Za darmo

Il bacio della contessa Savina

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Quell'autunno fu impiegato dall'Agata a completare l'assetto del nostro nido, e a far lavorare la terra circostante, secondo i suoi disegni. Beppo, il povero emigrato, era guarito, e per dargli lavoro vicino alla sua famiglia, lo prendemmo a giornata, e veniva occupato tutto il giorno con Martino a saccheggiare gli orti e il giardino de' miei suoceri. Mia moglie voleva abbellire la nostra dimora con piante robuste che producessero pronto effetto, e prendeva quelle che aveva educate con tanta cura nella terra paterna. Era un viavai di carriole cariche d'alberi, di cespugli, di fiori, di terricci, di concime, di vasi e d'innaffiatoi, ed io stesso dovevo prestarmi aiutando a trapiantare e lavorare colla vanga e colle mani, quantunque fossi ancora un ortolano assai poco dirozzato.

Quando l'inverno ci chiuse in casa, trovai la mia piccola dimora piena di vita. Agata vi aveva trasportato i suoi canarini che cantavano a squarciagola, un gatto che faceva le fusa e si lisciava il capo colla zampa o stava in contemplazione sui balconi, e de' bei colombi che beccavano le briciole sul pavimento o tubavano sulle porte. Aveva fatto un cuscino ben soffice per Bitto, che se lo godeva in santa pace russando tutto il giorno e svegliandosi soltanto per esprimere la sua soddisfazione alla padrona con occhiate piene d'affetto, ogni volta che gli passava dappresso.

Tutto era lindo, pulito, elegante, tiepido. Alcuni vasi di tulipani e giacinti vegetavano sulla stufa del salotto e mentre di fuori nevicava ed infuriavano gli aquiloni, la cucina ben riparata offriva un asilo gradevole, ove si alzava la fiamma viva e crepitante di ginepri, e i fornelli esalavano odori appetitosi. Gli scaffali della libreria s'erano arricchiti di nuovi libri acquistati in viaggio, che ci deliziavano nelle ore tranquille della sera.

Qualche buon giornale ci teneva in comunicazione col resto del mondo, e ci convinceva sempre più coi fatti diversi che la società è piena di trappole e di miserie, che le gioie strepitose non valgono le gioie della vita tranquilla, che le ambizioni smodate costano care e sovente si risolvono in disinganni, che la vera felicità rifugge dalla folla, e si nasconde di preferenza in luoghi romiti.

Al Carnevale si rideva leggendo le relazioni dei baccanali popolari e delle feste ufficiali, ove la diplomazia banchettava, faceva brindisi e alzava le gambe in cadenza musicale al suono di violini, viole e violoncelli, nell'interesse dei popoli… i quali intanto correvano per le vie in maschera da pantaloni, meneghini, gianduie, stenterelli, brighelli, pulcinelli, arlecchini e pagliacci. I più moderati col naso posticcio, per ridere, e far ridere. E noi ridevamo infatti!.. di pietà.

I bagordi carnevaleschi, colla ciurmaglia che li accompagna, ci passavano danzando davanti gli sguardi, come i ballerini sulla scena davanti il Re e la Regina. I racconti di quei sollazzi letti davanti il severo aspetto delle Alpi, in un villaggio silenzioso, coperto di neve, producono l'effetto preciso d'una relazione medica sull'alienazione mentale, colla descrizione di tutti i sintomi della demenza, e di tutte le stranezze dei matti.

Alla primavera mi fu dato d'ammirare gli effetti dei lavori autunnali colle prime foglie che produssero un cambiamento completo di scena. Al momento dei trapianti non avevo veduto che ramoscelli sfrondati; la bella stagione, vestendoli di foglie e fiori, trasformò il casino e il suo giardinetto in un piccolo Eden. Una bella glicine s'arrampicava sulla facciata e passando sotto i balconi del primo piano profumava l'appartamento col soave odore esalato da' suoi grappoli violetti. I peri del Giappone erano coperti di fiori rossi, le spiree e i citisi di fiori bianchi e gialli. Gli anemoni, i mughetti, le primule schiudevano i loro bottoncini ai tepori primaverili. Le rose spiegavano la pompa dei loro colori, la grazia delle forme, l'olezzo soave che imbalsamava l'aria. Ogni pianta prometteva i suoi doni di fiori e di frutti, il suo tributo di colori, di balsami, di aromi o di sapori squisiti. Tutto questo lusso della natura mi rendeva gradito il soggiorno della casa.

