Za darmo

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

Tekst
0
Recenzje
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

Continuava l'arciduca a ritirarsi, il principe a seguitarlo. Passò il Francese facilmente la Livenza, difficilmente il Tagliamento. Inondando i Napoleoniani con la cavalleria il piano e le valli, scioglievano l'assedio d'Osopo e di Palmanova. Divise il vicerè i suoi in due parti, mandando la prima alla volta dei passi di Tarvisio verso la Carintia, la seconda sotto la condotta di Macdonald verso la Carniola. L'intento era di sospingere con quella, occupando la Carintia e la Stiria, il nemico sino ai recessi dell'Ungherìa, e di congiungersi in tal modo coi Napoleoniani di Germania; con questa di accennare Lubiana, e di cooperare con Marmont, che a gran passi si accostava venendo dalla Dalmazia. L'uno e l'altro disegno riuscirono a quel fine, che il capitano di Francia si era proposto; conciossiachè Dessaix e Seras prendendo continuamente dei monti, e cacciandosi avanti per le valli di Ponteba, di Pradele, della Fella, e della Dogna i Tedeschi, si avvicinavano al sommo giogo, che disparte le acque del Mediterraneo da quelle del mar Nero. Incontrarono un primo intoppo nei forti di Malborghetto e di Pradele. Tentò Seras di corrompere con danari il comandante di Malborghetto. Ricusò il Tedesco contrattazione tanto abbominevole: anzi combattendo valorosamente, e confortando con gravi e virili parole i compagni alla difesa del forte, ed alla salute della patria, vi finì una onorata vita con una gloriosa morte. Duolmi di non aver conosciuto il nome di questo virtuoso Austriaco, poichè mi sarebbe stato caro il mandarlo ai posteri in queste mie storie. Ottenevano finalmente i Napoleoniani i due forti: superava il vicerè il passo di Tarvisio, ed entrava vincitore nella Carintia, alla volta di Judenburgo di Stiria incamminandosi. Jellacich cacciato dal Tirolo per le armi del maresciallo Lefevre, mandatovi da Napoleone dopo le vittorie di Ratisbona, perdè quasi tutti i suoi a San Michele di Stiria. Seras, passati i monti di Someringa, ed arrivato a Scottvien, si congiungeva con le prime scolte dell'esercito Germanico.

Mentre queste cose accadevano sulla sinistra del vicerè, Macdonald sulla destra aveva occupato, passando per Monfalcone e Duino, Trieste. Da questo luogo si era incamminato verso la Carniola per impadronirsi di Lubiana, città capitale, cooperare con Marmont, e quindi per la strada maestra che da Lubiana porta a Gratz, condursi in quest'ultima città col fine di essere in grado di menar nuovi soldati a Napoleone. L'arciduca Carlo teneva ancora il campo grosso e minaccioso. Trovava Macdonald un duro intoppo in Prevaldo; ma parte di fronte assaltandolo, e parte girando ai fianchi, l'acquistava. Colla medesima arte di accennare ai fianchi ed alle spalle costringeva alla dedizione quattromila Austriaci, che difendevano Lubiana, e vi entrava trionfando. Acquistata così nobile vittoria, se ne giva, lasciati in Carniola presidii sufficienti, a Gratz. Quivi fermossi aspettando, che Marmont lo venisse a trovare dalla Dalmazia. Come prima il generale dei Dalmatici ebbe avviso, che l'arciduca Giovanni, costretto dalla necessità della guerra d'Alemagna, si era mosso dal Vicentino per ritirarsi dall'Italia, si era messo in cammino per andar a congiungersi a cose maggiori col grosso dei Napoleoniani. Partitosi adunque da Zara, e superati i Tedeschi, che gli vollero contendere il passo al monte di Chitta ed a Gracazzo, si approssimava alla terra di Gospizza, forte di sito per le molte acque che la circondano, e per esservisi il nemico molto ingrossato. Erano, la più parte, Croati. Fuvvi un combattere molto fiero sì in una battaglia stabile, e sì alla campagna sparsa. Vinse, dopo molto sangue, la fortuna dei Napoleoniani. S'apersero, per la vittoria di Gospizza, facili le strade al capitano di Francia, perchè da un incontro in fuori, ch'egli ebbe col retroguardo nemico ad Ottossa, non gli fu più oltre contrastato il passo. Occupò successivamente Segra e Fiume, e trovati i compagni in Istria, s'incamminava a gran giornate a Gratz. A questo modo tutto l'antico Illirico venne in potestà di Francia. Il vicerè, raccolte tutte le squadre, e solo lasciate le guernigioni necessarie nei luoghi più opportuni, passava i monti di Someringa, e per la valle dell'Arabone, o Giavarino, che i moderni chiamano Raab, verso il Danubio calandosi, andava a farsi partecipe delle imprese del padre. L'enfasi Napoleonica quivi si spiegava: «O bene v'avvenga, diceva in uno scritto mandato fuori a posta, e siate ben venuti, o soldati miei dell'esercito Italico: sorpresi da un nemico perfido prima che le vostre colonne fossero unite, fino all'Adige ritraeste i passi; ma quando ordinaivi di marciare avanti, e quelli essere i campi d'Arcole ricordaivi, voi vinceste venti battaglie, voi conquistaste venticinque mila prigioni, voi seicento cannoni, voi dieci bandiere: nè la Sava, nè la Drava, nè la Mura, nè le strette di Tarvisio, nè gli aspri gioghi della Someringa vi arrestarono: quel Jellacich, primo autore dell'uccisione dei nostri nel Tirolo, pruovò di che sapessero le baionette vostre: voi feste pronta giustizia di quelli avanzi fuggiti dallo sdegno del grande esercito: o bene v'avvenga, e siate ben venuti, o voi soldati, che operaste, che quegli Austriaci d'Italia, che per poco d'ora ebbero contaminato con la loro presenza le mie provincie, vinti, dispersi ed annientati, servissero d'esempio della verità di questa divisa. Dio me la diede, guai a chi la tocca; sono, o soldati, contento di voi». A queste intonazioni di Napoleone si stringevano nelle spalle gli uomini savi e temperati, i quali, per amore anche della grandezza di lui, avrebbero desiderato maggior moderazione; ma Napoleone non conobbe la grandezza della modestia.

