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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Le casse intanto più di ogni altra cosa premevano: Janet ne aveva cura. Conservò la imposizione dativa, che doveva gettare un milione e mezzo di franchi, la tassa del sale, il cui ritratto si supputava circa ad un milione, ed il dazio sulla mulenda, che si estimava ad una valuta di circa cinquecento mila franchi. Fra il lusso dei primi magistrati, la miseria del paese, i debiti di ognuno, il frutto di queste tasse non poteva bastare a dar vita alla macchina politica. Miollis si godeva quindicimila franchi al mese, come governator generale, e diecimila franchi pure al mese, come presidente della consulta. Se poi, oltre a tutto questo, toccasse i suoi stipendi di generale di Francia con tutte le sue giunte, io non lo so. Lemarrois, comandante della divisione, aveva per se quindicimila franchi al mese, e per la sua polizia quattromila, pure al mese. I membri della consulta avevano ciascuno tremila franchi al mese. Ma Salicetti non se ne volle stare al ragguaglio dei colleghi, ed ottenne quattromila ciascun mese. Questi aggravi seguitavano le lunghe disgrazie di Roma. Pure buon uso faceva la consulta di un'altra parte del denaro del pubblico. Propose a Napoleone, e da lui impetrò anche facilmente, che si pagasse sufficiente denaro alla duchessa di Borbone parmense, ed a Carlo Emanuele re di Sardegna, che tuttavia se ne viveva in Roma tutto intento alle cose della religione; nobile atto, e da non tralasciarsi nelle storie.

La parte più malagevole del Romano governo era l'ecclesiastica: aveva il papa, già fin quando le Marche erano state unite al regno Italico, proibito i giuramenti: confermò questa proibizione per lo stato Romano nell'atto stesso della sua partenza di Roma. Richiedeva Napoleone del giuramento anche gli ecclesiastici. Ne nacque uno scompiglio, una disgrazia incredibile. Consisteva la principale difficoltà nel giurare la fedeltà, dell'obbedienza non dubitavano. Ripugnavano alla parola di fedeltà, perchè credevano, che importasse il riconoscere l'imperator Napoleone come loro sovrano legittimo; al che giudicavano di non poter consentire, non avendo il papa rinunziato. Nè si poteva pretendere, che uomini privati, dediti solamente agli uffici religiosi, la maggior parte senza letteratura, alcuni anche senza lettere, investigassero tutte le antiche storie per giudicare da loro medesimi, se la donazione o di Carlomagno o di Pipino fosse valida o no, assoluta o restrittiva, e se fossero validi o no i motivi, con cui Napoleone l'impugnava. Solo questo sapevano, che il papa era sovrano di Roma da più di dieci secoli, come tale riconosciuto da tutto il mondo, e da Napoleone stesso. Ancora sapevano che il papa, non che avesse rinunziato, aveva fortemente e nel miglior modo possibile protestato contro la spoliazione.

