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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Quest'era l'ultima fine della tragedia che si rappresentava da venti anni addietro, toltone pochi intervalli pieni ancor essi, se non di sangue, almeno di rancori, e di minacce, e d'ambizione, nella dolorosa Italia. Straziata dagli uni, straziata dagli altri, tutti pretendevano promesse di felicità per lei; e peggio, che l'una parte e l'altra si lamentavano ch'ella non si muovesse a favor loro, come se fosse obbligo di lei di rendere amore per dolore. Ora infine si aveva a definire a chi dell'Austria o della Francia dovesse rimanere l'imperio d'Italia; se dovessero prevalere le nuove o le antiche sorti; se il dominio acerbo di Napoleone si dovesse mitigare o no; se l'Austria tornasse a Milano mansueta, come n'era partita, o se sdegnosa per le ingiurie; se Francia od Austria dovessero far dimenticare con le dolcezze di pace le insolenze e le rapine di guerra; se venti anni di novità dovessero o produrre secoli simili a loro, od immergersi, senz'altri segni che quelli delle storie, nel corso rintegrato dei secoli consueti; se a favellar Francese o Tedesco dovessero apparar gl'Italiani; se finalmente le parole soavi, che si dicevano agl'Italiani, fossero per loro o pei padroni; che l'allettare i popoli colle lusinghe per soggettargli fu sempre, ma più nei nostri tempi che in altri, astuzia di coloro che intendono ad appropriarsi l'altrui.

LIBRO VIGESIMOSETTIMO

SOMMARIO

Gli Austriaci condotti da Hiller cingono con forze potenti tutto il regno Italico. I Dalmati ed i Croati insorgono contro i Francesi. Eugenio si tira indietro. Battaglia di Bassano. Eugenio sull'Adige. Mala soddisfazione dei generali e soldati Italiani verso di lui. Nugent coi Tedeschi romoreggia alle bocche del Po. Giovacchino si scopre contro Napoleone e fa guerra al regno Italico. Battaglia del Mincio tra Eugenio e Bellegarde. Bentink sbarca a Livorno, parla d'independenza agl'Italiani, prende Genova, e promette ai Genovesi la conservazione dello stato. Sopraggiungono novelle funestissime per Napoleone; avere i collegati occupato Parigi, lui essere ridotto colle reliquie de' suoi battaglioni in Fontainebleau, avere rinunziato, avere accettato per ultimo ricovero l'Elba isola. Eugenio pattuisce con Bellegarde, e si ritira in Baviera. Stato degli spiriti in Milano. Tutti vogliono l'independenza, ma chi con Eugenio re, chi con un principe Austriaco. Discussioni nel senato in questo proposito. Sommossa popolare; il senato è disciolto; si convocano i collegi, che creano una reggenza, e mandano deputati a Parigi all'imperator Francesco per domandar l'independenza con un principe Austriaco. Esito della loro missione. Genova data al re di Sardegna. Conclusione dell'opera.