Dietro una siepe viva di biancospini e cotogni s'udiva chiocciare, stridere, squittire, pigolare. Avvicinandosi si vedeva una coorte di vaghi volatili, anitre, tacchini, galline e pulcini che razzolavano sul lettame, svolazzavano, beccavano e correvano allegramente, e un bel gallo a penne variopinte, baldanzoso colla cresta e i bargigli rubicondi, pareva che dominasse sugli altri, e di tratto in tratto dirizzava il collo e mandava un superbo cucurucù.

Un maiale grugniva nel porcile, e sporgendo la testa dal foro che s'apriva sulla mangiatoia, v'immergeva il grugno, e poi lo alzava coperto di crusca che sbocconcellava avidamente, disperdendone d'intorno con agitazione convulsa, come quello che avevo veduto al mio arrivo in casa Bruni. Dall'altra parte c'era l'orto dapprima pieno d'ortiche e cardi selvaggi, ora tirato a cordetta, colle sue aiuole ricche d'erbaggi e pulite dalle male erbe, colle piante sarchiate a dovere, diradate in ordine, circondato da spalliere di viti, fiancheggiate da orli di fragole in fiori. Infatti il regno animale e il vegetale gareggiavano per farci ghiotte promesse, e l'occhio si riposava dovunque sull'abbondanza d'ogni bene. Ma una più lieta sorpresa mi attendeva nelle intime confidenze domestiche. Un bel giorno l'Agata commossa mi annunziò che sentiva la suprema consolazione di divenir madre. Allora incominciò a prodigare le sue cure al corredo che stimava necessario al fortunato mortale, atteso tanto ansiosamente, come il necessario complemento della nostra felicità, e lavorava tutto il giorno in fascie e guanciali, in benduccie, camicine, gonnellini, bavagli e cuffiette a pizzi che era una vaghezza a vederli.

Poi comparve una bella culla imbottita, e posata sugli arcioni per poter cullare il bambino, e questo era un dono dei futuri nonni.

La regia posta apportò l'annunzio a mio zio che alla sua venuta troverebbe la triade domestica completa. Mi rispose subito cortesemente ch'egli intendeva gli venisse riservato il piacere d'essere il padrino, e così correvano lettere, timbri postali, e fattorini a motivo d'un individuo che non era ancora venuto al mondo, e che già esercitava un'influenza sociale ed economica. Non dico niente dei nostri pensieri!.. sarà un maschio od una femmina?.. qual nome dobbiamo dargli?.. e si studiava sul lunario la lista dei santi. Poi si pensava all'educazione, agli studi universitari, alla carriera. Vorrà fare il medico, l'ingegnere, l'avvocato o il notaio?.. Sarà sindaco, deputato, ministro?.. era quasi ministro, e ancora non era comparso nel mondo!

Finalmente, un anno circa dopo le nozze, nasceva, non un maschio, ma la mia cara bimba, che il reverendissimo Monsignor Canonico Don Giuseppe Carletti teneva al sacro fonte battesimale, imponendole il nome di Giuseppina.

Tutti dicevano che era belloccia, a me pareva un angelo addirittura, e non mi saziava mai di guardarla, compiacendomi con mia moglie di tanta delizia.

– Guarda, – le dicevo, – guarda le sue manine, guarda l'unghia del suo dito mignolo, guarda la sua boccuccia, e quel nasino, e quegli occhietti, come è carina!.. come dorme tranquilla… senza rimorsi!

Mia moglie sorrideva d'un sorriso celeste, se la voleva sempre vicina, se la teneva stretta alla mammella, la guardava teneramente, le scacciava le mosche dal viso, la copriva di baci. Appese alla sua culla la medaglia di mia madre come una benedizione della povera nonna morta, e quando piangeva le cantava subito la ninna nanna per farla dormire.