Imprendeva a giustificare i giuramenti Dalpozzo, uno della consulta, uomo di gran sapere e di maggiore ingegno. Andò discorrendo, la legge divina prescrivere la obbedienza ai magistrati statuiti dalle leggi dello stato, non avere questo precetto altra limitazione, se non quella che è sempre e di pieno diritto sottintesa, quella cioè, che non si debbe prestare obbedienza alle cose in se stesse, ed assolutamente illecite: non potere l'autorità ecclesiastica derogare nè in tutto nè in parte ad un precetto divino: conseguitarne adunque evidentemente, che debbesi al sovrano un giuramento puro e semplice d'obbedienza e di fedeltà senza alcuna esplicita restrizione: avere l'antico sovrano di Roma preteso proibire ogni giuramento da quello in fuori, di cui diede egli stesso la formola: non potersi certamente questa proibizione stimare precetto della Chiesa, e che quand'anche fosse, ella non obbligherebbe i sudditi ad esporsi, per osservarla, allo sdegno del sovrano, ed alle pene che il rifiuto del giuramento seguiterebbero, perciocchè le leggi della Chiesa, secondo le regole comuni, non obbligano mai sotto grave incomodo; ma nel fatto una tale proibizione altro non essere, che un mezzo concetto dallo spodestato principe di Roma con mire del tutto umane, cioè per turbare il possesso al nuovo governo, e per ricuperare il dominio temporale: non avere in questo il papa operato come capo della Chiesa, nè come vicario di colui, che disse, non essere il regno suo di questo mondo, e che insegnò co' suoi precetti e col suo esempio, che sempre si debbe obbedire ai magistrati stabiliti: adunque, ed unicamente dalla confusione delle due potestà temporale e spirituale in una sola mano, essere nata la opinione erronea che oggidì importava oltre modo di distruggere, pel buon ordine e per la quiete pubblica; le formole del giuramento prescritte agli abitatori dello stato Romano essere quelle stesse, che erano in vigore in tutto l'imperio Francese e nel regno Italico, e secondo le quali più di quaranta milioni di sudditi cattolici non esitavano punto a prestar giuramento ogni qual volta che l'occasione s'appresentava. La formola particolare prescritta ai vescovi ed ai curati, essere stata accordata nel concordato tra il governo Francese ed il papa Pio settimo: i dubbi sparsi nel popolo, che giurando obbedienza alle constituzioni dell'impero, si venisse ad appruovare il divorzio, e così ancora altre insinuazioni di simil sorta, non avere fondamento: sotto il nome di constituzioni dell'impero venire le leggi politiche, che constituiscono la forma del governo, e queste leggi sempre essere distinte dalle leggi civili: oltre a questo, non essere il divorzio comandato dalla legge civile: solo per esse permettersi a coloro, che credevano poterlo usare secondo i loro principj religiosi: già parecchi vescovi dello stato Romano, già un gran numero di curati, di canonici e di altri religiosi, tacendo dei magistrati civili, avere dato un esempio di sommessione e d'obbedienza, ch'altri doveva seguitare: importare che tale esempio si propagasse e dilatasse; volere il governo, ed in ciò porre grandissima cura, che gli ecclesiastici, i quali già si erano uniformati, o sarebbero per uniformarsi a' suoi ordini, fossero onorati con manifesti segni di soddisfazione e di confidenza.