Il giorno quattordici di giugno, anniversario della vittoria di Marengo, vinceva il principe Eugenio sotto le mura di Giavarino una grossissima battaglia contro l'arciduca Giovanni, che saliva per le sponde del Danubio in ajuto del suo fratello Carlo. Fu questa battaglia bene, e con arte egregia combattuta dal vicerè. Nè io voglio defraudare dalla dovuta laude l'arciduca, che in mezzo a tanto tumulto, a tanti spaventi, a tanto precipizio dello cose Austriache, conservò la mente immota, e le schiere ordinate. Combattè coi retroguardi valorosamente, tenne rannodati gli antiguardi, e dopo tante battaglie, ed una ritirata di tanto spazio, risorse più potente di prima nei campi di Giavarino, e se non fosse stata la prestezza del vicerè, avrebbe forse cambiato da tristi in liete le sorti del fratello augusto. Piacemi in questo luogo dire, di Eugenio e di Giovanni favellando, che giovani ambidue, se furono d'età pari, furono anche di valore; ma Giovanni più modesto per la natura della casa, Eugenio più borioso per gli sproni del padre, degno l'uno di difendere la propria patria, non degno l'altro di distruggere le patrie d'altrui.

Il dì sei di luglio periva la mole Austriaca nei campi di Vagria. Quivi fu prostrato l'arciduca Carlo: Napoleone divenne padrone di quell'antica e grande monarchìa. Si trovò facilmente forma di concordia per la depressione d'una delle parti: consentì l'imperatore Francesco a condizioni durissime di pace. Consentì anche, prevalendo in lui ad ogni altro rispetto la salute dello stato, a quello che era più duro ancora che tutte le altre condizioni, dico al congiungere la propria figliuola Maria Luisa in matrimonio a colui, che era la ruina della sua casa, e che principiante e durante la guerra, l'aveva chiamato coi nomi più vituperosi. Il dì quattordici ottobre si stipulava in Vienna, per lo stabilimento delle cose comuni, dal signor principe di Champagny per parte di Napoleone e dal principe di Lichtenstein per parte di Francesco, il trattato di pace. Cedeva l'imperatore Francesco all'imperator Napoleone, oltre molti altri paesi in Germania ed in Polonia, la contea di Gorizia, il territorio di Monfalcone, la contea e la città di Trieste, il ducato di Carniola con le sue dipendenze nel golfo di Trieste, il circolo di Villaco nella Carintia, con tutti i paesi situati sulla riva destra della Sava, dal punto in cui questo fiume esce dalla Carniola, fin dove tocca le frontiere della Bosnia, nominatamente una parte della Croazia provinciale, sei distretti della Croazia militare, Fiume, ed il littorale Ungherese, l'Istria Austriaca col distretto di Castua, Picino, Buccari, Buccarizza, Portore, Segua, e le isole dipendenti dai paesi ceduti, e tutti gli altri territorii qualsivogliano situati sulla destra del fiume, il filo delle acque del quale avesse a servire di limite fra i due stati: perdonasse Napoleone ai Tirolesi, Francesco ai Polacchi: l'Austria cessasse ogni relazione coll'Inghilterra. Napoleone sempre intento a torre la riputazione a' suoi amici per tor loro poscia lo stato, fece inserire nel trattato un capitolo, per cui l'Austria si obbligava a cedere all'imperatore Alessandro di Russia, che era stato, contro ogni ragione, oziosamente riguardando il processo di questa guerra, nella parte più orientale dell'antica Galizia un territorio, che contenesse quattrocento mila anime, non inclusa però la città di Brodi; il quale capitolo accettò Alessandro, benchè fosse spoglia di un amico, che ne ricevette grandissima molestia. Di questa stipulazione non merita riprensione l'Austria, siccome quella che vi consentì per forza. Dello sforzatore poi e dell'accettatore, chi abbia meritato maggior biasimo, facilmente il giudicheranno i posteri. Questo fine sortirono la presa d'armi, ed il poderoso apparato di guerra dell'Austria, e questa concordia fu obbligata d'accettare. L'Europa viemaggiormente si confermava in servitù di Napoleone.

L'Austria percossa da tanto infortunio quietava per la pace: ma era dolorosa la sua quiete. Oltre la perduta potenza, l'infestava l'insolenza del vincitore, e l'aggravavano le grossissime imposizioni. Soli i Tirolesi non cedevano al terrore comune, e con l'armi in mano continuavano a difendere quel sovrano, che già deposte le sue, aveva dato molte nobili parti del suo dominio, e loro stessi in potestà del vincitore. Il principe Eugenio dalle sue stanze di Villaco gli esortava a posare, ma invano. Più volte combattuti dai Francesi, dai Sassoni e dai Bavari, più volte batterono, e più volte anco battuti, più volte risorsero. Vinti, si ritiravano alle selve impenetrabili, ai monti inaccessibili: vincitori, inondavano le valli, e furiosamente cacciavano il nemico. Vinti, erano trattati crudelmente dai Napoleoniani; vincitori, trattavano i Napoleoniani umanissimamente; e siccome gente religiosa, vinti, con segni di grandissima divozione pregavano dal cielo miglior fortuna alla patria, vincitori, coi medesimi segni il ringraziavano. E' furono visti, dopo di aver superato con incredibile valore i soldati di Lefevre, e restituito a libertà coloro, che si erano arresi, scorrente ancora il sangue, e presenti i cadaveri dei compatriotti e dei nemici, gettarsi al punto stesso, dato il segno da Hofer, coi ginocchi a terra, ed in tale pietosa attitudine, tra lacrimosi e lieti rendere grazie a Dio dell'acquistata vittoria. Echeggiavano i monti intorno dei divoti ed allegri suoni mandati fuori da religiosi e forti petti. Infine sottentrando continuamente genti fresche a genti uccise, abbandonati da tutto il mondo, anzi quasi tutto il mondo combattendo contro di loro, cessarono i Tirolesi, non dal volere, ma dal potere, e nei montuosi ricetti loro ricoveratisi aspettavano occasione, in cui più potesse la virtù che la forza. Il bavaro dominio si restituiva nel Tirolo Tedesco, cedè l'Italiano in possessione del regno Italico.

 

