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Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867

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XI.
Santo Spirito

La ressa di popolo pel nostro arrivo all'ospedale militare era grande. Eravamo i primi garibaldini prigionieri portati in Roma: si può immaginare se la novella era corsa di bocca in bocca!

Al primo arrivare ci fu un po' di parapiglia, perchè non era stato preparato alcun locale. Ma la superiora delle suore trovò subito un ripiego; fatti levare alcuni zuavi del picchetto di guardia, che russavano placidamente sui pagliericci in una camera di pian terreno, in un momento ci fe' mettere insieme sette letti, e tutti in una sola stanza, cosa che ci fece molto piacere.

Ufficiali, medici, flebotomi, monsignori, cappellani, soldati, suore, tutti erano in moto per noi. La curiosità avea naturalmente molta parte in tante premure.

Prima cura fu quella di visitar le nostre ferite. Ne avevamo veramente bisogno, perchè ci si era fasciati appena alla meglio in modo da far ristagnare il sangue e questo s'era rappreso sulle ferite. Io poi desideravo sapere quale ferita fosse la mia, se grave o no.

Mentre ognuno di noi si adagiava alla meglio, mi venne fatto di notare un prete lungo, alto, con una croce sul petto, di fisonomia piuttosto seria, non troppo entrante; uno degli infermieri mi disse che era monsignor De Merode, elemosiniere segreto di sua Santità.

Fummo medicati con premura. A Giovannino, ricordo, furon tagliati i capelli e gli fu fatto dalla suora un salasso.

Tutto sommato, l'ingresso nostro non fu cattivo e ci lasciava sperare che non avremmo avuto dispiaceri, quantunque gli animi, specie dei militari, fossero irritatissimi per il fatto della caserma Serristori avvenuto il dì innanzi.

Il primo sospetto era stato per l'appunto che quel fatto fosse opera nostra.

Mia prima cura fu quella di chiedere carta penna e calamaio per scrivere alla mia buona mamma. Mi fu risposto che prima bisognava dar contezza di noi all'autorità militare politica, dopo avrei avuto quanto desideravo.

Di fatto, eseguita la medicatura, venne un auditore militare a prendere nota delle nostre generalità. Il nome di Colloredo fece grande impressione su lui e sugli astanti.

I Colloredo sono una famiglia antica nobilissima che trae la sua origine dal castello di Colloredo in Friuli. Ebbe molti illustri guerrieri marescialli e generali che in gran parte militarono al servizio dell'Austria, coprirono onorevoli incarichi e condussero a fine importanti missioni. Alcuni de' suoi rami esistono tuttora nel Friuli, ed in Austria pure sussiste sempre il ramo dei Colloredo Mels e dei Colloredo Mansfeld.

Uno dei Colloredo del Friuli era allora imparentato coi principi Altieri qui di Roma, perchè marito a donna Livia, morta alcuni anni or sono, e in Roma vivea allora anche un vecchio padre Colloredo dei preti dell'Oratorio.

Incontanente si sparse la voce che all'ospedale di Santo Spirito era ricoverato un Colloredo garibaldino e non tardò a diffondersi per la città, per l'Italia e dirò anzi per l'Europa. Infatti la notizia fu riportata, oltrechè dai giornali nostri e dai francesi, anche dalla Presse di Vienna e dal Tageblatt.

Prima di lasciar Villa Glori si era fra noi convenuto di chiamare il Mosettig col nome di Colloredo, come si era fatto per il Muratti in Roma.

L'auditore militare si mostrò anche non poco stupito allorchè, chieste le generalità a Giovannino, si senti rispondere:

– Anni ventiquattro.

– Condizione?

– Ex capitano di artiglieria.

Infatti su quel volto ingenuo di gentil giovinetto, oltre che la bontà, si leggeva chiara anche l'intelligenza, che nei brevi anni vissuti già lo avea portato a quel grado distinto. O se vivesse ancora! sarebbe forse uno dei migliori nostri generali!

La prima notte fu affannosissima e appena al mattino mi fu dato di poter dormire un poco. L'apparecchio di stecche cui era raccomandato il mio braccio, mi costringeva ad una supina immobilità, la quale mal si prestava al sonno, ma ad ogni movimento ch'io facessi mi si rinnovellava il dolore.