Sani ed irrefragabili erano i principj del Dalpozzo, quanto all'obbedienza, e siccome gli ecclesiastici non dubitavano di giurarla al nuovo stato, e di più di giurare di non partecipar mai in nissuna congiura o trama qualunque contro di lui, così un governo giusto e buono avrebbe dovuto contentarsene. Ma Napoleone esigeva il giuramento di fedeltà, sì perchè gli pareva che un tal giuramento implicasse la riconoscenza di sovrano legittimo, ed in tal modo effettivamente, come abbiam detto, l'intendevano l'intimatore e gl'intimati, sì perchè volevano fare scoprir i renitenti, per avere un pretesto di allontanargli da Roma, dove gli credeva pericolosi. Vi era, in questo, troppa scrupolosità da una parte, troppo rigore dall'altra. Perciocchè gl'intimati potevano intendere la parola fedeltà non oltre il senso dell'obbedienza, e Pio VI medesimo nel novantotto aveva definito, che si potesse giurare fedeltà a quel governo, che era stato creato dagli occupatori del suo stato, e che era incompatibile con la sua sovranità temporale, cioè, alla repubblica. Del resto, noi non intendiamo dannar coloro, che sinceramente credendo di non potere, senza trasgressione, prestar il giuramento, anteposero la coscienza al carcere ed all'esilio, la materia aveva in se molta difficoltà. La Romana consulta procedeva cautamente. Operando alla spartita, cominciò dai vescovi. Alcuni giurarono, altri ricusarono. Giurarono quei di Perugia, Segni e Anagni: ricusarono quei di Terracina, Sezze, Piperno, Ostia, Velletri, Amelia, Terni, Acquapendente, Nocera, Assisi, Alatri. Aveva il vescovo di Tivoli giurato; ma pentitosi e condottosi a fare il pontificale nella chiesa del Carmine il giorno di San Pietro, con molte lagrime fece, dopo il Vangelo, la sua ritrattazione: i gendarmi se lo pigliarono, ed in Roma carcerato alla Minerva il portarono. Tutti i non giurati, suonando loro d'intorno le armi dei gendarmi Napoleonici, chi in Francia, chi a Torino, chi a Piacenza, chi a Fenestrelle furono condotti. Fu anche portato via da Roma, come non giurato e troppo divoto al papa, un Baccolo Veneziano, vescovo di Famagosta, uomo molto nuovo, e di natura facetissima. I carceratori non sapevano darsene pace, perciocchè più lo sprofondavano nell'esilio e nella miseria, e più rideva e si burlava di loro, tanto che per istracchezza il lasciarono andare come pazzo. Ma ei tornava in sul dire e in sullo scrivere cose tanto singolari a Genova, a Milano, a Venezia, che era forza ai Napoleoniani di spiare continuamente quello che si facesse. Insomma era questo Baccolo una gran molestia agli spiatori di Napoleone, e diè che fare a tutti dal duca di Rovigo fino all'umile Olivetti, ch'era stato surrogato a Piranesi: solo che udissero nominar Baccolo, tosto si scuotevano e risentivano. Spedita la faccenda dei vescovi, richiederonsi dei giuramenti i canonici. Sperava Janet, che giurerebbero facilmente, avendo grossi benefizj e morbida vita. Molti giurarono; molti ancora non giurarono. Dei due capitoli di San Giovanni e di San Pietro in Roma, tutti ricusarono, salvo Vergani e Doria. Quei di Tivoli e di Viterbo, tre soli eccettuati, giurarono. Giurarono quei di Subiaco, ad instigazione dei Tivolesi; ma si ritrattarono. Ricusarono quei di Canepina, ricusarono quei di Cori: i gendarmi s'affaccendavano. Molto maggiore difficoltà avevano in se i giuramenti dei curati, massimamente di quei di Roma, uomini d'innocente vita, e d'evidente vantaggio dei popoli, non solamente pei sussidj spirituali, ma ancora pei temporali. Rappresentò la consulta, che in questo opinava saviamente, che s'indugiasse. Napoleone, che per la sua natura pertinace amava meglio usare ogni estremo, che allentare un punto solo delle sue deliberazioni, mandò loro dicendo, che voleva i giuramenti da tutti, ed obbedissero. Nelle province la maggior parte ricusarono; i gendarmi se gli portarono. Dei Romani, i più si astennero: tre giurarono, quei della Traspontina, di Santa Maria del Carmine fuori di porta Portese, della Madonna della Luce in Trastevere: i renitenti portati via, o se infermi ed impotenti all'esilio, serrati in San Calisto; i consenzienti accarezzati. Nasceva dagli esilj una condizione lagrimevole, che gli ufficj divini per la mancanza dei pastori s'interrompevano. Napoleone, posta la falce nella messe ecclesiastica, a suo modo vi rimediava. Sopprimeva di propria autorità i vescovati e le parrocchie dei vescovi, e dei parochi non giurati, e secondochè gli aggradiva, gli univa ai vescovati e parrocchie dei giurati, turbando in tale modo di per se, la giurisdizione spirituale come voleva, ed a chi voleva.

 

A questo tempo furono soppressi nello stato Romano i conventi sì di religiosi, che di religiose; i forestieri mandati al loro paese, i paesani sforzati a depor l'abito. Mandaronsi i soldati a far uscire le monache, tempo ventiquattr'ore: le valide d'età e di salute mandate alle case loro, le vecchie ed inferme in quattro conventi. L'aspetto di Roma a questi giorni compassionevole: gendarmi, che si portavano vescovi, canonici, parochi giovani, parochi vecchi, sani o malati, o dal contado a Roma, o da Roma all'esilio. Piangevano gli esuli, piangevano le famiglie degli esuli: i Romani colli risuonavano di querele e di pianti.