Gli Austriaci cignendo con largo circuito tutta la fronte dell'esercito Italico, avevano un grandissimo vantaggio, il quale ed all'occorrenza presente, ed alla natura loro sempre circospetta molto bene si conveniva. Sicura era la loro ala destra pei fatti succeduti in Germania, ed ultimamente per l'adesione della Baviera alla lega dei principi uniti contro Napoleone. In questo ancora molto momento recavano i Tirolesi pronti ad insorgere contro il nuovo dominio, per modo che l'Austria stessa per rispetto della Baviera, nuovo alleato, era costretta a tenergli in freno, acciocchè non facessero qualche incomposta variazione. Ma la inclinazione loro rendeva sicuro il loro paese alle forze Austriache, e dava sospetto al vicerè, perchè potevano offenderlo a mano manca ed alle spalle. Nè meno avvantaggiata condizione avevano gli Austriaci sulla loro sinistra: posciachè sapevano che le popolazioni Dalmate e Croate, essendo infense ai Francesi ed agl'Italiani loro confederati, erano pronte a sorgere contro i presenti dominatori; popolazioni armigere, e però di non poca importanza, massimamente in una guerra, alla quale i popoli, non che i soldati, si chiamavano. Hiller s'avvisava di condurre per modo la guerra, che facendosi innanzi con le sue ali estreme, mentre il grosso seguitava nel mezzo a seconda, ma più tardamente e più prudentemente, desse continuamente timore al vicerè di essere circuito ed assaltato alle spalle. Questa forma di guerreggiare doveva necessariamente far prevalere la fortuna degli Austriaci, perchè procedendo cautamente nel mezzo, non davano agli avversarj occasione di venire ad una battaglia campale, dalla quale solamente potevano sperare, se la vincessero, di redimersi da quel pericoloso passo, al quale erano ridotti. Da questo anche ne risultava, che si richiedeva, a voler riuscire a buon fine, nel capitano Francese maggior prudenza che audacia, piuttosto arte di andar costeggiando l'inimico per impedirgli la campagna, e difficoltargli, in quanto si potesse fare senza tentar la fortuna, i passi, che coraggio d'affrontarlo; insomma piuttosto volontà di conservar l'esercito intatto, in qualunque luogo ei si fosse, che desiderio d'avventurarlo, perchè in lui, non nei paesi occupati, consisteva la salute, o se non la salute, almeno le condizioni più onorevoli del regno. Ma il vicerè, siccome giovane, figliuolo di Napoleone, e tocco ancor egli dal vizio dei tempi, cioè di far chiaro il suo nome con fatti sanguinosi, disprezzando il consiglio più salutifero, amò meglio fare sperienza della fortuna, consumando inutilmente i soldati in piccole fazioni, che poco o nulla importavano alla somma della guerra, che fuggendo l'occasione di combattere, ritirargli intieri a' luoghi più sicuri, ed interi ancora conservargli insino a che la fortuna avesse definito, che cosa volesse farsi di Napoleone in Germania ed in Francia. Quel sangue Francese ed Italiano, sparso nell'ultima Croazia e nell'estrema Carniola, accusano Eugenio o d'ambizione, o d'imperizia, o d'imprudenza.

Correvano i Dalmati, inclinava verso il suo fine agosto, contro i presidj, i Croati contro gl'Italiani. Zara, Ragusi e Cattaro tenuti da deboli guernigioni, romoreggiando nimichevolmente i popoli d'intorno, e tenendo infestata la campagna, cedettero facilmente. Una presa di Croati, avvalorata da qualche battaglione d'Austriaci, urtando contro Carlobado, facilmente se ne impadroniva. Gli Austriaci ed i Croati più oltre procedendo, s'insignorirono di Fiume, ritiratosene il generale Janin, impotente al resistere. I Croati, che erano stati arruolati sotto le insegne Francesi, dai loro signori segregandosi, ritornavano alle antiche insegne d'Austria. Mentre a questo modo felicemente si combatteva per gli Austriaci verso l'Adriatico, mandavano pel corso della superiore Drava grossi squadroni verso il Tirolo sotto la condotta di Fenner. Giunti a Brissio scendevano per le rive dell'Adige, con intento di andar a battere nelle Veronesi e nelle Bresciane regioni. Al tempo stesso si veniva alle mani sul mezzo: fu preso e ripreso Crinburgo con molto sangue da ambe le parti. In questi fatti mostrò molt'arte e molto valore Pino, molto valore e poca arte Bellotti: combattè felicemente il primo a Lubiana, infelicemente il secondo a Stein. Sorse un gravissimo contrasto a Villaco, donde gli Alemanni volevano aprirsi l'adito al passo di Tarvisio per scendere a seconda della Fella nel cuore del Friuli. Erano i Francesi accorsi al pericolo, e dopo un feroce combattere, in cui la città fu presa e ripresa parecchie volte, e finalmente arsa per opera dei Tedeschi, restarono vincitori: corse il vicerè con molta virtù in soccorso della città consumata. Gli Austriaci, seguitando il consiglio loro, si allargavano sulle corna. Trieste, preso e ripreso più volte, venne in potestà loro; già tutta l'Istria loro obbediva. Dalla parte superiore precipitandosi dalle Alpi Tirolesi minacciavano di far impeto contro Belluno, e più alle spalle le armi loro suonavano nelle regioni vicine a Trento. Conoscendo ed usando il vantaggio, avevano passato la Sava a Crinburgo ed a Ramansdorf, per dove facevano sembianza di condursi, per Tolmino, nelle regioni superiori del Friuli. Anche contro Villaco preparavano un grande assalto.

