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Il bacio della contessa Savina

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XIV

All'ora fissata v'andai. M'aspettavo una ramanzina in piena regola, invece fui sorpreso che non parlassero nemmeno de' miei malanni. Mi accolsero colla solita benevolenza, chiedendomi scusa d'avermi incomodato; ma conoscendomi compiacente e gentile, le signore mi pregavano di accompagnarle in un sito deserto della montagna, essendo il signor Nicola impedito, e non osando avventurarsi sole con Martino in quei greppi.



Partimmo subito, seguiti dal domestico che portava un cesto coperto, e preceduti da Bitto che andava ad esplorare il terreno, ed abbaiava alle pecore che pendevano dall'erta e ci guardavano passare con attenzione e diffidenza. Pare che certe bestie non abbiano troppo buona opinione dell'uomo.



La strada fu lunga e faticosa per l'ardua salita, ma la buona compagnia, l'aria fresca ed elastica e l'aspetto pittoresco e variato del paesaggio me la fecero sembrare agevole e breve. Strada facendo aveva chiesto dove s'andava, e l'Agata mi aveva risposto:



– Andiamo a fare un po' di bene… ve ne dispiace?



– Ne sono contentissimo, e ne sento bisogno io che faccio tanto sovente del male.



Non mi rispose, e poco dopo continuò:



– I nostri montanari hanno l'abitudine d'emigrare in lontani paesi per sostentare le loro famiglie col lavoro e fare qualche risparmio. Talvolta ritornano a casa ricchi o almeno ben provveduti, talvolta affranti dagli stenti, dalle privazioni, ammalati e più poveri di prima. Ecco il nostro caso. Si tratta di un padre di famiglia ritornato misero e infermo.



Intanto eravamo giunti davanti una catapecchia affumicata che sorgeva come una vedetta a picco della valle, in un angolo sporgente a diritta della strada maestra. Eravamo ad una grande elevazione; si vedeva al basso il torrente come un nastro azzurro, serpeggiante fra le piccole colture frastagliate, poi come un anfiteatro a scaglioni ove verdeggiava un magro frumento in piccoli spazi di terreno sostenuti da muricciuoli a secco, qualche casupola sparsa e biancheggiante fra i cespugli, e più in alto i pascoli interrotti dalle frane e dalle valanghe, sparsi di alcuni castagni giganti che si aggrappavano ai crepacci colle grosse radici; grandi e piccoli macigni franati dalle cime erano sparsi sugli strati erbosi che giungevano al margine dei precipizi. In alto e da lontano le aride giogaie erano spruzzate di neve, che brillava al sole e spiccava sull'orizzonte turchino.



A sinistra della strada s'alzava un bosco di abeti, che secondando le curve della montagna andava a perdersi fra le gole lontane. Sul margine del bosco in cima al muraglione sostenente il terreno tagliato dalla strada, pascolava una capra, vicino alla quale sedeva una bambina bionda e ricciuta, bianca e rossa ch'era una bellezza a vederla.



Al nostro avvicinarsi la capra alzò la testa mandando un lungo belato, e la bambina s'alzò in piedi per fuggire. Allora s'aperse l'uscio del tugurio che stava dirimpetto, e comparve sulla porta una donna giovane ancora, ma sparuta, solcata dalle rughe d'una precoce maturità, lacera nelle vesti, scapigliata e affranta dalle veglie, squallida dalla miseria.



Vedendo l'Agata alzò le mani e gli occhi al cielo esclamando:



– Benedetto Iddio!.. ecco la Provvidenza!..



Agata l'interruppe interrogandola ansiosamente:



– Come va il povero Beppo?



– Sempre lo stesso, signora!.. sempre la febbre… e i dolori. Ma se vuole consolarlo si mostri sulla porta.



– Entriamo, entriamo, – disse l'Agata, e la povera donna c'introdusse nella stanza dell'infermo.



