chi sa quali lidi, si salutavano fra loro cordialmente, fra l'agitarsi di quelle candide cuffie che sembravan vele di navigli spiegate, mi colpì una fisonomia che fra me stesso giuravo di aver veduta altre volte, benchè certo forse dovesse essere di molto mutata dal tempo.

Il fischio importuno della vaporiera mi impedì di fissare più oltre il placido sorriso della suora, ma quando era proprio il momento del partire, un lampo dei passati ricordi mi fe' trovare vivo e presente, fra le traccie d'una incipiente vecchiaia, il sorriso gentile della mia amabile infermiera d'un tempo. Il treno già si moveva ed istintivamente non potei a meno di mandarle colla mano un amichevol saluto. La suora chinò gli occhi. La poveretta l'avrà creduto uno scherzo ed era invece il saluto della riconoscenza che un antico suo ammalato le mandava.

La malinconia dei frati e la vista di gendarmi in permanenza a guardia delle sale incutevano del pari un'uggia desolante. I frati cappuccini stessi che per il loro spirito d'abnegazione e di carità e per la povertà volontaria acquistano agevolmente la popolare confidenza, in quelle corsie e tra gli ammalati avean alcunchè di sinistro. Quel vederli soltanto intorno a moribondi ed a morti metteva ribrezzo. Ve n'era uno poi che avea un ceffo tanto ributtante ch'io avrei giurato che prima che frate fosse stato masnadiero.

 

I meno antipatici fra tutti erano ancora gli zuavi di guardia. Venivano a tenerci compagnia e noi ce ne servivamo liberamente come di galoppini per comperar cibarie, frutta, vino, poichè diffidavamo di quella schiuma d'infermieri che ci stavano attorno.

Gli zuavi uscivan quasi tutti da buone famiglie ed avean perciò modi cortesi ed umani. D'altronde il fanatismo stesso che li spingeva a Roma da lontano per farsi schioppettare in difesa della religione, li induceva poi in nome di questa a prestarsi in soccorso della sventura e ad esercitare in tal modo una delle così dette opere di misericordia che, com'è noto, accrescono il merito dei buoni cristiani.

Avevano pantaloni larghi e saccoccie ampie e però, quando uscivano per le compere, ritornavano colle tasche letteralmente imbottite e donde traevano fondaci interi di commestibili, pane, abbacchio, vitello arrosto, salumi, bottiglie, formaggio, frutta; uno solo portava da desinare per quattro.

Questi desinari a nostre spese erano talvolta indispensabili perchè il vitto dell'ospedale era per verità molto meschino. Per quanto noi si pregasse e scongiurasse il medico visitante di assegnarci nelle sue prescrizioni giornaliere il tutto vitto, il vino generoso e la minestra particolare, in complesso tutto si risolveva in un brodo allungato, un bocconcino di bollito ed un bicchiere di vino. Per chi avea d'uopo di rimettersi in forze era senza dubbio un foraggio scarso. Perciò quelli che non avean mezzo di provvedersi altrimenti, la facevano magra.

Un caso fortuito ci apprese però il segreto d'ottenere miglior trattamento. Frati e monache riuscirono un giorno a persuadere uno dei feriti più aggravati a fare la confessione e la comunione.

Volle la fortunata sorte che il ferito migliorasse. Non è a dire se frati e monache gridassero al miracolo! E da quel giorno l'ammalato fu ricolmo di carezze e le suore incaricate della distribuzione del vitto andarono a gara per ben trattarlo. Gli portavano brodi, pasticcetti, frutta, limonate.

Tanto bastò perchè molti imitassero l'esempio di colui, sicchè in un attimo ci furono nel nostro ospedale conversioni in gran copia; e i preti, come è naturale, menarono di queste conversioni rombazzo non piccolo, ciò che torna a severo biasimo dei nostri. Comperarsi un vantaggio a prezzo d'ipocrisia è riprovevole e neanche la burla può servire di scusa.

Chi si procacciò invece un miglior trattamento con sistema del tutto opposto fu un professore di scienze naturali, allora tenente di stato maggiore. Il casetto merita d'esser ricordato, ma è difficile riprodurre la scena: bisognerebbe aver conosciuti i tipi.

Era costui uomo di carattere piuttosto bilioso e di temperamento irritabile: tutto lo infastidiva, tutto lo inquietava; era scrupolosissimo dell'ordine e della pulizia, ma amante de' suoi comodi, sofistico, esigente.

Una delle prime sue cure, appena arrivato all'ospedale, fu di farsi fare il bucato e di mutarsi i panni dal capo ai piedi, di farsi rattoppare le scarpe e tenersele sempre lucide, di lustrarsi la catenella dell'oriolo, di costruirsi a fianco del letto una piccola toeletta, di rimpannucciarsi alla meglio provvedendosi d'una cravatta, d'un colletto e d'un cappello nuovi. Anche al vitto ci teneva, e però esigeva il pane cotto in punto, il bollito magro, la minestra particolare, il vino generoso, e via dicendo.