L'indomani nuove domande dell'auditore militare, nuove ricerche, nuovi curiosi e sempre molti medici, infermieri, suore, inservienti.

Chiesi nuovamente al direttore dell'ospedale, capitano Galliani, l'occorrente per scrivere e, se mi era permesso, anche qualche libro da leggere. Immantinente egli si diede premura di soddisfare il mio desiderio e portò per tutti carta da scrivere ed alcuni romanzi di Walter Scott.

Il capitano Galliani era una gentilissima persona, della quale conserverò sempre finchè vivo ottima memoria. La gentilezza d'animo e la squisitezza di sentire sono una dote dei cuori buoni e non vengono meno per ragione dei principii o d'idee professate. Il Galliani era affezionatissimo al Santo Padre ed attaccato al governo papale che serviva con zelo ed attività esemplari. Nel 1861 era stato alla battaglia di Castelfidardo; fatto prigioniero, era stato condotto a Genova, dove aveva avuto molte cortesie ed era stato trattato amorevolmente. Apprezzava quindi per esperienza fatta le attenzioni usate in simili circostanze e conosceva per prova come tornino gradite e quale imperituro ricordo lascino nell'animo dei vinti.

Veniva spesso a tenerci compagnia e sapeva evitare tutti i discorsi, nei quali non potevamo trovarci d'accordo; era uomo onesto, leale, di ottima cultura e d'ingegno acuto.

Pur di usarci un'attenzione si sarebbe fatto in quattro; se gli chiedevamo un favore si sarebbe detto che il piacere fosse tutto suo nel procurarcelo. Ci condusse la gentile sua signora con la figlia a visitarci: più volte ritirò la nostra biancheria e ne fece il bucato in casa sua. Un giorno che andò alla caccia, ci portò al ritorno una magnifica spiedata d'allodole.

A proposito della biancheria, anche il Galliani era fra coloro che subivano il fascino del nome di Colloredo: a tutti presentava il Mosettig e più a lungo con lui si tratteneva. Or bene, quando gentilmente egli si prese l'incarico della nostra biancheria, dovette trovare di necessità quella del Mosettig segnata con sigla differente da quella di Colloredo e senza alcun segno gentilizio. Ma di questa scoperta non diede segno: essa restò affatto segreta nella famiglia Galliani. Il capitano venendo a visitarci continuò a salutare sempre per primo il Colloredo, e la signora e la figlia che ritornarono più volte, s'intrattenevano sempre col signor conte.

Svelare il segreto all'autorità militare sarebbe stato una delazione vigliacca, dissimularlo anche con noi fu delicato riserbo d'animo squisito.

Chè se, tre mesi dopo, al momento di partire, il Mosettig si sentì ufficialmente denegata da un gendarme tale sua qualifica di nome e condizione, lo dovette ad uno dei conti Colloredo austriaci, il quale, quando vide girare sui giornali il proprio casato come appartenente ad un garibaldino, si affrettò a dare alla notizia una solenna smentita impugnando l'autenticità del preteso conte.

Rividi il capitano Galliani nel settembre del 1870, perchè appena entrato in Roma la mia prima visita fu allo spedale di Santo Spirito. Stava allora appunto il Galliani facendone la consegna all'incaricato italiano. Appena mi vide lasciò ogni cosa e mi venne incontro con vera effusione esclamando:

– Vedi, caro amico, ora abbiam mutato sorte: io son diventato servitore e tu sei il padrone.

Io gli risposi che fra noi non c'erano nè padroni nè servi, ma amici. E, in verità, amico gli ero proprio di cuore.

Mi condusse poi a visitare lo stabilimento, creazione che si poteva dire sua e che nulla lasciava a desiderare per ordine, pulizia e buon andamento di servizio e d'amministrazione. Mi espresse con espansione d'amico il vivissimo suo dispiacere di doverlo abbandonare, e da ultimo mi condusse a vedere la stanza di nostra prigionia.