Da una sola finestra vestita di carta entrava nello stambugio una luce smorta. L'infermo smunto, giallognolo, colle occhiaie incavate e segnate da un cerchio livido, cogli zigomi protuberanti, le labbra violacee, i capelli rabbuffati, l'occhio semispento, stava seduto sul suo giaciglio colle braccia distese sulle coltrici rattoppate, rotolando l'estremità del suo lenzuolo di stoppa nelle scarne mani. Al comparire d'Agata schiuse le labbra ad un sorriso, i suoi occhi parvero avvivarsi, poi due grosse lagrime gli corsero sulle guancie. Ci salutò con un cenno del capo accompagnato da un'alzata di mano, e ripeteva con voce fioca:



– Grazie… grazie… ho pregato per voi tutto il giorno… non posso far altro, grazie pei poveri bambini… e per le donne… che per la vostra carità non hanno più sofferto la fame!.. Iddio salverà la vostra famiglia dalle disgrazie, io confido in lui… per me sia fatta la sua volontà… anch'Egli ha sofferto tanto per il bene, la giustizia e l'umanità… – e così dicendo accennava colla mano un Cristo che pendeva a capo del letto, un Cristo colla testa cadente incoronata di spine, colle piaghe sanguinose, e i piedi insudiciati dai baci di varie generazioni di devoti e di moribondi.



La povera moglie ci raccontò allora le lunghe sofferenze di suo marito. Egli era partito con profondo rammarico dal suo tugurio, ove lasciava quanto aveva di più caro sulla terra: la vecchia madre, la moglie, tre bambini che gli saltellavano intorno, sempre allegri e contenti, e volevano seguirlo dappertutto. La bambina, la sua delizia, lo accompagnava sul monte nella stagione della falciatura del fieno, e s'addormentava all'ombra. Egli la coricava sulla sua giubba e le copriva il volto col fazzoletto per ripararla dagli insetti. Alla sera se la portava a casa in braccio, contenti tutti e due. Lasciare tali abitudini, tanti affetti di famiglia, e andar ramingo in lontani paesi gli tornava amaro, doloroso, straziante. Ma mancava il lavoro, e quindi il pane per tutti. Partì col cuore lacerato quando cadevano le foglie e la cattiva stagione s'avvicinava a gran passi. Una mattina, preso sulle spalle un piccolo fardello, baciò la madre e i bambini e seguito dalla moglie uscì dalla sua capanna, ove avrebbe vissuto felice se avesse potuto vivere. La sua donna lo accompagnò fin fuori della valle, parlando dei loro interessi. Ma quando non vide più la sua dimora, fu inquieto e la rimandò. Si lasciarono con un cenno del capo e della mano, senza poter proferire una parola, nè l'uno nè l'altra: il dolore li strozzava.



Durante l'inverno quei tapini rimasti alla capanna, quasi sepolti sotto la neve, ricevettero qualche soccorso dall'estero. Il cursore comunale portava le lettere, e la povera donna sfidando le intemperie scendeva dal monte, trovava il danaro assicurato alla posta, faceva le sue provviste al capoluogo, e rimontava lentamente colla neve fino al ginocchio, e le spalle cariche della gerla piena. Ma sapeva almeno che il marito stava bene e pensava a loro, e li sosteneva lontani; i bimbi l'aspettavano sulla porta, battevano le mani all'arrivo di lei, facevano mille feste alla comparsa di tante buone cose che portava, e la nonna riceveva il tabacco e il pane, e tutti avevano da vivere in pace aspettando la buona stagione. La solitudine, l'isolamento, il freddo in mezzo a quei monti ricoperti di neve non ispaventavano quella povera famiglia quando aveva della farina e del sale, del formaggio e del latte. Il giorno, se brillava il sole in un cielo sereno, i bambini giocavano sulla neve, vi facevano banchi, grotte, edifizi fantastici, e quando imperversava la bufera, si raccoglievano colle donne intorno al focolare, rannicchiati sotto la cappa del camino, come i pulcini sotto la chioccia. Abbruciavano i rami odorosi dell'abete e del ginepro, cuocevano le patate sotto la cenere, la fiamma viva li compensava del sole assente, il gorgogliare della pentola li consolava dei sibili del vento, e i vortici del fumo erano a loro meno molesti delle pungenti ambizioni che agitano la società. Nè trovavano verun motivo di lamentare la loro sorte, e non si sarebbero mai immaginati che a questo mondo si possa desiderare di più!..