Non era più in potestà del vicerè il resistere, ed appariva che se più oltre si fosse ostinato starsene sulle sponde della Sava e della Drava, correva pericolo che gli fosse vietato il ritorno. Avevano gli avversarj maggior numero di soldati, ed i popoli amici: erano al vicerè minori forze, ed i popoli avversi. Fermossi prima sull'Isonzo qualche giorno, poscia sulla Piave, combattendo sempre valorosamente, sempre inutilmente. A questo modo l'Illirio, staccato per la forza dell'armi Napoleoniche dal suo antico ceppo d'Austria, se ne tornava per la forza dell'armi di Francesco imperatore alla consueta dominazione. I costumi a niun rispetto si convenivano coi Francesi, poco con gl'Italiani. Oltre a ciò vi aveva Napoleone conservato i dritti feudatarj, dandogli in preda a' suoi soldati, o magistrati più fidi: piacquero a quegli antichi repubblicani, e gli riscuotevano con duro imperio, senza lasciar neppure scattar un soldo.

Le stanze della Piave non si potevano conservare. Già gli Austriaci scesi a Bassano sotto la guida del generale Eckard vi avevano fatto una testa grossa, ed insistendo alle spalle davano timore di estrema rovina al vicerè, se presto non si ritirasse. Quivi comparve evidente l'imprevidenza del principe del non essersi ritirato più maturamente; perchè per avere la ritirata sicura, fu costretto di combattere a Bassano una battaglia molto grave. Durò due giorni, il trentuno ottobre ed il primo novembre. Rifulse in questo fatto egregiamente il valore di Grenier. Vinse la fortuna Francese ed Italiana. Entrarono i vincitori, e pernottarono nella sanguinosa città. Perdettero i Tedeschi circa un migliajo di soldati, nè fu senza sangue la vittoria agli Eugeniani, perchè i Tedeschi combatterono acerbamente. Acquistò Eugenio facoltà di ritirarsi più quietamente sull'Adige: marciava indietro, parte per Padova, parte per Vicenza, andando ad alloggiarsi a Verona, ed a Legnago. In mezzo a questa ritirata, grave in se stessa, e che portendeva cose ancor più gravi, perchè già più della metà del regno Italico era signoreggiata dalle armi Austiache, i soldati Francesi ed Italiani, ma più i primi che i secondi, si portarono molto lodevolmente, astenendosi dalle rapine e dagli oltraggi; procedere tanto più da commendarsi, che la maggior parte credevano, che più non sarebbero tornati là, donde venivano. Nè è da tacersi, che i Tedeschi a questo tempo stesso, se si eccettuano le parti rannodate, in cui erano preste le munizioni, vivevano di rapina, ora qua ora là scorrazzando, secondochè gli portava o la necessità della guerra, o la cupidità del sacco; frutti tante volte calpestati della feconda Italia, tante volte riprodotti, tante volte ricalpestati. Resta, che siccome la sua bellezza e fertilità destano gli appetiti forestieri, desiderino gl'Italiani, che ella fera e selvaggia diventi; perchè forse i deserti preserveranno quello, che l'innocenza non preserva.

 