Oh quanti ricordi, quante emozioni fra quelle quattro mura nude, bianche, illuminate da una sola finestra in un angolo; quanti pensieri rivedendo quel soffitto alto ed a volta, su cui io per tanti giorni, immobilmente supino, fui costretto a fissare lo sguardo!

Di sette che eravamo stati ricoverati in quel luogo, due erano già scomparsi dalla scena del mondo; e non erano scorsi tre anni!

Ritornai a Roma nel 1871 e nel 72 e non trascurai mai di fare una visita al capitano Galliani. Era pensionato; il nuovo ordine di cose lo avea danneggiato non poco, però non se ne doleva e conservò sempre l'ilare suo contegno e l'onesta sua bonomia di vecchio soldato. Ingannava il tempo andando a caccia, esercizio pel quale era appassionatissimo. L'ultima volta che lo vidi fu in casa sua ventisei anni or sono, la sera della befana, nella festosa e rumorosa allegria con cui si suole qui in Roma trascorrere quella sera, e la veglia si chiuse con una quadriglia da lui comandata.

Da allora non fui più a Roma per parecchi anni.

Ritornatoci dopo lungo tempo, non seppi risolvermi a chieder notizia di lui. Temevo sentirmene dare una brutta! Pochi mesi or sono finalmente, passando dal palazzo Gabrielli, dov'egli abitava, domandai della famiglia sua e il portiere mi rispose stupito come se gli chiedessi notizie dell'altro mondo.

Se egli vive ancora (e glielo auguro di cuore e per lungo tempo!) mando a lui un cortese saluto: sappia che io sono lieto d'avergli pagato modestamente il tributo di mia riconoscenza scrivendo il suo nome in queste povere pagine.

Avuta la carta e il calamaio scrissi a mia madre.

Senza reticenze le diedi addirittura la triste notizia dell'accaduto, incuorandola a non temere di nulla, trovandomi io ben ricoverato. Mi parve fosse meglio così, perchè pensai che la vista della mia scrittura avrebbe dovuto rassicurarla più di qualunque inutile ipocrisia. Quando si sta male e si soffre, non si scrive.

Quella lettera mi venne tra le mani pochi mesi or sono riordinando un pacco di vecchie carte e duolmi non averla conservata. Portava da piedi il visto del generale Zappi.

 

In quel primo giorno avemmo parecchie visite illustri che poi si rinnovarono spesso.

Prima fra tutte quella di due signore accompagnate da un prelato. L'una era una donna di bella statura, di piacevole aspetto e gentile di modi. Era la signora Kanzler moglie al Generale Ministro delle Armi. L'altra era una signora bionda con occhi bigi e lineamenti e mosse da maschio. Non era bella; portava un abbigliamento strano che non era nè da ragazza nè da matrona, ma un che di mezzo fra la monaca, la amazzone e la zingara. In capo un caschettino nero all'ungherese inforcato da una piuma alla cacciatora, col velo ripiegato all'intorno e tenuto a dovere da un enorme fermaglio d'argento rappresentante la medaglia di S. Pietro (una croce capovolta). In tutto il resto dell'abbigliamento nessun gingillo, nemmeno i pendenti; corsetto e sottana tutto in nero, e questa molto succinta, il che colle mode d'allora produceva un effetto strano. Parlava bene il francese, ma il biondo della sua capigliatura e la tinta pallida, le mosse originali, la spigliatezza indipendente del tratto l'accusavano inglese.

Seppi poi che era la signora Stone, una fanatica del sanfedismo, portata a cielo dai giornali clericali per il suo zelo e coraggio da vandeana, che non avean nulla da invidiare a quello dei soldati e dei birri. Durante la campagna insurrezionale dell'agro romano aveva sempre trovato tempo e modo di frequentare chiese, ospedali e carceri, di recarsi più volte al campo dei pontifici a curare i feriti, e di passare poi a quello dei garibaldini, di giorno e di notte, affrontando sentinelle, per riscattare prigionieri.