Sul finire del presente anno Andrea Hofer si ritirava con tutta la sua famiglia ad un povero casale fra montagne e nevi altissime, dolente per la patria, tranquillo per se. Ma Napoleone era sitibondo del suo sangue. Perciò, fattolo con tutta diligenza cercare e ricercare, gli riuscì di trovarlo nel suo recondito recesso. Batterono alla porta i Napoleoniani soldati, era la notte dei venzette gennaio dell'ottocento dieci. L'aperse Hofer: veduto che era venuto in forza altrui, con semplicità e serenità mirabile: «Son io, disse, Andrea Hofer, sono in poter di Francia: fate di me ciò che v'aggrada; ma vi piaccia risparmiare la mia donna e i miei figliuoli: son eglino innocenti, nè de' fatti miei obbligati». Così dicendo, diessi in potestà dei Napoleoniani. Diedesi con lui un giovinetto di fresca età, figliuolo di un medico di Gratz, venuto, così muovendolo la virtù del Tirolese, a trovarlo, ed a dedicarsegli o a vita o a morte. Condotto a Bolzano, l'accompagnavano la madre, ed un figliuolo di tenera età. Ultimo destino gli soprastava. Fu il figliuolo lasciato stare a Bolzano, la madre mandata a Passeira ad aver cura di tre altri figliuoli ancor bambini, i quali, se ora avevano il padre prigioniero, presto il dovevano aver morto. Pure non se n'accorgevano per la fanciullezza; il che muoveva viemmaggiormente a compassione. Accorrevano i popoli smarriti dovunque i Napoleoniani con Andrea legato passavano, o nel Tirolo Tedesco o nell'Italiano che si fosse, alzando per dolore gli occhi al cielo, e lacrimando, e sclamando, e la memoria del diletto ed infelice loro capitano benedicendo. Le palle soldatesche ruppero in Mantova il patrio petto d'Andrea, lui non che intrepido, quieto in quell'estrema fine. Ostò ad Andrea l'età perversa: fu chiamato brigante, fu chiamato assassino. Certo, se le lodi sono stimolo a virtù, lagrimevole e disperabil cosa è il pensare al destino di Hofer.

Acquistata tanta vittoria dell'Austria, e deponendo ogni simulazione, non conobbe più freno Napoleone: l'antica cupidigia di Roma gli veniva in mente. Piacquegli per maggiore scorno dell'Austria, che sul principiar della guerra aveva favellato di liberare e restituire il papa, decretare il dì diciassette maggio in Vienna stessa queste cose: considerato, che quando Carlomagno imperatore dei Francesi, e suo augusto antecessore, diede in dono ai vescovi di Roma parecchi paesi, gliene cedè loro a titolo di feudo col solo fine di procurare sicurezza a' suoi sudditi, e senza che per questo abbia Roma cessato di esser parte del suo impero; considerato ancora, che da quel tempo in poi l'unione delle due potestà spirituale e temporale era stata, ed ancora era, fonte e principio di continue discordie, che pur troppo spesso i sommi pontefici si erano serviti dell'una per sostenere le pretensioni dell'altra, e per questo le faccende spirituali, che per natura propria sono immutabili, si trovarono confuse colle temporali sempre mutabili, a seconda dei tempi; considerato finalmente, che quanto aveva egli proposto a conciliazione della sicurtà de' suoi soldati, della quiete e della felicità de' suoi popoli, della dignità e della integrità del suo impero colle pretensioni temporali dei sommi pontefici, era stato proposto indarno, pretendeva, voleva ed ordinava, che gli stati del papa fossero, e restassero uniti all'impero Francese; che la città di Roma prima sede della cristianità, e tanto piena d'illustri memorie, fosse città imperiale e libera, e che il suo reggimento avesse forme speciali; che i segni della Romana grandezza, e che ancora in piè sussistevano, a spesa del suo imperiale tesoro fossero conservati e mantenuti; che il debito del pubblico fosse debito dell'impero; che le rendite del papa si amplificassero sino a due milioni di franchi, e fossero esenti da ogni carico e prestanza; che le proprietà e palazzi del santo padre non fossero soggetti ad alcun aggravio di tasse, ed a nissuna giurisdizione o visita, ed oltre a questo godessero d'immunità speciali; che finalmente una consulta straordinaria il primo di giugno prendesse possessione a suo nome degli stati del papa, ed operasse, che il governo secondo gli ordini della constituzione vi fosse recato in atto il primo giorno dell'ottocentodieci. Nè mettendo tempo in mezzo, chiamava il giorno stesso del diciassette maggio alla consulta Miollis, creato anche governatore generale e presidente, Saliceti, Degerando, Janet, Dalpozzo, e per segretario un Balbo, figliuolo del conte Balbo di Torino.