Quando dopo un lungo sonno la bimba apriva i suoi occhietti, incontrava subito lo sguardo e il sorriso di sua madre che sorvegliava il suo riposo e aspettava che si svegliasse. Allora la chiamava con cento nomi diversi, pina… nina… tina… etta… nanina… e la bimba rideva come un angelo.

La nostra felicità era perfetta, e chi non crede alla felicità non ha mai avuto figli da una donna adorata. È certo che la felicità perfetta sulla terra guizza come il lampo.

Quella che proviene dai figli, se non s'ammalano prima, dura fino a che mettono i denti. Colla dentizione incominciano i primi affanni, che ci accompagnano, con corti intervalli, per tutta la vita.

Durante il suo puerperio mia moglie mi raccomandò caldamente di osservare con attenzione i suoi animaletti e le piante, affinchè ai primi non mancasse il cibo, nè alle seconde l'innaffiamento o i sostegni.

Mi ricordo d'un giorno che la Rosa essendo occupata nella stanza, l'Agata sentì un pipilare smanioso nel cortile, e se ne mostrò inquieta. Per tranquillarla scesi al pollaio, e vidi che il cibo mancava. Andai subito a provvederne, e ritornato in corte me ne stavo rannicchiato a sminuzzare della polenta ai pulcini che mi saltellavano intorno e mi beccavano le mani, quando udii una smascellata di risa dalla parte della strada. Alzai la testa e vidi il mugnaio Zaccheo sul deretano dell'asino, che guardandomi attentamente si sganasciava dal ridere.

– Buon giorno, Zaccheo, – gli dissi, – me ne consolo che siete di buon umore.

– Non può essere altrimenti, – mi rispose, – quando mi rammento che vi siete burlato di me perchè davo la pappa al mio bambino, ed ora vi vedo dare il pasto ai pulcini.

– Ridete che avete ragione, – soggiunsi, – quando mi burlavo di voi ero un imbecille, e non capivo che non si deve vergognarsi che a fare il male…

L'asino e il mugnaio si allontanarono, il primo camminando lentamente sotto il peso del secondo, il quale continuava a ridere della sua scoperta, bastonando in pari tempo la sua vittima, per farla andare avanti con maggior sollecitudine.

Io lo guardai lungamente pensando che il mio giudizio si maturava cogli anni, i quali apportano la calma della ragione; e sentivo finalmente con imparzialità i miei torti verso il mugnaio… e i torti di lui verso di me. Nè io dovevo ridere d'un padre affettuoso, nè egli d'un marito dabbene. Quando il maestro insultava il mugnaio, questi valeva più di lui; ma quando il mugnaio rideva del maestro, egli era un imbecille, perchè mentre io facevo del bene alle bestie, egli faceva loro del male, aggravando un asino laborioso del peso d'un uomo ozioso.

 

Chiunque lavora onestamente ha diritto d'essere rispettato, qualunque sia la sua posizione sociale, sia un maestro od un asino. Al mulino la macina e il mugnaio non fanno che girare, ma non lavora seriamente che l'asino, il quale apporta il grano sulle sue povere spalle, e riporta la farina, col peso del padrone sopra i sacchi. Per questo la tassa sul macinato, trovata troppo pesante dai contribuenti, riesce troppo mite per gli asini, che lascerebbero volentieri al mulino, per conto dell'erario, una dose maggiore di farina… ed anche il mugnaio per giunta.

Io richiamavo sovente alla memoria dei miei scolari l'esempio dell'asino e del mugnaio, e dicevo loro:

– Osservate l'uomo infingardo che pesa sulla bestia laboriosa… e ditemi francamente chi merita la lode e chi il biasimo?.. O gioventù, imitate sempre l'asino: esso vi offre l'esempio del lavoro, della rassegnazione, della obbedienza!.. quando il mugnaio rappresenta l'egoismo, la crudeltà, l'ozio gaudente e la spietata tirannide!..