Una volta corse rischio di essere presa a fucilate: fu fatta prigioniera e condotta al generale Garibaldi col quale desiderava abboccarsi. Era di quelle nature esaltate che non s'acquetano di una pietà tranquilla, rassegnata, amorosa, ma vogliono la virtù attiva, inframmettente, turbolenta, crociata, le religione delle isteriche fantasie, la pietà rivoluzionaria, la carità del trambusto, il fervore che arrota i denti e mena le mani, l'arruffio continuato, il perpetuo sussulto.

Il prelato invece era un vero gentleman inglese in veste talare: si chiamava Edmund Stonor. Non mancò un giorno di venir a visitarci. Parlava bene l'italiano benchè con accento straniero, pacato, senza mai alterare d'un punto la voce e con grande compostezza e parsimonia di gesti.

Per qualunque servigio era con noi cortesissimo e molto s'adoperò in favor nostro. Quieto, gentile, moderato, era un vero cavaliere di modi e d'aspetto. Non ebbe mai una parola di rimprovero per noi, non una recriminazione. Anche Giovannino nei suoi Ricordi parla di lui con molta riconoscenza.

So che vive ancora qui in Roma. Non so quale grado coprisse allora alla Corte Pontificia, non so quale occupi ora. Non credo però che abbia fatto carriera politica; forse ama più la propria indipendenza che gli onori ed i fasti della diplomazia. Di famiglia credo fosse ricco: per noi allora avea un solo torto, quello d'essere prete.19

La visita fu un po' lunga; le interlocutrici erano donne e quindi avevano molta curiosità da soddisfare. La fissazione loro, come quella di tutti, era che la nostra fosse una banda di fuorusciti e non una colonna venuta dal confine.

Verso il mezzogiorno un ufficiale spalancò i due battenti della porta annunciando il Generale! Entrò infatti un ometto piuttosto vecchio, adusto, in assisa da generale, accompagnato dallo stato maggiore e dai medici dell'ospedale. Era il generale Zappi di Imola, comandante il presidio di Roma.

Per primo gli fu presentato Giovannino. Gli chiese come stava, gli domandò notizie della spedizione nostra, ebbe parole di compianto per le nostre illusioni. Giovannino approfittò del momento per chiedergli conto della salma del fratello e pregarlo a volersi adoperare perchè ne fosse eseguito il trasporto a Pavia con ogni cura e decoro.

– Di questo Ella non deve dubitare; sarà compito mio.

Giovannino arrischiò allora un'altra domanda e cioè di poter assistere egli stesso al trasporto.

Il generale aggrottò le ciglia.

– Ella non può ignorare, rispose, in quale condizione si trovi qui. Ella è prigioniero di guerra, e le leggi militari non permettono per ciò che possa uscire finchè non sia stipulata una regolare consegna dei prigionieri. Accordarle ora l'uscita dallo spedale mi è assolutamente impossibile. Però può star sicuro che da parte mia farò quanto sta in me per accontentarla interpretando io benissimo i di lei sentimenti.

Poi venne al mio letto.

– Ah, voi leggete, esclamò togliendomi di mano il libro e guardandone il titolo (Kenilworth). Il modo dell'esclamazione parea volesse dire: Ah voi sapete leggere! Infatti la prevenzione di una gran parte dei prelati, ufficiali e visitatori in genere che venivano da noi, si era che i garibaldini fossero nulla più che dei ragazzacci ignoranti sedotti dal fanatismo; forse a ciò contribuiva lo stato nostro miserevole di vestiario e di toeletta, dal quale essi non sapevano prescindere nel giudicare della cultura e del grado delle persone.

– Ah voi leggete! mi disse; ecco, è un romanzo. Infatti nelle vostre idee, tenetelo bene a mente, c'è molto romanzo e pochissima storia; c'è della poesia, ma vi manca la prosa. Voi credevate di venire qui a fare la rivoluzione e che Roma insorgesse come un sol uomo. Nulla di tutto questo; lo avete constatato anche voi. Neppure Viterbo si è mossa. L'avete veduto coi vostri occhi stessi dai Monti Parioli che la Roma eterna non si muove.