Sulle Veronesi sponde incominciavano a manifestarsi fra gl'Italiani mali semi contro il vicerè; colpa piuttosto sua che di loro. Eugenio o che prevedesse dai nugoli minacciosi che giravano attorno, che più gli convenisse mostrarsi Francese che Italiano, o che troppo facili orecchie prestasse ad alcuni, che presso a lui in molta grazia e suoi consiglieri più intimi essendo, intendevano ad innalzar se medesimi a pregiudizio degl'Italiani, si era lasciato uscir di bocca, già insino in Prussia dopo le disgrazie di Russia, parole di cattivo concetto verso i generali Italiani. Nè il suo disprezzo nelle semplici parole contenendosi, era trascorso sino agli atti: delle quali cose tenendosi eglino molto offesi, siccome quelli che erano parati a tollerare alcuna ingiuria o indegnità, massimamente Pino, che siccome di maggior nome, sentiva più vivamente degli altri, avevano appoco appoco sparso una mala contentezza fra i soldati: dal che ne seguivano nel campo sinistre mormorazioni, ed anche atti aperti di sdegno contro il principe. Le disgrazie inasprivano viemaggiormente le ferite in quegli animi fieri e bellicosi. Gl'imputavano il contaminato onore dell'armi Italiane, ed il sangue inutilmente sparso. Già il nome di forestiero, pessimo augurio, nelle bocche dei soldati andava sorgendo, ed i consiglieri detestavano.

Intanto non rimetteva in Eugenio il desiderio di farsi famoso in guerra per battaglie inutili, sangue con fama cambiando. Corse il Tirolo; vi fece fazioni onorate, ma senza frutto: liberò Brescia dal nemico, ma indarno: ruppelo in una grossa e bene combattuta battaglia a Caldiero, ma tornossene poco dopo là, dond'era venuto: il nemico, che era stato rincacciato sin oltre all'Alpone, venne fra breve a rinsultar San Michele di Verona. Appena la fronte dell'Adige, fiume grosso, e munito, sotto dalla fortezza di Legnago, sopra dai castelli di Verona, si poteva tenere: tanto superava pel numero delle genti il nemico. Dal che si conclude con evidenza che era necessità al vicerè, non di assaltare, ma di difendersi, non di uscire dai luoghi sicuri, ma di annidarvisi, non di far guerra viva, ma di temporeggiarsi e di aspettare.

Ogni ruina si accumulava sull'Italia: ecco un secondo nembo approssimarsi al Po, non più pel dominio di Venezia o d'Alfonso, ma per quello di Francia o d'Austria; nè questo nembo fia l'ultimo da raccontarsi, ancorchè sia prossimo il fine della mia tragedia. Aveva il generale Austriaco Nugent combattuto virilmente in Croazia ed in Istria, contro gl'Italiani che occupavano quella parte del regno. Ma quivi ogni cosa era oggimai divenuta sicura a lui, sì per la ritirata di Eugenio, come perchè le fortezze di Lubiana e di Trieste si erano arrese all'armi Tedesche. Sola restava dell'antico Austriaco, o Veneziano dominio in mano del vicerè la città di Venezia. Per la qual cosa Nugent, preso ordine con Bellegarde, chiamato generalissimo in Italia in luogo di Hiller, e messosi sulle navi a Trieste, era venuto sbarcare a Goro con una grossa mano d'accogliticci, Inglesi, Istriotti, Croati, e fuggitivi Italiani. Nè volendo indugiare, perchè sapeva che il tempo è nemico degli assalti inopinati, si spingeva tostamente innanzi, e s'impadroniva di Ferrara, abbandonata dai pochi difensori che vi erano dentro. Quivi correva il paese co' suoi soldati leggieri, chiamando in ogni luogo i popoli a sollevazione. L'importanza del fatto era, che si congiungesse con le schiere d'Austria, che, venute col grosso dell'esercito, già si erano condotte a Padova. A questo fine, Nugent, passato il Po con una parte de' suoi, e preso alloggiamento in Crespino, si era accostato all'Adige. Dall'altro lato Bellegarde, per consentire coi movimenti di Nugent, aveva avviato a Rovigo una presa di tremila soldati sotto la condotta del generale Marshall.