Un giorno, chiamato da molti fra noi che avevano bisogno di mutare copricapo, venne il cappellaio in corsia ed avendone portati parecchi, li depose tutti su di un letto che tosto fu attorniato da compratori, fra i quali il professore in parola. Mentre tutti stavano negoziando, ecco scoccare il mezzodì, ora in cui le suore distribuivano il vitto. Una di esse, come di solito, precedeva posando sul letto d'ogni ferito un piatto di peltro; teneva dietro un'altra la quale deponeva nel piatto un pezzo di bollito. Le razioni erano numerate una per ammalato, non una di più, non una di meno.

Essendo andata in lungo la contrattazione dei cappelli, qualcuno dei vicini di letto, approfittò, o da burla o da senno per appetito irresistibile, della razione destinata al professore. Ritornato costui e trovato vuoto il suo piatto, ritenne che la suora, perchè assente, lo avesse saltato e però reclamò la sua parte.

La suora protestò d'avergliela distribuita, egli rispose che no; essa insisteva ed egli che avea poche cerimonie, le domandò ruvidamente se lo teneva per un burattino da dir una cosa per un'altra. La suora tacque e diede senz'altro al reclamante un'altra razione.

Ma procedendo nella distribuzione quando arrivò all'ultimo e si trovò mancante una porzione, non potè trattenersi, e passando vicino all'amico, gli disse con un risolino:

– Ah furbo il signore! s'è voluto trattar bene quest'oggi!

Questi spalancò tanto d'occhi:

– O che intende di dire?

– Nulla. Se ha appetito, ce n'è ancora sa; basta che ella lo chieda.

– Ma che crede dunque che io l'abbia ingannata?

– Ohibò! L'ospedale non misura il vitto, se un ammalato ne ha bisogno. Solo sarà bene che un'altra volta Ella lo chieda francamente, senza ricorrere a sotterfugi.

– Ma che sotterfugi! Io? replicava l'amico spazientito ed alzando la voce.

– Si calmi, ha fatto benone, anzi benissimo! ripetè la suora sorridendo e scappando in fretta per non lasciar luogo ad alterchi.

Il professore restò molto male. Gli parve di essere canzonato e quel che era peggio, canzonato da una monachella. Masticò veleno tutto il pomeriggio e perlustrò ogni angolo delle corsie per rintracciare la pettegola sua corbellatrice.

La sera il caso portò all'ospedale la madre generala delle suore. C'era stata altre volte e la si conosceva. Era una donna piccola, traccagnotta e di lineamenti piuttosto grossolani. Camminava adagio ed a battute, come se il passo le fosse misurato da un metronomo; teneva sempre la persona e la testa ritte, come se avesse inghiottito un manico di scopa, gli occhi socchiusi e le mani in croce avanti al petto. Parlava adagio, con intonazione inalterabilmente melliflua; vero gesuita in gonnella! Dicono fosse potentissima e che il papa le accordasse udienza qualunque volta le piacesse di farsi annunziare.

Costei procedeva passo passo accompagnata da una suora sua segretaria lungo le corsie. La vide il professore e senza tanti complimenti l'affrontò con questa apostrofe:

– Madre superiora, Ella vorrà avere la compiacenza di richiamare all'ordine le sue dipendenti, le quali, mi sembra, dovrebbero avere l'obbligo d'assistere i poveri feriti e non di corbellarli.

– Oh! sclamò la generala sgranando per la prima volta gli occhi, che è stato?

E qui il nostro compagno, col dolce stile di cui ho dato un saggio, le narrò il fatto della razione sparita, dei suoi reclami e delle risposte sardoniche della monaca. Ma quale non fu il suo stupore quando, mentre s'attendeva la promessa d'una soddisfazione qualsiasi, sentì invece la generala replicare col suo tono mellifluo le stesse parole della monaca da lui accusata.

– Ma bravo, ma bene, ha fatto ottimamente!

– Ma io non domando degli elogi!

– Ma sì, ma vada là! Quando ha appetito non ha che da parlare, si figuri se l'ospedale rifiuta…

– Ma che appetito o non appetito! Io interesso Lei, come superiora, a far valere la sua autorità…

– Sì, benissimo! Darò dunque ordine che il vitto Le sia accresciuto!

– Ma non voglio questo io!..

– Stia tranquillo, non dubiti. Ella ne ha tutto il diritto!

– Insomma, io Le dico che se Ella non mette a posto…

– Sì, sì, sta bene! tutto quello che desidera. Vedrà, metteremo ogni cosa a posto e si troverà contento…

– Oh insomma, urlò l'amico scoppiando, io Le dico che sono stufo di chiacchiere e che le sue suore sono… E qui cadde, come Dio la mandava, una gragnuola di improperi, di invettive e di moccoli all'indirizzo delle povere monachelle. Noi si era fatto bossolo; le suore si erano ritirate impaurite e la madre superiora, per smorzare tanto fuoco, non badava che a ripetere:

20Nella chiusa mi dava la notizia del fidanzamento d'una nostra parente e poichè, giovine ancora, io avevo già avuto la malinconia di stampare dei versi, concludeva incoraggiandomi: «Addormentati prigioniero, risvegliati poeta!»