Queste le testuali ed autentiche parole che lo Zappi, generale pontificio, disse a me il giorno 25 ottobre a mezzodì. Poche ore dopo accadeva l'eccidio di casa Aiani in Trastevere, tentativo eroico di Roma italiana, ahi pur troppo isolato e soffocato nel sangue! bastevole però a dare una mentita solenne al generale. Roma non si era mossa, perchè esilio e carcere aveano disperso i patrioti e, fatte poche eccezioni, non restavano in città che gli stranieri, i venduti e i rinnegati.

In quella mattina avemmo pure una breve visita di Monsignor De Merode. Parlò col pseudo Colloredo e da ultimo gli chiese quale mira avevamo con lo spingerci fin sotto le mura di Roma.

– Portarvi la rivoluzione, rispose Mosettig.

– E quanti eravate?

– Settantotto.

– Matti da legare! sclamò Monsignore scoppiando in una sonora risata e dato un lieve scapaccione sulla fronte al Mosettig, faceva atto di andarsene, ridendo sempre come si trattasse della più lepida cosa del mondo.

Inavvertentemente però la mano piuttosto pesante di sua Eccellenza aveva fatto un piccolo danno, avea rotto cioè al Mosettig l'occhialino ch'ei sempre portava.

– Oh, chi rompe…? osò, scherzando, esclamare il Mosettig levando in alto le lenti col cerchiello rotto e in attesa di risposta.

– Paga, paga, avete ragione. Ci penso io non dubitate, soggiunse tosto il prelato avvedutosi del malanno. Ma che matti! che matti graziosi! E se n'andò ridendo sempre in modo da far credere che il matto fosse lui.

Un'ora dopo all'incirca, si presentò nella sala un signore con una cassetta. Era un ottico e veniva da parte di S. E. Monsignor De Merode ad offrire al conte Colloredo un occhialino a sua scelta in sostituzione di quello che gli era stato rotto. Ve n'era d'ogni qualità, d'oro, d'argento, d'acciaio, di tartaruga. Il Mosettig ne scelse uno simile al rotto, che consegnò ravvolto in un foglietto di carta al negoziante.

– Che è questo? domandò egli.

– È roba di Monsignore. Chi rompe paga, sta bene; ma i cocci sono suoi.

L'ottico rise e portò seco i cocci.

Il secondo giorno il Castagnini, ch'era il ferito più lieve, potè alzarsi da letto: io invece fui preso da febbre, la febbre di reazione. Contemporaneamente mi si gonfiarono le tonsille e mi pigliò male alla gola, effetto dell'umidità assorbita i giorni prima.

Quello che peggiorava era il povero Moruzzi. Già dal suo stato chiaramente si comprendeva quale dovesse essere la sua sorte. Non gemeva, ma urlava; si lamentava e ad ogni istante desiderava cambiar di posizione. La ferita al basso ventre gli toglieva la possibilità di orinare e quest'era il sommo suo tormento. Sul proprio destino non avea dubbio e lo incontrò rassegnato. Chi ne lo fece sicuro fu un medico balordo, di cui spiacemi non ricordare il nome e che accompagnava appunto il generale Zappi.

– E questo che cos'ha? domandò il generale passando dal mio al suo letto.

– Ha una ferita mortale – rispose freddamente il medico.

Allungai il braccio sano e diedi una solenne strappata alla tunica di quell'imbecille per richiamarlo. Il generale stesso cercò di coprire la risposta e continuando quasi il discorso fatto dapprima a me, lo incuorò a stare di buon animo.

Ma il Moruzzi aveva udita la fatale parola ed al generale che gli chiedeva se gli occorresse alcunchè rispose:

– Desidero sapere schietta la verità sul conto mio.

Il generale naturalmente non gliela disse, ma il Moruzzi non ebbe più alcun dubbio su di essa.

La sera del 27 cominciò ad aggravarsi. Il letto gli era diventato insopportabile. Nostro infermiere in quella sera era un legionario d'Antibo. Fortunatamente il Moruzzi, che era stato molti anni a Ginevra, parlava correttamente il francese. Si faceva voltar di fianco, mettere supino, voleva alzar la testa, appoggiarsi ai gomiti, muoversi, girarsi, pativa una sete ardente, chiedeva da bere, si sentiva soffocare.