Alla sera si mettevano tutti in ginocchio, e dicevano le orazioni tutti in comune. Pregavano per la famiglia, per gli assenti, i viandanti, gli emigrati, gli infermi, ed invocavano la salute e le benedizioni del cielo, e si raccomandavano alla divina Provvidenza che li proteggesse in questa vita mortale, rendendoli degni di meritare nella vita eterna il compenso delle sofferte afflizioni. Dicevano

requiem

 pei morti, e ringraziavano il padre che sta nei cieli del pane quotidiano, lo pregavano di perdonare i loro peccati, di difenderli dalle tentazioni, di liberarli dal male. Poi indirizzandosi alla Madonna la supplicavano della grazia di rivedere presto il loro padre, il marito, il figliuolo, in buona salute… e intanto che il Signore lo benedica e difenda dalle disgrazie. E si coricavano tranquilli, pieni di fede, di speranza, di carità.



Finalmente venne la primavera, sempre gradita a tutti, ma specialmente a chi ha vissuto sei mesi sotto la neve. I geli si disciolsero ai tiepidi raggi del sole, e ricomparvero le foglie sugli alberi, e il verde tappeto sui pascoli. Coll'arrivo delle rondini la madre di famiglia attendeva il ritorno del marito assente, e molte volte al giorno gettava un'occhiata sulla strada maestra, per vedere se da lontano si vedesse comparire qualche viandante. I bambini pure aspettavano il babbo, e si ripromettevano dei ghiotti bocconi, coi quali avrebbero celebrato il sospirato ritorno. La nonna seduta al sole guardava parimente la strada, aspettava e pregava tutto il giorno per lui. Ma le rondini libravano il volo da lunghi giorni sulla valle cacciando gl'insetti, i nuovi nidi erano già costruiti, le fronde s'addensavano, l'erba e il frumento crescevano rigogliosi… e l'emigrato non compariva. E non solo non si vedeva di ritorno, ma non giungevano più nè lettere, nè danaro. I primi giorni che oltrepassarono il termine supposto al rimpatrio si cercò d'ingannare l'ansietà dell'aspettativa con argomenti immaginari. Un lavoro impreveduto, un ritardo prodotto da necessità insuperabili, strade cattive, tempi perversi, combinazioni che succedono in viaggio. Ma mentre crescevano le inquietudini mancavano i viveri.



Fortunatamente nacque un capriolo, che venne portato al mercato, onde si cambiò il danaro negli oggetti più necessari. Poi anche queste piccole provvigioni si esaurirono, quantunque misurate a rigore, appena da non morire di fame. Bisognava contentarsi d'un po' di polenta senza sale, bagnata nel latte di capra. Pazienza anche questo, se almeno il cuore fosse stato contento, ma l'amarezza profonda che dilaniava le viscere delle povere donne condiva colle lagrime lo scarso alimento.

 



Alla fine giunse una lettera, scritta da un compagno di sventura, la quale annunziava che il loro diletto languiva in uno spedale della Germania. Le fatiche di un intenso lavoro, il clima incostante, le privazioni imposte dalla necessità di assicurare il vitto all'amata famigliuola, avevano stremate le forze dell'infelice, caduto vittima del suo coraggio. La ripugnanza d'entrare allo spedale gli aveva fatto consumare nei primordi della malattia tutti i suoi risparmi. Affranto dal male, e mancante d'ogni mezzo dovette rassegnarsi ad entrare all'ospizio. Così passarono due mesi d'incertezza, di terrori, di patimenti aggravati dal patema d'animo che l'opprimeva.



Tali notizie gettarono nella desolazione le povere donne. – Forse non lo vedremo mai più!.. fu il loro primo pensiero, al quale s'aggiunse il secondo: – Lontano, povero e infermo, e non abbiamo nessuna probabilità di raggiungerlo, di mandargli dei soccorsi, di prodigargli la nostra affettuosa assistenza!.. noi qui nella miseria, egli più misero di noi in mani straniere!.. Morirà di crepacuore, e l'agonia non sarà consolata da un solo sguardo dei suoi cari. Le donne pensavano queste cose, e la moglie ce le raccontò come le fu possibile, col linguaggio del cuore.



In tale frangente bisognava pensare ai bambini che avevano fame, bisognava ingegnarsi in qualche modo, e lavorare coll'anima lacerata dal dolore e col corpo affranto dagli affanni, dalle veglie, dai patimenti d'ogni fatta.