A questo modo veniva Roma in potestà immediata di Napoleone, ed i papi, dopo una possessione di mille anni, furono spodestati del dominio temporale. Ad atto così grave ed insolito sclamava Pio, e con la sua pontificale voce a tutto il mondo gridava: «Adunque sono adempite le tenebrose trame dei nemici della sedia apostolica? Adunque dopo la violenta ed ingiusta invasione della più bella e più considerabil parte dei nostri dominj, spogliati siamo, sotto indegni pretesti, e con ingiustizia somma, della nostra sovranità temporale, con cui la independenza spirituale nostra è strettamente congiunta! Fra questa persecuzione barbara consolaci e confortaci il pensiero dello essere in sì grave calamità caduti, non per offesa alcuna da noi fatta all'imperatore dei Francesi, od alla Francia, alla Francia stata sempre nostro amore e nostra cura prediletta, nè per alcun intrigo di mondana politica, ma per non aver voluto tradire nè i nostri doveri, nè la nostra coscienza. Se non lece a chiunque la religione cattolica professa di dispiacere a Dio per piacere agli uomini, molto meno conviensi a chi di questa medesima religione è capo, ed insegnatore supremo. Obbligati inoltre verso Dio, obbligati verso la chiesa a trasmettere ai successori nostri intatti ed intieri i nostri diritti, noi protestiamo contro di questa nuova e violenta spogliazione, e nulla dichiariamo, e di niun valore la occupazione testè fatta dei nostri dominj. Ricusiamo, e con ferma ed assoluta risoluzione rifiutiamo ogni rendita o pensione, che l'imperatore dei Francesi pretende fare a noi, ed ai membri del nostro collegio. Taccia d'infame obbrobrio in cospetto della chiesa incontreressimo, se il vitto ed il viver nostro accettassimo dalle mani dell'usurpatore dei nostri beni. Rimettiamocene nella provvidenza, rimettiamocene nella pietà dei fedeli, contenti al terminare per tale guisa nella mediocrità questa vita oggimai piena di tanti dolori, e di tanti affanni. Prosterniamci noi, e con umiltà perfetta i decreti impenetrabili di Dio adoriamo: prosterniamci, ed a favore dei nostri sudditi la sua divina misericordia invochiamo, dei nostri sudditi, nostro amore e nostra gloria, i quali, fattosi da noi quanto nella presente occorrenza dal debito nostro era richiesto, esortiamo ad amar la religione, a conservarsi in fede, a pregare, ed instantemente con pianti e con gemiti scongiurare, tra il vestibolo e l'altare prostrati, il supremo padre della luce, acciocchè si degni cambiare in meglio i consiglj perversi di coloro, da cui sono i nostri persecutori mossi».

Il giorno appresso, in cui mandava fuori dal suo pastorale petto queste lamentazioni, fulminava papa Pio la scomunica contro l'imperator Napoleone, e contro tutti coloro che con lui avessero cooperato all'occupazione degli stati della chiesa, e massimamente della città di Roma. Fulminò altresì l'interdetto contro tutti i vescovi, e prelati sì secolari che regolari, i quali non si conformassero a quanto aveva statuito circa i giuramenti, e le dimostrazioni pubbliche verso il nuovo governo.