Quando l'Agata m'udiva declamare con enfasi magistrale tali insegnamenti, essa pretendeva che mi restasse ancora sullo stomaco un po' di rancore indigesto, prodotto dal fiasco del mulino, ma non è vero; è proprio l'istinto naturale che mi ha sempre ispirato una viva simpatia per gli asini, e un grande rispetto per le loro virtù!..

XXI

La scuola progrediva migliorando, per le buone massime ch'io inculcava agli scolari, e m'avvedevo che un padre di famiglia è più opportuno d'uno scapolo all'insegnamento; le sue idee sono più posate, la moralità più sicura, la pazienza più longanime, e l'amore verso i fanciulli più naturale e sincero. E il maestro ammogliato trova esso pure maggiori compensi alle sue fatiche, perchè rientrando in famiglia dopo le ore di scuola, si rasserena alla vista dei bambini che gli corrono incontro, della moglie che gli sorride, del desco che lo attende, povero sì, ma consolato dalla presenza de' suoi cari. Eppure certi paesi civili che soppressero i conventi, ove il celibato spontaneo trovava una famiglia di confratelli, condanna i poveri maestri, con un meschino stipendio, a vivere nel celibato forzato senza famiglia.

Chi deve istruire i giovinetti, apparecchiando i materiali del futuro edifizio sociale, non conosce sovente le fondamenta della società: la famiglia.

La sua povera condizione l'ha costretto ad abbandonare il tetto paterno per recarsi lontano a guadagnarsi il poco pane che basta appena per la sua esistenza, e quindi gli viene interdetto il matrimonio dalla povertà. Egli non ha mai veduto una moglie affettuosa nella sua casa deserta, non ha mai udito nè il caro vagito dei bimbi, nè la voce stridula dei fratellini maggiori, non ha mai parlato di sante affezioni intorno al suo squallido focolare… esso è cieco, sordo e muto!.. e deve mostrare la luce ai figli altrui, e udire le loro obbiezioni, e parlare il linguaggio paterno ad estranei.

Dura condizione, e funesta al paese!

Io era una delle rare eccezioni, e la mia vita diveniva sempre più lieta per le cure affettuose di una moglie che metteva la sua gioia nell'amore della figlia e del marito, e impiegava tutta la giornata a farli felici. Al mio ritorno dalla scuola l'Agata mi aspettava sulla porta colla bimba in braccio, e le insegnava a farmi festa. Io le baciavo entrambe, prendevo la piccina con me fin che la madre apparecchiava la colazione od il pranzo, e si mangiava lietamente, colla bambina sui ginocchi, godendo de' suoi attucci, de' suoi movimenti vezzosi, del sorriso, della grazia colla quale chiedeva di far bombo, o mostrava di volere il cucco. Dopo pranzo, sparecchiata la mensa, la piccina vi danzava sopra sostenuta da sua madre, ed io passava un'ora senza accorgermi a farle il bau bau; e questo era il mio teatro. Altro che tragedie!..

Mia moglie si compiaceva di farmi delle grate sorprese. Un giorno trovavo sullo scrittoio del mio studio un bel mazzo di fiori, un'altra volta un lavoruccio di panno per pulire le penne, o una ghiotta pietanza in tavola, o un bel piatto di frutta. E sempre con qualche delicata attenzione mi faceva vedere che pensava a me anche quando ero assente. Se aveva delle buone notizie da darmi, mi veniva incontro per annunziarmele più presto; e mi faceva parte d'ogni minuzia, dicendomi che tutto doveva essere in comune nella vita domestica, e non mi risparmiava nulla:

– Sono nati i poponi; i piselli sono maturi, la magnolia ha fiorito, e ti aspettavo per condurti a vederla.

Un'altra volta trattavasi di casi più gravi. Erano nati venti pulcini da ventidue uova, uno s'era rotto, l'altro non si sapeva perchè si fosse ostinato a restare nel guscio. Un giorno poi la nonna aveva mandato in dono alla sua mimma un bel dente di cinghiale guarnito in argento, con una campanellina, da appendere al collo, e quello fu un vero avvenimento.