La misera donna raccoglieva della legna secca nei boschi, col pericolo d'essere arrestata dai guardiani e condotta in prigione, poi la portava da lontano sulle spalle attraversando burroni e precipizii, coi piedi insanguinati dai frammenti delle roccie. Venduta la sua fascina, riportava un po' di pane alla famiglia per incominciare da capo all'indomani le stesse tribolazioni.



Quanti stenti, quanta miseria, e quanti dolori!.. Nelle città non si hanno idee di tali patimenti umani… E quella povera famiglia si prostrava a terra, ogni sera, per ringraziare Iddio d'averla fatta campare, offrendo le sue pene, le angoscie e la fame in espiazione dei peccati. E supplicava tutti i santi di muoversi a pietà di tante sventure. I tre bambini pregavano colle manine giunte e gli occhi rivolti al cielo come la madre e la nonna, perchè il dolore si sente a tutte le età; esso fa maggiorenni i pupilli prima del tempo legale.



Una sera, mentre stavano tutti ginocchioni davanti il Cristo, videro aprirsi la porta e comparire sulla soglia uno spettro che traballava sulle gambe… Era lui.



– Grazie, Iddio!.. – egli disse con voce sepolcrale… – Grazie, Iddio! che mi avete conceduto di venir a morire sul mio letto.



Le donne saltarono in piedi, e giunsero in tempo di sostenerlo fra le loro braccia, mentre cadeva privo di sensi.



Il desiderio di rivedere la sua famiglia gli aveva somministrato le forze sufficienti per alzarsi dal letto dell'ospitale, dissimulare ai medici le sue sofferenze, protestare contro la loro insistenza di volerlo curare, e chiedere come un sommo favore di tornarsene a casa. Non ci fu verso di persuaderlo che sarebbe morto per via: volle partire.



Senza forze, senza danaro, e colla febbre indosso aveva fatto il viaggio a piedi, chiedendo la elemosina per via, e dormendo sulla nuda terra, quando al suo aspetto spaventoso i contadini si rifiutavano di lasciarlo passare la notte sul fieno.



Un pensiero lo sosteneva nei disagi: abbracciare ancora una volta i suoi cari. Egli varcò i monti barcollando, trascinandosi a piccole giornate, salendo talvolta sopra qualche carro sul quale veniva raccolto dai carrettieri mossi a pietà del suo stato.



L'energia della sua volontà vinse gli ostacoli, lo sostenne nel suo proposito, fu più forte del male, e potè trascinarlo fino alla porta del suo tugurio. Steso sul letto, lo credettero morto; ebbe un lungo svenimento, ma rinvenne. L'aspetto dei volti che stavano contemplandolo piangendo lo compensò dello sforzo sovrumano del viaggio. Egli aveva raggiunto la meta, si beava in quegli sguardi amorosi, e si lasciava morire in pace.



Ma appena riavuto, le donne si misero in traccia di quanto potevano offrire al diletto infermo. Santo Dio! mancavano di tutto, non avevano da offrire al moribondo che acqua!.. Ma era l'acqua del suo torrente, l'acqua che scorreva ai piedi del monte che lo vide nascere, quella che bevevano sua madre, sua moglie, i suoi bambini; era più che un'acqua medicinale… era un'acqua santa!



La bevette con voluttà, e parve che ne sentisse sommo benefizio perchè potè dormire per alcune ore. Ma compiuto lo sforzo della natura, il male riprendeva il suo vigore. Tuttavia benediceva Iddio, lo ringraziava del sommo favore ottenuto, e sperava nella divina misericordia. Colui che aveva fatto il miracolo di ricondurlo a casa avrebbe potuto anche salvargli la vita, e assistere la famiglia durante la sua infermità. E di fatti fece anche questo. La moglie corse a chiamare il dottore Canziani, il quale, esaminato il malato, udita la storia dolorosa, veduta tanta miseria, raccomandò la povera famiglia all'Agata, avendo esperimentato altre volte quanto avesse giovato ai miseri il patrocinio di quella pietosa fanciulla.



Agata mandò subito i primi soccorsi, poi volendo conoscere la povera moglie, se la fece venire in casa, le somministrò gli oggetti più indispensabili ai malati, e i viveri per la famiglia. Finalmente si decise di visitare in persona l'infermo e vi andò con suo padre, carica di nuovi doni.