Data la sentenza, si ritirava nei penetrali del suo palazzo, attendendo a pregare, ed aspettando quello che la nemica forza fosse per ordinare di lui. Fe' chiudere diligentemente le porte, e murare gli aditi del Quirinale, acciocchè non si potesse pervenire nelle interne stanze sino alla sua persona, se non con manifesta violazione del suo domicilio. Informarono i Napoleoniani il loro padrone dello sdegno del papa, e della fulminata sentenza: pregarono, ordinasse ciò che avessero a farsi. Rispose, rivocasse il papa la scomunica, accettasse i due milioni, quando no, l'arrestassero, ed il conducessero in Francia. Duro comando trovò duri esecutori. Andarono la notte dei cinque luglio sbirri, masnadieri, galeotti, e con loro, cosa incredibile, generali, e soldati Napoleoniani alla violazione della pontificia stanza. Gli sbirri, i masnadieri ed i galeotti scalarono il muro alla panattiera dov'era più basso, ed entrati aprirono la porta ai Napoleoniani, parte gente d'armi parte di grossa ordinanza. Squassavansi le interne porte, scuotevansi i cardini, rompevansi i muri: il notturno romore di stanza in istanza dell'assaltato Quirinale si propagava: le facelle accese, che parte dileguavano, parte vieppiù addensavano l'oscurità della notte, accrescevano terrore alla cosa. Svegliati a sì grande ed improvviso fracasso, tremavano i servitori del papa: solo Pio imperterrito si mostrava. Stava con lui Pacca cardinale, chiamato a destino peggiore di quello del pontefice, per avere in tanta sventura e precipizio serbato fede al suo signore: pregavano, e vicendevolmente si confortavano. Ed ecco arrivare i Napoleoniani, atterrate o fracassate tutte le porte, alla stanza dell'innocente e perseguitato pontefice. Vestivasi a fretta degli abiti pontificali: voleva che rimanesse testimonio al mondo della violazione, non solamente della sua persona, ma ancora del suo grado e della sua dignità. Entrò per forza nella pontificia camera il generale di gendarmerìa Radet, cui accompagnava un certo Diana, che per poco non aveva avuto il capo mozzo a Parigi per essersi mescolato in una congiura contro Napoleone con lo scultore Ceracchi, ed ora si era messo, non solamente a servir Napoleone, ma ancora a servirlo nell'atto più condannabile, che da lungo tempo avesse commesso. Radet pensando agli ordini dell'imperatore, venne tostamente intimando al papa, accettasse i due milioni, rivocasse la scomunica; altrimenti sarebbe preso e condotto in Francia. Ricusò, non superbamente, ma pacatamente, il che fu maggior forza, il pontefice la profferta. Poi disse, perdonare a lui, esecutor degli ordini: bene maravigliarsi, che un Diana, suo suddito, s'ardisse di comparirgli avanti, e di fare alla dignità sua tanto oltraggio; ciò non ostante, soggiunse, anche a lui perdonare. Fattosi dal papa il rifiuto trapassava a protestare, dichiarando nullo, e di niun valore essere quanto contro di lui, contro lo stato della chiesa, e contro la Romana sede aveva il governo Francese fatto e faceva; poi disse, essere parato: di lui facessero ciò che volessero: dessergli pure supplizio e morte, non avere l'uomo innocente cosa di che temere si abbia. A questo passo, preso con una mano un crocifisso, coll'altra il breviario, ciò solo gli restava di tanta grandezza, in mezzo ai vili uomini rompitori del suo palazzo, ed ai soldati Napoleoniani, che non avevano abborrito dal mescolarsi con loro, s'incamminava dove condurre il volessero. Gli offeriva Radet, desse il