Ma quando aveva da darmi delle cattive notizie mi disponeva a poco a poco a riceverle con rassegnazione, evitandomi la scossa delle impressioni dirette e imprevedute, e così me le rendeva meno dolorose. Talvolta me le lasciava anche ignorare per evitarmi inutili amarezze, ed ordinava a tutti il silenzio. E se me ne accorgevo più tardi, e chiedevo conto d'un tacchino o d'un vaso di porcellana che non vedevo più, tutti, tutti d'accordo mi rispondevano: « Eh, eh!.. è tanto tempo che è morto!.. sono tanti mesi che è rotto!.. » e non se ne parlava più. Non c'era rimedio, e se tutti s'erano consolati, non mi restava che a fare come gli altri.

Ma chi potrebbe descrivere con verità l'entusiasmo materno e paterno alla prima parola balbettata dai propri figli? Ma qual lingua è più eloquente di quella d'un bimbo che dice per la prima volta mamma e babbo?

Forse chi non ha mai inteso questo linguaggio dai proprii figli troverà più ameno e interessante un discorso accademico. Per me protesto altamente contro tale eresia. E chi potrà spiegare fedelmente l'effetto prodotto nei genitori dai primi passi della loro creatura? quantunque il bimbo si regga appena col sostegno d'una mano sotto l'ascella e avanzi esitando il piede tremante, tuttavia la mamma esclama con ammirazione:

– Vedi… Vedi come cammina bene!..

E il primo dentino che spunta, ancora impercettibile, che appena si sente col dito, esso è più prezioso pei parenti del dente d'avorio d'un elefante trasportato in Europa colle carovane attraverso le steppe e i deserti!

Queste sono le piccole gioie e i piccoli dolori della vita domestica, ma pur troppo vengono anche i grandi. È appunto coi dolori della dentizione che incominciano le prime ansietà e le prime paure. Talvolta tali sofferenze producono la febbre. Quando un bambino ha la febbre, la buona madre non vive più, prostrata davanti la culla essa studia tutti i moti, gli sguardi, i gemiti più lievi e i sospiri del piccolo infermo, lo ricopre con somma cura e delicatezza, gli tocca la testa e le gote accese, lo bacia e lo inonda di lagrime. Vorrebbe dare la vita per vederlo guarito, e non può fargli nulla. Per essa quella febbre è il più grande avvenimento del giorno. Annunziatele la morte d'un uomo illustre… la perdita d'una battaglia… la caduta d'un regno… essa non se ne cura, non ascolta, non intende nulla; il suo bambino è ammalato, essa attende ansiosamente la visita del medico, e quando esso è giunto davanti la culla gli racconta minutamente i più piccoli sintomi scoperti e indovinati dalla sua chiaroveggenza e colle pupille intente nel volto del dottore ne indaga le intime impressioni, ne scruta il pronostico sulla fisonomia, teme d'essere ingannata per pietà, e vorrebbe indovinare il futuro.

Le malattie dei bambini!.. ecco l'amaro realismo che attossica il dolce idillio, ecco il primo scoglio che incontra la felicità coniugale. Quante angosce, quanti spasimi che succedono imprevveduti e repentini alle delizie della culla!..

Eppure gli stessi dolori servono a serrare sempre più il sacro nodo che stringe la famiglia, e ne rende più prezioso il legame. Che cosa resta nella sventura se manca il compianto di chi ha divisa la gioia?!..

Nei giorni nefasti, quando la mia Giuseppina cadde ammalata per la dentizione e il morbillo, la desolazione aleggiava sulla casa, e la nostra vita sembrava sospesa. Agata non abbandonava un minuto la sua creatura, nè di giorno nè di notte; beveva appena qualche sorso di brodo per sostenersi, e non chiudeva gli occhi oppressi dal sonno che col capo appoggiato al capezzale della piccola inferma, svegliandosi al rumore d'una mosca. Mia suocera era accorsa ad assisterci e a farci coraggio, la Menica aiutava la Rosa, Bitto non lasciava che di rado la camera dell'ammalata, ed io avevo perduta la testa, e non servivo che d'imbarazzo.