Uditi i miei stravizii, pensò che l'aspetto delle umane sofferenze potesse essere un farmaco salutare a chi cade in errore senza aver l'animo guasto, e colse questa occasione per procurare un doppio beneficio, giovando a due malati in una volta, uno colpito nel fisico, l'altro nel morale, soccorrendo d'un tratto la miseria e la corruzione.



Ecco il motivo della nostra gita, che l'Agata voleva dissimulare, ma che mi venne rivelato dalla coscienza. Lo scopo era raggiunto: io mi sentiva commosso fino al fondo del cuore, sentivo il rimorso della mia condotta, pensando che mentre un uomo laborioso languiva nello squallore d'uno spedale straniero e lontano, mentre una povera moglie desolata, una vecchia impotente, dei bambini innocenti soffrivano il freddo e la fame sotto la neve, io scialacquavo in una notte sbevazzando e giuocando, in crapulosa compagnia, ciò che avrebbe bastato a coprire quei miseri, a farli campare per molto tempo, a soccorrere un infermo, a pagare una vettura che lo avrebbe ricondotto alla sua famiglia senza disagio.



Chi spreca il danaro in vizio dovrebbe rammentarsi talvolta che al mondo non mancano mai miserie da soccorrere, nè sventure da riparare.



Intanto ch'io facevo tali considerazioni, Martino vuotava il cesto, e ne uscivano provvigioni d'ogni fatta. Le benedizioni di quegli infelici erano largo compenso all'animo gentile delle signore, che frenavano a stento le lagrime.



Usciti dalla camera dell'infermo incontrammo gli altri due figliuoli che rientravano colla nonna, portando delle erbe per la cena, e della legna da fuoco. La madre presentò alle benefiche donne i ragazzi e la vecchia rugosa e ricurva, che piangeva dalla consolazione in vederle, mentre la bambina ricciuta, superata la sua timidezza in forza della curiosità, scendeva tranquillamente dal monte colla sua capra, e veniva a completare la famiglia, ed a ricevere i bomboni dell'Agata e i nostri baci.



Il sole era tramontato quando partimmo, onde giungemmo al villaggio a notte inoltrata. La strada, meno faticosa per la discesa, ci parve anche breve, perchè i pensieri che occupavano la nostra mente ci facevano passare il tempo con rapidità. Giunti alla porta di casa Bruni, salutai la signora Giovanna, e dissi alla ragazza:



– Vi ringrazio, Agata, della buona sera che mi avete fatta passare. Sapevo che la beneficenza è un dovere, ma ignoravo che fosse uno dei sommi piaceri della vita, di quei piaceri che entrano nell'anima e vi lasciano una dolce ricordanza. Vi ringrazio anche della lezione!.. essa non sarà perduta. Dal rimorso al ravvedimento non c'è che un passo. Vi prometto che non avrò mai più ad arrossire della mia condotta.



– Vostra madre vi ascolta!.. – mi rispose, e fissandomi con uno sguardo significante si ritirò dietro sua madre.



Io rientrai in casa, cenai con appetito, perchè avevo il corpo stanco e l'animo lieto, e quando Bitto, secondo il suo costume, mi fece molte carezze, sentii che quel giorno non ero indegno dell'affezione del mio cane.



XV

Per riparare almeno in parte i passati miei torti io visitai sovente il povero infermo, portando il mio obolo al tugurio, e qualche dolciume ai fanciulli che mi presero presto in amicizia. La loro ingenua affezione mi tornava assai più grata di quella dei miei compagni di disordine, e seduto su quei greppi colla bambina, mentre la capra rosicava le foglie dei mirtilli e dei roveti, e Bitto vagava pel bosco alla caccia di tutto quello che brulicava sulla terra e sugli alberi, io mi sentiva calmo e predisposto a fare il bene; l'aria pura ed elastica della montagna mi risvegliava teneri sentimenti ed elevati pensieri, l'esalazioni silvane esilaravano il mio spirito, il silenzio solenne di quelle solitudini mi facevano fantasticare gradevolmente, e mi pareva impossibile di aver per qualche tempo abbandonato i miei passeggi e le mie contemplazioni per vivere in cattiva società nell'afa dell'osteria, grave ai polmoni, che esalta il cervello ed abbrutisce il cuore.