Intendeva la consulta a consolare la desolata Roma. Ciò s'ingegnava di fare ora con ordinamenti convenienti al luogo, ora con ordinamenti non convenienti, e sempre con animo sincero e buono. Pensava alle scienze, alle lettere, all'agricoltura, al commercio, alle arti. Ordinò, che con denaro del pubblico si procacciassero gli stromenti necessari alla specola del collegio Romano; condusse a fine i parafulmini della basilica di San Pietro stati principiati da papa Pio, ebbe speciale cura delle allumiere della Tolfa, e delle miniere di ferro di Monteleone nell'Umbria, nelle quali si era cessato di cavare ai tempi delle ultime guerre civili, quantunque il ferro sia assai più arrendevole e dolce di quello dell'isola d'Elba. Gente perita, denaro a posta addomandava; due allievi Romani mandava alla scuola delle mine, due a quella della veterinaria, due a quella delle arti e mestieri in Francia, semi di utili scienze nell'ecclesiastica Roma.

Temevasi che la presenza dei Francesi in Italia, massimamente in Toscana e nello stato Romano, giunta a quella loro lingua tanto snella e comoda per gli usi famigliari, avesse a pregiudicare alla purezza ed al candore dell'Italiana favella; timore del tutto vano, perciocchè quale cosa si potesse ancora corrompere in lei, non si vede. Tuttavia Napoleone, il quale, non so per quale strana fantasia, aveva unito Toscana e Roma alla Francia, ed introdottovi negli atti pubblici l'uso della lingua Francese, aveva, già fin dall'anno ultimo, decretato premi a chi meglio avesse scritto in lingua Toscana. La consulta di Roma a fine di cooperare con quello che l'imperatore aveva comandato, a ciò muovendola Degerando, statuiva, che la lingua Italiana si potesse in un con la Francese usare negli atti pubblici; benevola, ma strana permissione in Italia. Volle altresì, che l'accademia dagli Arcadi si ordinasse in modo che e la letteratura Italiana promuovesse, e la lingua pura ed incorrotta conservasse con premi a chi meglio l'avesse scritta o in prosa o in versi, l'Arcadia sedesse sul Gianicolo nelle stanze di Sant'Onofrio. Ordinamento conforme alla fama antica, alle influenze del cielo, alla natura degli uomini, alle Romane usanze fu quello dell'accademia di San Luca, chiamata, per conforto di Degerando, a più magnifico stato. La consulta le dava più copiosi sussidi, l'imperatore più convenienti stanze, e dote di centomila franchi.

Parlando io dei benefizi delle lettere, non voglio passar sotto silenzio l'amorevolezza usata dalla consulta verso il convento di San Basilio di Grottaferrata, unico residuo dell'antico ordine di San Basilio, che primo fra le tenebre del medio evo portò in Europa la cognizione della lingua Greca, e con lei lo studio delle lettere. Nel coro e negli uffizi avevano questi monaci conservato la lingua ed il canto Greco, ma piuttosto per tradizione orale, che per lettera scritta. Ogni vestigio del canto Greco si sarebbe spento, se il convento fosse stato soppresso, ed i monaci dispersi. Supplicato l'imperatore dalla consulta, conservò il convento. Ciò non ostante l'ordine si spense, perchè il secolo a tutt'altro portava, che a farsi frate, ed a cantar greco.