Ogni gemito della bambina ci gettava tutti nell'angoscia, ad un suo sorriso i nostri volti si illuminavano come l'orizzonte alla comparsa del sole, e quando migliorava sensibilmente, era una gioia universale.

Giuseppina era dotata d'una costituzione robusta; sua madre colle cure intelligenti del cuore aiutava potentemente la natura e la scienza, e grazie al cielo nostra figlia ci fu conservata, e passate le burrasche d'infanzia crebbe in buona salute, acquistando vigore dall'esercizio delle membra nell'aria pura ed elastica delle montagne.

Agata la sorvegliava e dirigeva con intelletto d'amore, secondando il bisogno costante dei fanciulli di muoversi, di correre e saltellare, ma occupandosi in pari tempo dello sviluppo del corpo, della mente e del cuore. Non rispondeva mai alle sue domande con quelle erronee asserzioni che lasciano nei fanciulli un lievito d'idee false e di pregiudizi. Le spiegava ogni cosa con verità e precisione; evitando soltanto ciò che sfiora il candore e l'ingenuità giovanile, ma aguzzando il suo intelletto, ed alzando il suo pensiero ad elevati concetti; coltivando nel suo cuore i sentimenti più nobili, delicati, gentili, che avvezzano a pensare agli altri prima che a sè, godendo maggiormente del bene operato in favore altrui, che d'un piacere personale. E la bambina cresceva sana e affettuosa, forte e sensibile, e con gusti semplici.

Quando muoveva i primi passi ancora incerti, si abbrancava al pelo dello schiena di Bitto, e si teneva salda al suo appoggio, ed egli andava avanti pian piano, l'aiutava a camminare, mostrandosi altamente compreso della sua responsabilità. Bitto fu il primo amico di Giuseppina, e certo il più devoto e fedele; compagno inseparabile della sua infanzia, fu in pari tempo il suo protettore e la sua vittima. Egli la seguiva dovunque, coll'intento evidente di sorvegliare i suoi passi, e guai se un uomo od una bestia le bazzicava troppo vicino! egli li avvertiva con un grugnito significante, di passare al largo, e nessuno se lo faceva dire due volte, nè aveva voglia di scherzare quando il guardiano mostrava i denti.

Quando il cane si sdraiava maestosamente sulla soglia, la bambina andava a sedergli in grembo, egli si acconciava in semicerchio per riuscire più comodo, e talvolta essa, appoggiando la bionda testa ricciuta sul nero pelo del suo amico, s'addormentava tranquilla; e non c'era pericolo che Bitto si movesse fin che durava quel sonno. Quando essa apriva gli occhi egli la guardava con affezione, e se la piccina piangeva, le lambiva il viso e le mani per consolarla.

La vita intima e solitaria sprona naturalmente alle confidenze. Parlavamo con mia moglie del passato, dei parenti morti, dei giuochi d'infanzia, delle prime conoscenze, si voleva che nulla rimanesse segreto fra noi. Agata mi raccontò i primi anni della sua vita, passati come la nostra Giuseppina fra le carezze dei genitori e i fiori del giardino; la sua dolorosa partenza pel collegio di Como, i giuochi colle compagne, le amicizie, le gelosie di quel piccolo mondo, i sogni color di rosa dell'educanda, il lieto ritorno alla casa paterna, i giorni sereni passati accanto alla madre, le occupazioni della vita domestica, i piaceri del giardino e dell'orto, i passeggi, le letture, le opere di carità verso i poveri e finalmente la mia fatale comparsa.

Pare ch'io portassi meco da Milano una cert'aria che produsse l'effetto dei venti alisei sul mare in bonaccia. Io ascoltava con naturale soddisfazione le ingenue confessioni dei primi torbidi prodotti dalla mia presenza in quell'anima pura. La mia fredda indifferenza ispirandole piena fiducia, essa si era abbandonata senza timore, e senza sospetti, a studiare il fenomeno interessante della caduta d'un Milanese in Valtellina. Ma non si scherza col fuoco, signorine!.. ed è certo che l'amore intenso che ardeva nel mio petto per la contessa Savina emanava un calore latente, che pervenne a scottare il cuore dell'Agata.