Uguccione della Fagiuola non era contento, e tentò, ma invano, d'eccitarmi a non abbandonare gli amici e la partita, rinnovandomi il suo panegirico del vino, e dicendomi che il soldato non deve mancare di coraggio per una battaglia perduta. Gli risposi con fermezza irremovibile che avevo rinunziato per sempre al giuoco ed all'osteria, senza rinunziare per questo ai buoni amici e al buon vino, ma aggiunsi che non stimavo buoni amici coloro che mi spogliavano mentre ero ubbriaco, nè buon vino quello che mi faceva dormire sotto ai tavoli. In quanto all'esempio del soldato, gli risposi che chi aveva la testa rotta era autorizzato a passare agli invalidi, e che in quanto al coraggio, ce ne voleva talvolta di più per sostenere una ritirata che per tornare alla lotta. Io parlavo per esperienza, non potendo vantare nella mia vita una sola vittoria, ma molte sconfitte.



Uguccione non si mostrava persuaso de' miei argomenti, ma non sapendo che cosa rispondere, agitava furiosamente il suo cappellaccio in segno di disapprovazione, ed essendo testardo ed organista ad un tempo, mi risuonava continuamente lo stesso motivo, con poche e cattive variazioni, fermandosi lungamente sopra una nota, come soleva fare nell'organo. Il giuoco abbandonato lo crucciava più del dovere.



– Ma non volete nemmeno tentare una rivincita? – mi diceva. – Ma tentate dunque una rivincita… e vedrete i capricci della fortuna.



– La rivincita, – io rispondevo, – l'ho ottenuta il giorno che feci solenne giuramento di non prendere più in mano una carta da giuoco; da quel momento ho guadagnato tutto quello che avrei perduto giuocando, senza tener conto del denaro risparmiato nel vino… e nell'acqua che vi si trova sovente commista, nè della salute perduta a forza di disordini, nè della riputazione pregiudicata a mio danno.



A me, caro Tobia, basta una sola lezione, la perdita d'un solo orologio, una sola notte funesta!..



Uguccione, vedendo impossibile il convertirmi, si metteva a ridere con quella bocca sperticata, spalancando le sue labbra da Cafro con strani sberleffi, ed accusandomi di subire le malvagie influenze del clero.



Questo Ghibellino arrabbiato aveva in parte ragione, perchè due giorni dopo tal dialogo giungeva al villaggio mio zio, e l'arrivo del canonico riconducendomi a visitare il parroco mi gettava nuovamente nelle braccia dei Guelfi, capitanati dall'arcivescovo Giovanni.



Uguccione sghignazzava co' suoi amici sulla mia apostasia… egli aveva perduto il suo pollo.



Mio zio, che si recava ai bagni di Bormio, volle farmi il favore di arrestarsi qualche giorno al villaggio; ond'io gli feci ammirare i restauri del suo casino, la modesta agiatezza succeduta al lurido disordine del mio antecessore, ed egli ne rimase soddisfatto.



L'accompagnai in casa Bruni per ringraziare quei buoni signori di tutte le bontà che mi andavano prodigando. Essi diedero un pranzo in onore di lui, e furono tanto cortesi non solo da tacere la mia condotta, ma anche da farmi degli elogi.

 



Io era tutto contento di rivedere il mio vecchio zio, ambizioso di fargli gli onori di casa, lieto di prodigargli le più delicate attenzioni, e tutte le cure d'una ospitalità previdente.



Io avevo dato alla Rosa le opportune istruzioni; abbandonare ogni grettezza, procurarmi i cibi migliori, i vini più scelti, e far debiti in caso di bisogno. Io sedevo a tavola dirimpetto a mio zio, lo servivo con sollecitudine affettuosa, gli mettevo sul piatto i migliori bocconi, e gli tenevo il bicchiere sempre ricolmo. Egli mi accennava di arrestarmi, ma poi cioncava e stava allegro. Tutto procedeva a meraviglia. La Rosa faceva miracoli, e Bitto lambiva le mani a mio zio e gli faceva mille feste. Il cane ha un istinto che non l'inganna, egli sente a usta gli amici e i nemici del padrone, mena la coda o abbaia secondo il caso.