Colla medesima mansuetudine opinò la consulta del convento dei Camaldolesi di Montecorona, Benedettini riformati di san Romualdo. Mi fia dolce raccontar qualche particolarità di Montecorona, poichè in quella tranquilla sede riposerassi alquanto l'animo stanco ed inorridito dalla rappresentazione di tanti tradimenti, espilazioni e morti. Conservava Camaldoli sincera e pura, dopo tanti secoli, la regola di san Romualdo. Tengono i Camaldolesi del cenobita e dell'eremita. Come cenobiti, vivonsi solitari, come romiti, attendono alle opere manuali sì agrarie che domestiche, senza differenza alcuna di padri o di fratelli, di superiori o d'inferiori. Servonsi tra di loro a vicenda, usano la ospitalità, esercitano la carità: la vita loro, anche ai tempi Napoleonici, pacifica e dolce: divoti a Dio, divoti al sovrano, divoti agli uomini, pregavano, obbedivano, soccorrevano. Siede il convento sulla sommità di un monte, ha all'intorno folta foresta, dista da Perugia a quattordici miglia: deserti una volta, campi fioriti adesso per opera delle cenobitiche mani. Naturarono su per quegli aspri monti l'abete; fecerne selva vastissima, magnifici fusti per le più grosse navi. È il convento stimolo a virtù, fonte di proventi, ricovero d'uomini fastiditi del mondano lezzo, ospizio di viaggiatori, largimento di soccorsi: è vita di deserto, testimonio di pietà. Rovinavano i regni, odiavansi gli uomini, infiammavansi gli appetiti, ammazzavansi le generazioni: Montecorona quieto, dolce, umano e benefico perseverava; e se la caduta del papa pose in forse la conservazione di lui, molto è da deplorarsi che l'ambizione dei tempi sia arrivata a turbare quelle sante solitudini. Bene meritò degli uomini infelici e pii la Romana consulta, a ciò movendola Janet, coll'avere addomandato la conservazione di quel pietoso secesso.

Emmi caro lo spaziare alquanto sull'ordine della propaganda. Napoleone imperatore, al quale piacevano le cose che potevano muovere il mondo, volle, mettendola in sua mano, conservare la propaganda: Degerando, siccome quegli che si dilettava di erudizione letteraria e di gentilezza di costumi, con l'autorità sua la favoreggiava. Dalla narrazione delle cose appartenenti a quest'ordine chiaramente si verrà a conoscere, ch'ei non meritava nè le lodi dei fanatici, nè gli scherni dei filosofi. Ancora vedrassi quanta sia la grandezza degli Italiani concetti. Era principal fine di questo instituto la propagazione della fede cattolica in tutte le parti del mondo; ma l'opera sua non era talmente ristretta a questa parte, che non mirasse a diffondere le lettere, le scienze, e la civiltà fra genti ignare, barbare e selvagge; che anzi una cosa ajutava l'altra, poichè la fede serviva d'introduzione alla civiltà, e questa a quella. Poteva anche mirabilmente ajutare la diplomazia e la politica: ciò massimamente aveva piaciuto a Napoleone; perciocchè un capo solo reggeva, e muoveva infiniti subalterni posti in tutte le parti del mondo. Il trovato parve bello a Napoleone, nè era uomo da non volersene prevalere, e siccome aveva usato la religione per acquistare la signoria di Francia, così voleva servirsi della propaganda per acquistar quella del mondo. Seppeselo Degerando, il quale scriveva, che per quanto alla politica s'apparteneva, la propaganda, recando in quelle lontane regioni coi semi del nostro culto i nostri costumi, le nostre opinioni, le radici delle idee d'Europa, la narrazione del regno il più glorioso, qualche cognizione delle nostre leggi e delle nostre instituzioni, preparando gli spiriti a certi avvenimenti, che solo s'apparteneva alla vastità dell'imperial mente a concepire, procacciando amici tanto più fidati, quanto più stretti da vincoli morali, e così ancora offerendo tanti, e così variati mezzi di corrispondenza in contrade, in cui il governo manteneva nissun agente, procurandoci notizie esatte sulla natura dei paesi, nei quali i missionarj soli potevano penetrare, aprendo finalmente una via, e quasi un condotto a farvi scorrer dentro coi lumi civili le influenze di un sistema la cui grandezza doveva abbracciare tutto il mondo, era un edifizio piuttosto di unica che di somma importanza. Queste cose erano di per se stesse molto chiare, e se alcuni filosofi, massimamente Francesi, tanto hanno lacerato Roma per avere, come dicevano, fatto servire la religione alla politica, si vede ch'essi non furono alieni dall'imitarla; poichè, divenuta Francia padrona di Roma, indirizzarono i loro pensieri al medesimo fine. Certo è bene, che Napoleone di nissuna cosa più si compiacque, che di questa propaganda: ora per dire qual fosse, ella fu creata dal papa Gregorio decimoquinto; e da lui commessa al governo di una congregazione di quattro cardinali, e di un segretario. Suo ufficio era mandar missionarj in tutte le parti del mondo. Gregorio la dotò di rendite del proprio, e d'assegnamenti considerabili sulla camera apostolica; le conferì immunità e privilegi; volle che ciascun cardinale nella sua esaltazione le pagasse un censo. Ma Urbano ottavo, considerato, che se era utile il mandare missionarj Europei a propagar la fede, maggiormente utile sarebbe il mandarvi uomini del paese convertiti ed ammaestrati nelle pratiche Romane, aggiunse il collegio della propaganda, in cui a spese pubbliche erano ricoverati ed ammaestrati giovani forestieri, massime di origine orientale, acciocchè fatti grandi e addottrinati, ritornassero nei propri paesi a secondare i missionarj apostolici.