Come prima il vicerè ebbe avviso del tentativo di Nugent, aveva speditamente mandato un corpo sotto il governo del generale Decouchy a Trecenta, acciocchè facesse opera d'impedire la congiunzione delle due squadre nemiche. Al tempo stesso Pino, che governava Bologna, assembrava quante genti poteva, e le spingeva avanti alla guerra Ferrarese. Ripresesi Ferrara, ma indarno, per gli accidenti che seguirono. Aveva bene Decouchy, fortemente combattendo, cacciato Marshall da Rovigo con non poca strage, e costretto a ritirarsi al ponte di Bovara Padovana. Ma gli Austriaci continuamente ingrossavano coll'intento di congiungersi con Nugent, che tuttavìa era in possessione di Crespino. Mandava perciò il vicerè nuovi ajuti col generale Marcognet verso il basso Adige, acciocchè cooperassero al fine comune con Decouchy. Uscirono i Tedeschi da Bovara Padovana: Decouchy e Marcognet gli assaltavano. Sorgeva un'ostinata zuffa: combatterono i Francesi felicemente a destra, infelicemente a sinistra: si ritirarono i Tedeschi nel loro sicuro nido di Bovara Padovana; ma colto il destro, che offerivano loro la notte e la mala guardia a cui stavano i Francesi, con un impeto improvviso gli ruppero; e gli costrinsero a ritirarsi, prima a Lendinara ed a Trecenta, poi a Castagnaro. Riacquistarono Rovigo: fu tolto ogni impedimento alla congiunzione di Nugent e di Marshall. Nugent, fatto sicuro per la congiunzione, s'incamminava a Ravenna, e da Ravenna a Forlì. Usava le armi, usava le instigazioni. «Assai, scriveva agl'Italiani, assai foste oppressi, assai posti ad un giogo insopportabile: ora più liete sorti vi aspettano; restituite coll'armi in mano la patria vostra: avete tutti a divenire una nazione independente». Poi faceva un gran romore con promettere, che non si scriverebbero più gli annuali soldati, che le consumatrici tasse si allevierebbero. Intanto i suoi saccheggiavano aspramente il Ferrarese ed il Bolognese, poco lieto principio all'independenza, che si prometteva.

Ora un nuovo inganno, ed una terza illuvie hommi a raccontare; ma questi furono di un Napoleonide. Trovavasi Giovacchino di Napoli molto perplesso, e siccome le novelle di Germania, di Francia e d'Italia giravano fauste od infauste, si appigliava a questa parte od a quella, a questo partito od a quell'altro. Molto in lui poteva il desiderio di conservare il suo reale seggio, molto la paura di Napoleone. Perciò procedendo con la sua naturale varietà, aveva negoziato, come già abbiam descritto, ora coll'Austria, ora con Bentink, ora con Eugenio, qualche volta con tutti insieme, nè s'accorgeva che tutti il conoscevano. Intanto, già sicuro dell'Austria e dell'Inghilterra, ma non ancora sicuro di se medesimo, si avviava verso l'Italia superiore. Già occupava Roma, già occupava le Marche, nè ancora l'animo suo scopriva. Pretendeva parole d'amicizia verso il regno Italico. Le casse del regno, contro il quale si apprestava a muovere le armi, sotto spezie di amicizia, addomandava, e gli si aprivano, e vi attigneva denari; richiedeva il regno di vettovaglie, di vestimenta, di armi, ed il regno gliene somministrava. Lasciato passare in Ancona ed in Roma amichevolmente dai presidii Francesi, gettava gioconde e pacifiche parole di Francia, e di Napoleone. Non so a che cosa pensasse: ma certamente la dissimulazione era grande, e peggiore anche del fine che si proponeva. Infine veduta la ritirata del vicerè, udite le novelle dell'avvicinarsi i confederati molto grossi al Reno per invadere la Francia, ed aspettato Bentink oramai vicino a tempestare in Toscana, rimossa finalmente ogni dubitazione, si risolveva a scoprirsi del tutto, ed a fare quello che il mondo non avrebbe potuto pensare, e di che si perturbò più di ogni altra cosa Napoleone. Fermava i suoi casi coll'Austria, stipulando con lei un trattato, per cui l'imperatore Francesco si obbligava a mantenere in Italia, insino a che durasse la guerra, almeno cinquantamila soldati, ed il re Giovacchino a mantenerne almeno ventimila, con ciò promettevano e s'obbligavano entrambi ad operare d'accordo, e ad accrescere il numero delle rate rispettive, se bisogno ne scadesse; oltre a ciò Francesco guarentiva a Giovacchino ed ai suoi eredi la possessione dei dominj attualmente tenuti da lui in Italia, e prometteva d'intromettersi, come mediatore, affinchè gli alleati si facessero sicurtà della medesima possessione.