A notte inoltrata cominciò a singhiozzare interrotto. Il cappellano militare lo sollecitava perché facesse le sue devozioni; il povero infermo lo pregava a sua volta di volerlo lasciar in pace.

– Se provasse Ella a soffrire quello che soffro io! – gli rispondeva.

E il cappellano ripigliava lena ed argomento da ciò e lo scongiurava a rivolgersi a Dio, il consolatore degli afflitti: finalmente, vedendo che non riusciva a nulla, si volse a me interessandomi onde persuadessi il compagno.

Io gli risposi che il poveretto era troppo aggravato ed avea bisogno di quiete e che non mi pareva opportuno tormentarlo con inutili esortazioni in quegli istanti, dal momento che non si persuadeva.

Tacque infatti e si limitò a pregare in silenzio.

L'alba non era ancora spuntata e il povero mio amico aveva cessato di soffrire.

Una candela fu accesa appiè del suo letto ed il prete vi si inginocchiò accanto recitando le preci dei trapassati.

La mattina il cadavere fu trasportato alla cella mortuaria e di là al Campo Verano, dove non so se un cippo, per quanto modesto, abbia mai ricordato il suo nome.

Le giornate scorrevano tristi, lunghe, noiose. Si contavano i giorni passati, si chiedeva sempre ai medici quanto tempo ci sarebbe voluto a guarire. Essi ci trattavano con cura e con attenzione e s'intrattenevano volentieri, specialmente col Bassini, che era allora laureando in medicina. Ora è professore di chirurgia all'Università di Padova e mirabile operatore.

Dei medici che conobbi allora, mi è rimasta buona memoria, ed ancor m'accade di rivederne qualcuno. Uno di loro da poco tempo è scomparso. Però forse non v'ha persona che percorrendo qualche via del quartiere dell'Esquilino fino a pochi mesi or sono, non siasi abbattuto in una fisionomia asciutta, naso lungo, occhi bigi, figura allampanata ed infilata in uno stifelius di panno chiaro scendente ai talloni, tuba nera, guanti di lana chiari, pantaloni a campana disegnati a quadrelli chiari con uose colorite alle piante, andatura lenta, mani pendenti a tergo, come temesse sciupare l'originale abbigliamento. Quello, non ne farò il nome, fu il primo medico che ci prese in cura all'ospedale di Santo Spirito.

Uno solo di quei medici non mi ha lasciato buona memoria di sè, quello già accennato più sopra parlando del Moruzzi, e la cui sciempiaggine andava di pari passo colla pretesa. M'era decisamente antipatico: doveva essere anche un vigliacco.

Un giorno, quando cominciai ad alzarmi di letto, avendo perduto il mio famoso caschettino ungherese, mi misi in testa un altro copricapo, che trovai, d'un mio compagno: era di quelli alla calabrese. Appena l'antipatico dottore me lo vide, me lo tolse di botto dicendomi che quello era un abbigliamento da facinoroso. Non so che cosa io gli abbia replicato, ma egli tagliò corto conchiudendo che era un cappello anticattolico! Guardate un po' dove ficcava costui il cattolicismo!

 

Oltre alle infermiere di servizio, frequentavano la nostra sala dei flebotomi che assistevano alle medicature. Un giorno uno di essi s'era tolto il cappotto e l'avea appoggiato su d'una sedia. L'esculapio sopralodato nel girar l'occhio vide da una delle tasche sporgere il calcio d'una pistola. Piantò lì la medicatura, corse a prendere il cappotto e levatane la pistola:

– Di chi è quest'arma? cominciò a strillare.

– Mia, signor dottore.

– E avete il coraggio di confessarlo?

– Che c'è di male?

– C'è che questo non è luogo da venire con armi. L'ospedale è luogo di pace e non di guerra. Portate via, subito! subito! e lo diceva con tale risolutezza ed era tale il suo orgasmo da farci comprendere chiaramente ch'egli temeva la presenza d'un arma in quella sala. Temeva che ce ne servissimo; forse sentiva di meritarselo.

Dopo il 1870 questo signore emigrò col corpo degli zuavi dello Charrette ed essendo còrso, andò a portare in Francia contro i tedeschi il suo coraggio e la sua scienza.