Sommava il numero degli allievi per l'ordinario a settanta; i Cinesi, essendo loro riuscito contrario l'aere di Roma, furono trasportati in un seminario e collegio fondati per questo fine a Napoli. Innocenzo duodecimo, ed altri pontefici furono liberali verso la propaganda di nuovi benificj: uomini privati altresì con donazioni, e legati l'arricchirono. Le diede monsignor Vires il bellissimo palazzo in Roma: il cardinale Borgia, morto a Lione nell'ottocent'uno, le lasciò una parte de' suoi beni. Quattro erano gli ordini della propaganda, destinati alla propagazione della parola del Vangelo: occupavano il primo i vicarj apostolici, o arcivescovi, o vescovi, o prefetti delle missioni, il cui carico era lo scrivere le lettere, e la direzione delle fatiche apostoliche. Subordinati ai vicarj collocavansi nei secondi i semplici missionarj. Venivano in terzo luogo i collegi, le scuole, i monasteri. Cadevano nel quarto i semplici agenti amministrativi ed economici. La propaganda diede principio alla sua opera col fondare arcivescovi e vescovi nelle antiche chiese, due patriarchi, l'uno pe' Caldei, l'altro pei Siriaci, vescovi e vicarj apostolici nelle isole dell'Arcipelago, nell'Albanìa, nella Servia, nella Bosnia, nella Macedonia, nella Bulgaria, nella Mesopotamia, nell'Egitto, a Smirne, ad Antiochia, ad Anticira. Mandava due vescovi, vicarj apostolici, a Constantinopoli, uno pel rito Latino, l'altro per l'Armeno. Un gran numero ne destinava in Persia, nel Mogol, nel Malabar, nell'India oltre e qua del Gange, nei regni di Siam, di Java, di Pegù, in Cochinchina, nel Tonchino, nelle diverse province della China. Nè ometteva, parendole che fosse messe d'importanza, gli stati uniti d'America. Vicarj apostolici, e vescovi mandati dalla propaganda, seminavano le dottrine del Vangelo in quelle regioni d'Europa, che dalla chiesa Romana dissentivano. Questi tentativi e questi sforzi della comunanza cattolica, stimolavano le dissidenti a pruovarsi ancor esse a propagare la religione e la civiltà fra le nazioni ancor barbare e selvagge. Mandarono pertanto, gl'Inglesi massimamente, agenti loro nell'Indie Orientali, e nelle isole del mare Pacifico, dalla quale pietosa opera molte nazioni furono dirozzate, e ridotte alla condizione civile. E se i papi mescolarono la politica, come fu scritto, in questi conati religiosi, resterà a vedere, se la Russia e l'Inghilterra siano esenti da questa pecca. Per ajutare i vescovi ed i vicarj apostolici, s'erano instituiti a luogo a luogo, e più numerosi là dove i Cattolici vivevano in più gran numero, i prefetti ed i parrochi: questi avevano sede fissa e gregge permanente: i missionarj, che erano il secondo grado, comprendevano nel mandato loro vaste province, conducendosi ora in questo luogo ed ora in quello, ma sempre nella provincia destinato a ciascun di loro, secondochè i bisogni della fede da loro richiedevano. La elezione dei missionarj si faceva ordinariamente fra i sacerdoti del clero secolare. Era a loro raccomandato, e specialmente comandato dalla propaganda, che a niun modo nè sotto pretesto qualsivoglia si mescolassero o s'intromettessero negli affari temporali, meno ancora nei politici dei paesi, cui erano destinati ad indagare e ad ammaestrare. Solamente era solita la propaganda ad insegnarvi le scienze profane e le arti utili, affinchè con esse potesse volgere a se gli animi, e cattivarsi l'attenzione, e la benevolenza degli uomini ignari di quelle incolte regioni. Dipendevano i missionarj del tutto da lei, ed ella gli spesava con le sue rendite. Aveva creato sei scuole, o collegi in Egitto, quattro nell'Illirio, due in Albania, due in Transilvania, uno a Constantinopoli, parecchi in diverse contrade non cattoliche d'Europa. Erano questi collegi mantenuti col denaro della congregazione: mille scudi all'anno pagava ai vescovi d'Irlanda per le scuole cattoliche di quel regno; i collegi Irlandese, Scozzese, Greco, e Maronita di Roma da lei medesimamente dipendevano. Finalmente ciascun ordine di religiosi aveva un collegio separato pe' suoi missionarj, così questi stessi missionarj avevano dipendenza dalla propaganda, in quanto spettava alla bisogna delle missioni. Gli allievi dei collegi, ciascuno secondo il suo merito, erano creati sul finire degli studi o vescovo, o prefetto, o curato, o semplice missionario. Gli agenti o procuratori a niuna bisogna religiosa attendevano, ma solamente, essendo distribuiti nei luoghi più opportuni, al mandar le lettere e i fondi necessari per tener viva dappertutto macchina sì vasta.