nome dei più fidi, cui desiderasse aver compagni al suo viaggio. Diedelo, nissuno gli fu conceduto. Fugli per forza svelto dal grembo Bartolomeo Pacca cardinale. Poi fu con presto tumulto condotto, assiepandosegli d'ogn'intorno le armi Napoleoniche, nella carrozza che a questo fine era stata apparecchiata, e con molta celerità incamminato alla volta della Toscana. Solo era con lui Radet. Mentre gl'indegni fatti notturnamente si commettevano nel pontificale palazzo, Miollis sorto a vegliar l'impresa, se ne stava ad udire i rapporti che ad ogni momento gli pervenivano, nel giardino del contestabile, non so se a caso o a disegno, passeggiando. Certo, in tale accidente il nome di contestabile faceva un suono spaventevole, perciocchè ricordava Clemente settimo. Non era senza sospetto il generale Napoleonico di qualche romore. Per questo aveva scelto la notte, comandato prestezza, chiamato due mila Napolitani sotto colore di mandargli nella superiore Italia.

 

Stupore, ed orrore occuparono Roma, quando, nato il giorno, vi si sparse la nuova della commessa enormità. Portavano i carceratori il pontefice molto celeremente pei cavalli delle poste per prevenir la fama. Tanto temeva il padrone di tutte armi una religiosa opinione. Transmettevansi l'uno all'altro i gendarmi di stazione in stazione il cattivo e potente Pio. Quel di Genova, temendo di qualche moto in riviera di Levante, l'imbarcava sur un debole schifo, che veniva da Toscana. Addomandò il pontefice al carceratore, se fosse intento del governo di Francia di annegarlo. Rispose negando. Posto piede a terra, il serrava nell'apprestate carrozze in Genova: pena di morte, se i postiglioni non galoppassero. Sostossi in Alessandria, come in luogo sicuro per le soldatesche a desinare. Poi traversossi il Piemonte con velocità di volo: a Sant'Ambrogio di Susa, il carceratore apprestava i cavalli per partire con maggior celerità, che non era venuto. Lasso dall'età, dagli affanni, dal viaggio, l'addomandava il pontefice, se Napoleone il voleva vivo o morto. Vivo, rispose. Soggiunse Pio, adunque starommi questa notte in Sant'Ambrogio. Fu forza consentire. Varcavano il Cenisio: gl'Italiani popoli non avendo potuto per la velocità venerare il pontefice presente, il venerarono lontano, pietosamente visitando i luoghi dove aveva stanziato, per dove era passato: sacri gli chiamavano per isventura, sacri per dignità, sacri per santità. Semi di distruzione di Napoleone erano questi; già le profezie di Pio si avveravano, già la pienezza dei tempi si avvicinava. Pacca fedele fu mandato, come se fosse un malfattore, nel forte di Pietracastello presso a Belley, funesta stanza d'ogni innocente, che non piaceva a Napoleone. Fu lasciato il papa fermarsi qualche giorno in Grenoble, poi messo di nuovo in viaggio. Come se altra strada non vi fosse, fu fatto passare a Valenza di Delfinato, stanza di morte di Pio sesto, atto tanto più incivile, quanto non necessario. Per Avignone, per Aix, per Nizza di Provenza il condussero a Savona, strano viaggio da Roma per Francia a Savona. Ma celavasi la partenza, celavasi il viaggio: salvo coloro, che presenti vedevano il pontefice, niuno sapeva; perchè delle lettere dei privati poche parlavano, delle gazzette niuna, dove fosse, nè dove andasse. I Francesi colla medesima riverente osservanza l'onorarono, con cui l'avevano onorato gl'Italiani; il trattarono i prefetti dei dipartimenti con servimento e rispetto: così aveva comandato Napoleone.