L'Agata, alla quale la Rosa s'era raccomandata per avere dei consigli risguardanti la cucina, mandava invece dei cibi squisiti, belli e pronti da mettersi in tavola. Ah se tutti i consiglieri facessero così!..



La Veronica m'aveva mandato per mezzo dello zio squisiti manicaretti milanesi dei quali mi sapeva ghiotto, e così si faceva ogni giorno baldoria, e si stava a mensa lungamente.



Io vedeva in mio zio non solo il più prossimo parente, il benefattore ed il padre, ma bensì il mio liberatore dall'esilio di Valtellina, che mi pesava assai e non aveva più scopo. La contessa Savina maritata, io poteva ritornare a Milano. Questa era la mia ambizione e il mio sogno; io mi proponevo di svolgere tutti gli argomenti possibili per persuadere il mio buon zio a questo passo; e non avevo motivi che mi facessero temere un rifiuto. Egli mi chiese conto naturalmente delle mie occupazioni e de' miei studi; ed io gli risposi:



– Caro zio, la scuola rurale è un incubo, una penitenza, una espiazione. La mia vita è un continuo sacrifizio, e mi è chiuso ogni adito ad una carriera onorevole. A che cosa può condurmi l'insegnare l'abbicì ai piccoli idioti delle montagne? Senza un avvenire in prospettiva, mi manca anche il coraggio di studiare. Per lavorare bisogna avere una meta, ogni studio ha bisogno di un fomite. Quivi non posso sperare nessuna risorsa, nessun compenso alle mie fatiche.



Volendo evitare ogni allusione al passato, mostrai d'attribuire al mio esilio il solo scopo di mettere in assetto l'amministrazione rurale della piccola proprietà, e quello d'acquistare un titolo in qualità di maestro, incominciando l'insegnamento dal primo scalino, e proseguii:



– Ora, avendo restaurata la casa, diventa più facile affittare vantaggiosamente la terra; io ho fatto le prime prove nell'istruzione, e posso aspirare ad un posto superiore. Quivi io non istudio, non imparo, sono lontano dai superiori e dalle occasioni di farmi onore; mi avvilisco, mi scoraggio, non vivo, ma vegeto!..



Mio zio mi ascoltava tacendo. Il suo silenzio mi urtava i nervi, i nervi agitati fanno dire delle bestialità, ed io venni alla conclusione seguente:



– Vuol dire che oziando, passeggiando e fumando il sigaro, aspetterò un migliore avvenire dalla Provvidenza!



Non so se sia stata l'assurdità della frase o la Provvidenza invocata che abbia scosso mio zio; ma il fatto sta che si scosse.



Certo era assurdo che la Provvidenza fosse tanto improvvida da proteggere un ozioso che ne aspettava i benefizii passeggiando e fumando; e mio zio, che per me rappresentava la Provvidenza, se ne commosse.



– Hai torto di sragionare, – mi disse, – e di non apparecchiarti una strada collo studio e la coltura, ma hai ragione di desiderare una sorte migliore, e ti prometto che intendo occuparmene e soddisfarti. Puoi credere quanto mi deva esser caro il tuo ritorno a Milano, non avendo altri parenti vicini, che possano tenermi compagnia e sostenere la mia vecchiaia. Abbi un po' di pazienza, non bisogna precipitare, ma al mio ritorno mi darò premura di soddisfare i tuoi voti, e di trovarti un collocamento a Milano, che ti permetta di farti conoscere.



Tale promessa mi ridava la vita; m'alzai, presi la mano di mio zio, la copersi di baci, la bagnai di lagrime. Il pensiero di ritornare nella mia cameretta di Milano m'aveva esaltato. Accorgendomi però che mio zio mi guardava con qualche sorpresa, procurai di calmare il mio soverchio entusiasmo per non destare sospetti, e poco dopo cambiai discorso.



L'ora del pranzo era quella delle ciarle, delle confidenze, e dell'espansioni. All'indomani mio zio mi raccontava le novità di Milano, mi rendeva conto degli amici, dei conoscenti, dei vicini.



– A proposito, – diss'io con aria indifferente, – come va il matrimonio della contessa Savina?



Mio zio mi guardò in faccia prima di rispondere. Io affettai una tale bonar