 

Quanto alla congregazione in Roma, aveva cinque parti, la segreterìa, dove si scrivevano le lettere, ed a questa parte appartenevano anche gl'interpreti; gli archivi, che comprendevano la librerìa ed il museo, entrambi pieni di cose curiosissime; la stamperìa tanto celebre per la varietà e la bellezza de' suoi caratteri; il collegio degli allievi; la computisterìa: in quest'ultima si tenevano i conti, e le ragioni della congregazione. Le rendite sommavano a trentatremila trecento novantasei scudi romani all'anno, che sono centosettantottomila seicentosessanta franchi. I fonti erano i luoghi de' monti, i livelli pagati da Napoli, da Venezia, e dai corpi religiosi, e finalmente i censi dei cardinali novellamente creati. Ma la ruina universale aveva addotto la ruina di quest'instituzione, con avere o del tutto annientato parte delle rendite, o ritardato la riscossione delle sussistenti: s'aggiunse la rovina del palazzo devastato nel mille ottocento. Adunque ella sussisteva piuttosto di nome che di fatto, quando Napoleone s'impadronì di Roma; poi, i frutti dei monti non si pagavano, la computisterìa per comandamento imperiale sotto sigilli, gli archivi portati a Parigi. Volle Degerando rimetterla in istato, e che si aprissero intanto i pagamenti: l'imperatore stesso aveva dichiarato per senatus-consulto, volere la sua conservazione, e doterebbela coll'erario imperiale. Ma distratto primieramente dai gravi pensieri delle sue armi, poscia dai tempi sinistri che gli vennero addosso, non potè nè ordinare la macchina, come era necessario, nè far sorgere quel zelo a propagazione degl'interessi politici, che per amore della religione, per le esortazioni dei papi, e per la lunga consuetudine era sorto nei membri della congregazione a tempi pontificii. Così sotto Napoleone ella non fu di alcuna utilità nè per la religione, nè per la politica: solo le sue ruine attestavano la grandezza dell'antico edifizio, e la rabbia degli uomini che l'avevano distrutto. Portati via gli archivi per arricchirne Parigi, si voleva privar Roma anche dei tipi delle lingue orientali, che si trovavano raccolti nella sua stamperìa: eranvi i tipi di ventitrè lingue d'Oriente. Domandava la stamperìa imperiale di Parigi, che le si mandassero le madri per supplire con loro ai punzoni alterati. Grave perdita sarebbe stata questa per Roma, dove l'erudizione, e la letteratura orientale erano, come in sede propria, coltivate. Pregò Degerando, che o si gittassero con le madri i punzoni a Roma, o si mandassero a Parigi, non tutte ma solamente quelle dei punzoni alterati. Fu udito benignamente; a lui restò la città obbligata della conservazione di opere di gran valore per la erudizione e per le lettere.