 

Potrei paragonarmi ad una stufa ignara delle sue facoltà.

Da tali confidenze venni anche a scoprire che la simpatia dell'Agata sul mio conto fu dapprima combattuta da' suoi parenti, e ritengo per fermo che ciò abbia contribuito non poco a sviluppare l'amore successivo, perchè le figlie d'Eva conservano sempre una tendenza ereditaria pel frutto proibito; perciò avviene sovente che l'opposizione ad un matrimonio fa l'effetto del mantice nella fucina: ravviva la fiamma.

Le mie scappatelle offersero validi argomenti ai signori Bruni per farmi la guerra, ma l'Agata mi difendeva accusando i perversi compagni che mi trascinavano mio malgrado sulla strada del male e così dimostrava senza saperlo che i cattivi soggetti sono talvolta più fortunati dei buoni anche presso le donne oneste. Ed è naturale: i piatti ghiotti non sono i più semplici.

Le dissidenze domestiche rimasero sospese fino al momento della mia dichiarazione d'amore, la quale avendo gettato della paglia sul fuoco fece divampare un incendio irresistibile. Allora i parenti cedettero perchè non siamo più ai tempi dei Capuleti e Montechi; essendo soppressi i conventi, Giulietta non trova più il frate Lorenzo che le somministri il sonnifero, e i buoni genitori volendo vedere l'unica figlia felice, lasciano che sposi il suo Romeo, anche se questi non è che un povero maestro rurale.

D'altronde le idee dell'Agata erano assai modeste. Essa non aveva che un solo desiderio: trovare un marito che non fosse un piffero di montagna, e vivere vicino ai genitori, nel villaggio ove era nata, occupandosi del suo compagno, dei figli, coltivando i fiori, allevando degli animali, e rendendo tutti felici, uomini e bestie. Era convinta che non occorre cercar la felicità da lontano, che sta dentro di noi, e che da per tutto le buone mogli fanno i buoni mariti, e viceversa.

Non faccio per vantarmi, ma essa poteva dire di aver guadagnato al lotto, sposando un galantuomo, che in fine dei conti non era nè un allocco nè un povero, essendo milanese e nipote d'un zio canonico.

Io pure alla mia volta le feci le mie confidenze esplicite, franche ed ingenue, senza restrizioni mentali. Le raccontai per filo e per segno il mio amore petrarchesco per la contessa Savina, muto ma profondo come il silenzio, e condensato come l'acqua bollente nelle caldaie a vapore; alimentato dalla fiamma di due occhi più vivaci del sole. E non le tacqui le mie ridicole illusioni intorno all'amore e alla gloria, nè le feci mistero del mazzetto di fiori raccolto e del bacio respinto, e le narrai fedelmente le mie follie, le lagrime versate, le ansietà e le speranze, i disinganni e i dolori che furono le conseguenze di questo errore giovanile.

Agata mi ascoltava attentamente richiedendomi sempre nuovi particolari, e obbligandomi di disotterrare le minuzie insignificanti che stavano sepolte nella mia mente sotto la motta degli anni. Poi si arrestava a considerare tutti i motivi che potevano aver spinto la contessa Savina a raccogliere il mio mazzolino di fiori, a mostrarsene soddisfatta, e poi a non corrispondere al mio bacio. Analizzava con sottili argomenti il cuore della fanciulla, e volendo giudicarla dai risultati, conchiudeva accusandola di leggerezza, d'ambizione, di civetteria. Tale giudizio sembrandomi ingiusto, la difendevo, forse con troppo calore, e allora l'Agata mi guardava fisso e impallidiva… e io tacevo.

Talvolta voleva una esatta descrizione della persona e delle vesti, e doveva spiegarle come era pettinata, quali fossero i suoi gioielli e i colori preferiti, e tutto questo mi faceva ripensare a molte cose dimenticate, e in fine si soffriva tutti e due.