Napoleone vincitore dell'Austria tornava in Francia nella imperial sede di Fontainebleau. I deputati Italiani, tal era stato il concerto e l'ordine, già l'aspettavano per le adulazioni, Moscati, Guicciardi e Testi pel regno Italico; Zondadari cardinale, arcivescovo di Siena, e grand'elemosiniere di Elisa principessa, Alliata, arcivescovo di Pisa, un Chigi, un Lucci, un Mastiani, un Dupuy, un Benvenuti, un Tommaso Corsini per la Toscana, il duca Braschi, il principe Gabrielli, il principe Spada, il duca di Bracciano, il cavaliere Falconieri, il conte Marescotti, il marchese Solombri, il marchese Travaglini per Roma. Moscati orando, ringraziò delle date leggi, Zondadari della data Elisa.

Per Roma vi fu maggior magniloquenza. Braschi, oratore della città dei sette colli, favellò dei Scipioni, dei Camilli, dei Cesari, del padre Tevere. «Sussiste ancora, soggiunse Braschi, nipote che era di Pio sesto perseguitato, sussiste quel Campidoglio, sul quale ascesero tanti illustri conquistatori: sussiste, e addita a voi, sire, gloriose vestigia, e seggio degno del vostro nome immortale. Quivi risorge, quivi si rinverde quel serto d'alloro, che Nerva depose nel tempio di Giove. Voi solo potete con l'ombra vostra renderlo sicuro da qualunque insulto nemico, come l'aquila di Trajano dalle offese del Germano, del Parto, dell'Armeno, e del Dace il preservava.»

Braschi a Napoleone signore parlò di Cesare, di Nerva, e di Trajano: avrebbe anche potuto toccare di qualche altro, e non avrebbe spiaciuto a Napoleone, che accusava Tacito di aver calunniato Nerone. Ma come e perchè parlasse di Camillo e di Scipione, io non lo so; perciocchè Napoleone era solito dire, che i tempi di Roma da Tarquinio a Cesare erano episodio, e che i veri e legittimi tempi Romani solo erano gli scorsi sotto i re, e sotto gl'imperatori: così non re dei Romani, ma di Roma chiamò poscia il figliuolo, che ebbe da Maria Luisa Austriaca. A tanto di pazzia era giunto quest'uomo, che dopo di aver distrutto le repubbliche moderne, voleva anche distruggere le antiche. Pure i moderni repubblicani fecero cose di fuoco, e guerre incredibili per lui. Dal canto loro i re, per quel suo odio contro le repubbliche, il fomentarono, e se lo tennero caro credendo, ch'ei fosse venuto loro in concio ad un bel bisogno. Ma gliene cosse loro, e il mondo lo sa, ed eglino i primi per modo che io spesso ne risi, e più spesso ancora ne piansi.