Le opere di musaico, peculiar pregio di Roma, perivano; perchè pei danni passati poco si spacciavano, ed anche mancavano i fondi per le spese degli smalti e degli operai. La principale manifattura, che serviva di norma alle altre, era attinente a San Pietro, e si sostentava colle rendite della sua fabbrica: per la necessità dei tempi, mancando la più gran parte delle rendite, non che il musaico si conservasse, pericolava la basilica. Fu proposto di commetterlo all'erario imperiale, ma perchè Napoleone, che non amava lo spendere a credenza, non si tirasse indietro, fu d'uopo alla consulta l'inorpellare la cosa con dire, che il musaico pagato dall'imperatore non servirebbe più solamente ad abbellire San Pietro, ma che protetto dal più grande dei monarchi, adornerebbe il palazzo del principe, ed i monumenti dell'imperiale Parigi. «Che bel pensiero sarebbe, diceva la consulta, l'immortalare con opere di musaico il quadro dell'incoronazione dipinto da David, e gli altri tre, che dalle maestrevoli mani di questo grande artista erano per uscire?» A questi suoni Napoleone si calava, e pagava. Restava che, poichè si era provveduto all'opera, si avesse cura degli operai. Essendo la lavorerìa loro addossata al colle del Vaticano, ed in parte sotterranea, e perciò molto malsana, troppo spesso infermavano, e sovente il vedere perdevano. Oltre a ciò gli armadi e gli scaffali, in cui si conservavano gli smalti, infracidavano, le tele dipinte che si portavano a copiarsi, dall'umidità si guastavano. A questo modo era testè perito con rammarico di tutti un bel quadro del pittore Camuccini. Decretò la consulta, trasportassersi gli opificii nelle stanze del Sant'Officio.

Concedutosi dall'imperatore un premio di ducentomila franchi ai manifattori di Roma, volle la consulta, che fossero spartiti a chi meglio filasse o tessesse la seta o la lana, a chi meglio conducesse le opere dei merletti, a chi meglio addensasse i feltri, a chi meglio conciasse le pelli, a chi meglio stillasse l'acquarzente, a chi meglio lavorasse di maioliche, o di vetri, o di cristalli, o di carta, a chi più, e miglior cotone raccogliesse sulle sue terre, a chi piantasse più ulivi, a chi ponesse più semenzai di piante utili. Si venne anche sul capriccio dello zucchero dell'uve, e della saggina di Caffrerìa. Ma papa Pio, che conosceva Roma ed i Romani suoi, si stringeva nelle spalle, quando udiva queste novelle, e dal suo carcere di Savona sclamava, che bene e con frutto si sarebbero favoreggiate in Roma le manifatture attinenti alla erudizione ed alle belle arti, ma che sarebbe tempo ed opera perduta il dar favore alle altre: perciocchè la natura degli uomini, le consuetudini, le opinioni, il cielo stesso ripugnavano.

I musei espilati ai tempi torbidi ora con cura si conservavano: i preziosi capi d'arte, che adornavano i conventi, ed erano molti e belli, diligentemente si custodivano. Fu anche creata a conservazione loro dalla consulta una congregazione d'uomini intendenti, e giusti estimatori, che furono Lethier pittore, Guattani, de Bonnefond, l'abbate Fea, e Tofanelli, conservatore del Campidoglio.