Ero quasi pentito d'aver toccato un tasto doloroso; forse commettevo un'imprudenza scoprendo una mina che non aveva scoppiato, ma mi sembrava un dovere di coscienza non aver segreti per mia moglie, alla quale avevo oramai dedicata tutta intiera la vita.

Siccome il cielo non può rimanere sempre sereno, ed anche nei climi migliori si vedono delle nuvole, così la più onesta e felice esistenza ha i suoi giorni burrascosi. La gelosia venne a intorbidare la nostra pace, una gelosia retrospettiva, la peggiore di tutte; e perchè è impossibile annullare il passato, e siccome è una passione cieca, che si pasce di vani fantasmi, che si adombra del vuoto, così la ragione non basta a calmarla, nè a premunirci contro le uggiose sorprese di questa strega, che rode sè stessa e rende ingiusti e cattivi. Erano piccoli attacchi, ma essendo immeritati, irritavano il mio carattere onesto, mi toglievano la pace, e mi mettevano di pessimo umore.

Agata, prendendo nelle braccia la nostra bimba, mi diceva:

– Ti pare che rassomigli alla tua contessa?

La mia contessa!.. questa parola mi urtava i nervi, e rispondevo con troppa vivacità, o con sdegnosa ironia.

– Ecco!.. – essa continuava, – non si può parlare di lei senza metterti in agitazione.

– Ma non è perchè mi parli di lei, che mi fai dispetto, sibbene perchè ne parli come non hai diritto!..

– Scusami se manco di rispetto… ad una civettuola.

Io prendevo il cappello e fuggivo, coll'intenzione di lasciarla sola un paio d'ore per infliggerle una punizione e tenerla nell'inquietudine… ma dieci minuti dopo tornavo indietro per darle un bacio e la trovavo cogli occhi rossi.

– Ma, santo Dio!.. che cosa hai adesso?.. Che cosa vai sognando per intorbidare la nostra vita onesta e tranquilla?.. Grazie al cielo nessun dolore ci opprime, nessuna pena ci affanna, e tu vai cercando il pelo nell'uovo!.. Che cosa hai bisogno di andare a pescare in un passato remoto… che è scomparso per sempre!..

– Per sempre!.. – essa riprendeva, – chi ti assicura per sempre!.. Puoi tu conoscere quello che ci riserva l'avvenire?.. Ho sempre udito dire che il fuoco più pericoloso è quello che cova sotto la cenere… la contessa è ancora giovane… e poi che può fare l'età?.. gli anni passano egualmente per l'uno e per l'altro, e così si resta eguali. Le passioni più violente non sono le prime, ma le ultime… se poi sono le prime, riprese dopo un desiderio infinito, allora ti voglio!..

– Ti prego in grazia, lasciami tranquillo; sei ingiusta e un po' troppo caparbia!.. non rispetti la mia onestà… e nemmeno l'evidenza… noi siamo in Valtellina, e la contessa è a Milano… o forse altrove.

– Le montagne stanno ferme, ma gli uomini camminano.

– Insomma non mi seccare… e basta.

Essa abbassava il capo e taceva, ma si sentiva nella stanza la temperatura della Siberia; io non mi potevo rassegnare, e saltava su nuovamente.

– Dimmi, Agata… tu hai dunque perduto la stima di tuo marito?

– No… ma…

– Ma che cosa?

– Che so io?.. ho sempre un pensiero molesto che mi tormenta, e che cerco invano di soffocare… o almeno di rinchiudere in me sola…

– Qual è questo maledetto pensiero!

– Penso a quel bacio!..

– Ebbene quel bacio… che cosa significa quel bacio?.. Allora io non ti conoscevo, non avevo ancora vent'anni, ero un ragazzo senza testa… ma libero delle mie azioni… ti ho confessato che ero innamorato… come tutti i giovani della mia età… e non mi pare d'aver perpetrato un delitto… irreparabile per aver mandato un bacio ad una ragazza… a venti e più metri di distanza!.. e che essa non ha nemmeno restituito!..

– Si vede che te ne dispiace ancora!..

– Invece ti giuro che adesso non me ne importa affatto!