Oltre a monsignore Stonor, alle due signore ed a monsignor De Merode, venivano anche spesso a visitarci quel prete grasso che fu a levarci a Villa Glori, qualche cappellano militare e i monsignori Ricci e Talbot camerieri segreti di sua Santità. Quest'ultimo monsignore era stato preso anch'egli dalla malinconia di volerci convertire alla fede e ci portava ogni volta delle medaglie, dei rosari e dei libretti di Massime Eterne.

Un giorno gli chiedemmo se le medaglie erano d'argento e avendoci risposto di no, ci fu chi ebbe il coraggio di rimproverargli, scherzando, la povertà del regalo.

Un buon uomo in complesso, anzi un gentiluomo, ma di corta misura. In quella veste poi era addirittura un gentiluomo proibito! Discendente dall'illustre famiglia dei Talbot, che diede luogotenenti e vicerè d'Irlanda celebri per il loro attaccamento agli Stuardi, costui avea fatta rapida carriera alla Corte pontificia; ma l'esaltazione ascetica finì col pregiudicarlo. Si era proposto di convertire al cattolicismo la sua patria e assorto in tale idea andò in Inghilterra a predicare. Fu fatto segno immediatamente agli strali dei pubblici diarii, e la derisione fu tale che il pover'uomo finì con l'uscirne pazzo.

Ma non era il solo Talbot che avesse il ticchio di fare il missionario fra i garibaldini. Anche il De Merode ci si adoperava e avea preso di mira principalmente il pseudo conte Colloredo, al quale andava facendo delle lunghe ammonizioni.

Un giorno venne anche un frate dal profilo lungo ed adusto, in abito bianco, un vero tipo di asceta. Egli prese invece di mira me, forse perchè ero il più giovane, e venne a dirmi che era un sacerdote cattolico. Gli chiesi che cosa con ciò volesse significare.

– Se volete riconciliarvi con Dio, mi disse.

– A dir vero non sono mai stato in collera con lui, risposi sorridendo.

– Ma avete bisogno di confessarvi, replicò.

– Non sento questo bisogno.

– No? tuonò adirato. Ebbene, ricordatevi che Cristo è morto per voi; non vi dico altro. Poi girò sui tacchi e senza lasciarmi tempo di replicare, andò dal Cairoli, dal Bassini, dal Papazzoni, da tutti, di letto in letto, replicando enfaticamente ad ognuno:

– Ricordatevi che Cristo morì pure per voi, per voi, per voi, e se ne andò ritenendo di aver fatto in noi chi sa qual terribile sensazione.

Mi fu detto che era un generale non so se dei domenicani o dei carmelitani.

Se questo è il generale, pensai fra me, che cosa sarà l'armata?

Era morto da due o tre giorni il Moruzzi, quando un dopo pranzo venne un ufficiale coll'ordine di trasportare alle carceri i numeri uno, tre e sette, che corrispondevano ai nomi di Cairoli, Bassini e Castagnini. Il Bassini infatti avea occupato il posto vicino al mio lasciato vuoto dal Moruzzi.

Invano facemmo osservare all'ufficiale che era materialmente impossibile il trasporto del Bassini; egli insisteva pretestando l'ordine ricevuto. Mi offersi d'andar io in sua vece. Non ne volle sapere. Replicò che io era il numero due e che egli avea l'ordine per il numero tre. Finalmente ci riuscì di far chiamare un medico, il quale constatò la gravità del ferito e sulla propria responsabilità contrordinò il trasporto per il Bassini, che così rimase con noi.

Ma Giovannino e il Castagnini ci dovettero lasciare e ci dividemmo colle lagrime. Fu quello l'ultimo bacio. Il povero Giovannino non lo dovevo più rivedere!

19Stavo correggendo queste bozze quando dai giornali appresi che Monsignor Stonor, canonico lateranense e arcivescovo di Cesarea, ebbe dalla Regina d'Inghilterra una speciale attestazione di stima accompagnata da lettera autografa di Sua Maestà, per le grandi sue benemerenze verso la popolazione cattolica inglese residente o di passaggio in Roma.