Bellegarde annunziava pubblicamente agl'Italiani la congiunzione di Giovacchino colla lega, ammonendoli delle perdute speranze dei Napoleonici. Giovacchino scoprendosi nemico in quei paesi, dov'era entrato e stato accolto come amico, sforzava il generale Barbou, che custodiva in nome di Francia la fortezza d'Ancona, e Miollis, che teneva Castel Sant'Angelo, alla dedizione. Tutto lo stato Romano veniva all'obbedienza dei Napolitani, i quali, e Giovacchino con loro, ora del papa favellando, ed ora dell'independenza d'Italia, non sapevano ciò che si dicevano. Bene ovunque passavano ogni cosa rapivano, ripassata seconda pei miseri Ferraresi e Bolognesi. I vanti poi che si davano, e le millanterìe che facevano, erano grandi.

Il primo ad uscir fuori fu il re medesimo con dire ai suoi soldati, avvertissero bene, che insinoachè egli aveva potuto credere che Napoleone imperatore combatteva per la pace e per la felicità della Francia, aveva a favor suo combattuto: ma che ora si era chiarito di tutto, e che bene sapeva che Napoleone non voleva altro che guerra; che tradirebbe gl'interessi della sua antica patria, quei de' suoi stati, quei de' suoi soldati, se tosto non separasse le sue armi dalle Napoleoniche, se non le congiungesse a quelle dei principi intenti con magnanimo disegno a restituire ai troni la loro dignità, alle nazioni la loro independenza: due sole bandiere esservi, ammoniva, in Europa; sull'una leggersi le parole religione, costume, giustizia, moderazione, leggi, pace, felicità; sull'altra persecuzioni, artifizj, violenze, tirannide, guerra, e lutto di famiglie, scegliessero. Queste cose diceva Giovacchino Napoleonide. Carascosa, Napolitano generale, arrivando a Modena, più enfaticamente parlava agl'Italiani: prometteva loro independenza a nome di Giovacchino, che già era accordato coll'Austria per ajutarla a soggettare il regno Italico.

Le forze preponderanti di Bellegarde, i progressi di Nugent sulla sponda destra del Po, lo accostamento del re di Napoli alla lega, e la presenza delle sue numerose schiere nel Modenese, toglievano al vicerè ogni possibilità di conservare gli alloggiamenti dell'Adige. Fatti pertanto gli apprestamenti necessarj, si tirava indietro e andava a porsi alle stanze assai più sicure del Mincio. Il dì otto febbrajo usciva ottimamente ordinato a campo per combattere in una campale battaglia Bellegarde. La principale schiera, in cui risplendeva la guardia reale, sortendo da Mantova, s'incamminava alla volta di Valeggio: la cavallerìa, traversato il fiume a Goito, accennava a Roverbella, e perchè il nemico fosse anche infestato alle spalle, il generale Zucchi colle genti più leggieri muoveva i passi verso l'isola della Scala. Per non lasciare poi libero campo a Bellegarde dalla parte superiore, il vicerè ordinava a Verdier, che congiuntosi prima con Palombini, varcasse il Mincio a Mozambano, e gisse ad urtare il nemico a Valeggio. Ognuno passato il fiume, correva ai luoghi destinati, quando la fortuna per un accidente improvviso ridusse il disegno bene ordinato ad un moto disordinato. Nel momento stesso in cui Eugenio si proponeva di assalire Bellegarde sulla sinistra del Mincio, si era Bellegarde risoluto ad andare a trovare Eugenio sulla destra. Dal quale impensato accidente nacque, che il vicerè, in luogo di trovare tutto l'esercito nemico a Roverbella, non ebbe più a combattere che col suo retroguardo, per modo che la vanguardia Francese era venuta alle mani col retroguardo Tedesco. Appoco appoco, e l'una dopo l'altra tutte le schiere delle due parti, sì quelle che avevano passato, come quelle che erano rimaste sulla sinistra, ingaggiavano la battaglia; combattevano furiosamente. Avevano i Francesi e gl'Italiani il vantaggio; ma per poco stette, che una rotta di cavallerìa dalla parte loro non mandasse le cose alla peggio. Pure, fatto un nuovo sforzo, si rannodavano, e si pareggiò la battaglia. L'esito fu, che Bellegarde fu costretto a tornarsene sulla sinistra del Mincio, ma intero e ristretto; il che obbligò anche il vicerè a ritirarsi tutta la sua forza sulla destra.