Rispose il sire ai Romani, sempre pensare alle famose geste dei loro antenati: passerebbe l'Alpi per dimorarsi qualche tempo con esso loro: gli imperatori Francesi suoi predecessori avergli scorporati dall'impero, e dati in feudo ai loro vescovi, ma il bene de' suoi popoli non ammettere più alcuna divisione. Sotto le medesime leggi, sotto il medesimo signore aver a vivere Francia ed Italia: del resto, aver loro bisogno di un braccio potente, e lui avere questo braccio, e volerlo usare a benefizio loro: ciò non ostante non intendere, che alcun cambiamento fosse fatto nella religione dei loro padri; figliuolo primogenito della chiesa non voler uscire dal suo grembo: non avere mai Gesù Cristo creduto necessario dotare San Pietro di una sovranità temporale: la Romana sede essere la prima della cristianità, essere il vescovo di Roma capo spirituale della chiesa, lui esserne l'imperatore, volere dar a Dio ciò che è di Dio, a Cesare ciò che è di Cesare.

Ora ho io a descrivere Roma Francese. La Romana consulta, come prima prese il magistrato, pensò alla sicurezza del nuovo stato, sapendo quanti mali umori, e quante avverse opinioni covassero: parvegli bene spiare sul bel principio i pensieri più segreti degli uomini: ordinava la polizia; creonne direttor generale Piranesi, uomo molto atto a questo carico; direttori particolari Rotoli, il conte Gherardi, Visconti, Delup-Verdun, Pesse, e Timetei, uomini nei quali i Francesi avevano fede. Ciò quanto ai detti ed ai fatti segreti: quanto agli scritti, anche segreti, fu tolta agl'impiegati del papa la posta delle lettere, e data al direttore della posta di Francia. Nè la cosa fu solo in nome; perchè con dannabilissima licenza si aprivano e si leggevano le lettere, massime quelle che s'indirizzavano a Savona, dov'era il papa. Si usava in questo un rigore eccessivo. I duchi d'Otranto e di Rovigo, e tutti gli agenti loro fino agli ultimi erano in questa bisogna affaccendati, che dentro alle Romane lettere spiassero. Ne lessero delle innocenti, ne lessero delle colpevoli contro la nuova signorìa; ne lessero anche delle ridicole, perchè i belli umori, che ve n'erano in Roma molti, malgrado delle disgrazie, scrivevano a posta lettere indiritte a Savona piene di beffe contro chi le spiava, e contro il maledetto modo di spiarle. Importava che a confermazione della quiete si unisse la forza alle notizie, nè potendo i soldati di Francia essere in ogni luogo, si crearono le guardie, urbana in Roma, provinciali nelle province, legioni chiamandole. Della legione di Roma fu eletto capo il conte Francesco Marescotti, uomo dedito a Francia. Questi ordini furono buoni per impedire i moti politici, non a frenare gli uomini di mal affare, che infestavano l'agro Romano, e le vicinanze stesse di Roma. Trapassossi a partire il territorio con fare i due dipartimenti, di cui chiamarono l'uno del Tevere, l'altro del Trasimeno; nominaronsene a tempo i due prefetti, un Gacone ed un Olivetti. Trassersi gli ufficiali municipali: furono le elezioni di gente buona e savia: faceva la consulta presto, ma faceva anche bene, salvo quella peste della polizia, e gli ordini fiscali, entrambi inesorabili: in questo Napoleone non rimetteva mai dalla sua natura. Ostava alla nuova amministrazione dei comuni l'ordine del buon governo, il quale creato da Sisto quinto, ed attuato da Clemente ottavo, aveva l'ufficio di amministrar i comuni, nè senza grande umiltà loro. La consulta l'abolì; sostituivvi le forme Francesi. Il consiglio municipale di Roma chiamò senato: elessevi personaggi di gran nome, i principi Doria, Albani, Chigi, Aldobrandini, Colonna, Barberini, i duchi Altieri, Braschi, Cesarini, Fiano. Braschi docile a quanto Napoleone volesse, fu nominato maire, o vogliam dire sindaco di Roma. Così andavano persuadendosi, che con un maire di fatto alla Francese, ed un senato di nome alla Romana, Roma sarebbe contenta. Intanto si scrivevano i soldati per le guerre forestiere, anche nella città imperiale e libera di Roma. Nè le leggi civili e criminali di Francia si omettevano; che anzi per ordinazione della consulta si promulgavano sì quanto alle persone, sì quanto alle cose, sì quanto ai dritti, e sì quanto agli ordini giudiziali. Fu chiamato presidente della corte d'appello Bartolucci, un uomo di mente vasta e profonda, di non ordinaria letteratura, e di giudizj e di stato molto intendente. Conosceva Napoleone, predicava la sua ruina inevitabile. Chiamato consigliere di stato a Parigi, vi diede saggi di quell'uomo dotto e prudente ch'egli era.