 

Intanto Eugenio si accorgeva, che non era più in sua facoltà d'indugiar a soccorrere alle cose di oltre Po, che per l'invasione dei Napolitani diventavano ogni ora più difficili. Aveva già provveduto che con qualche maggiore fortificazione si munisse Piacenza, alla guardia della quale aveva preposto con soldati di nuova leva, e con qualche veterana banda Italiana i generali Gratien e Severoli. Ma aggravandosi il pericolo vi mandava con qualche ajuto di nuove genti Grenier, nella perizia del quale consisteva massimamente la condotta, e la somma della guerra in quegli estremi momenti. Formava l'antiguardo del nemico Nugent co' suoi Tedeschi, Istriotti ed Italiani; il retroguardo Giovacchino co' suoi Napolitani. Come prima Grenier arrivava, rincacciava con forte rincalzo all'ingiù Nugent, e lo sforzava a tornarsene più che di passo al Taro. Quivi, essendo sopraggiunti i Napolitani, faceva vista di volersi difendere, ma tanto fu audace e destro Grenier, che, passato in tre luoghi il fiume, di nuovo sforzava gli avversarj alla ritirata sino all'Enza. Nugent però, sperando di arrestare l'impeto di Grenier, si era fermato con tremila soldati a Parma. Il Francese, urtando la città da ogni parte, vi entrava per viva forza, ritirandosene a tutta fretta colla minor parte de' suoi soldati il Tedesco. Combattessi in questo fatto molto aspramente a ferro ed a fuoco, con gran terrore dei cittadini. Il re di Napoli, tornato più grosso, e sforzato finalmente il passo del Taro, già s'avvicinava a due miglia a Piacenza. Quivi l'arrestavano, non la forza degli avversarj, ma più alte e più strepitose sorti.

Pellew e Bentink comparivano in cospetto di Livorno: avevano molte e grosse navi con seimila soldati da sbarco, Italiani, Siciliani, Inglesi. Il governatore vuotò la città per patto: vi entrarono gl'Inglesi il dì otto marzo. Suonavano le armi, suonavano le parole, si scrivevano i manifesti, si sventolavano le bandiere dell'Italiana independenza. Bentink in questo si mostrava molto acceso, Wilson il secondava.

Bentink a questo modo parlava con pubblico manifesto agl'Italiani: «Su, diceva, Italiani, su; ecco che siam qui per ajutarvi; ecco che siam qui noi per levarvi dal collo il fero giogo di Buonaparte. Dicanvi il Portogallo, la Spagna, la Sicilia, la Olanda quanto a generosità intenda l'Inghilterra, quanto l'interesse non curi. Libera è la Spagna pel suo valore, libera per l'assistenza nostra. Per l'uno e per l'altra ella condusse a fine un'opera fra le belle bellissima. Cacciato dai felici suoi campi il Francese, fermovvi la sua sede l'independenza, fermovvela la libertà. Sotto l'ombra dell'Inghilterra fuggì la Sicilia le comuni disgrazie; poscia per beneficio di un giusto principe da servitù a libertà passando, ora dimostra quanto un vivere non soggetto, a gloria ed a felicità conferisca. L'Olanda ancor essa intende a libertà. Or sola l'Italia rimarrassi in ceppi? Or soli gl'Italiani le sanguinose spade gli uni contro gli altri volteranno per fare che la patria loro sia serva di un tiranno? A voi spezialmente questo discorso s'indirizza, o guerrieri dell'Italia, a voi, in cui mano ora sta il compire la generosa impresa. Questo da voi non si chiede, che a noi venghiate: solo le voci nostre vi ammoniscono, che i vostri diritti rivendichiate, che a libertà vi restituiate. Applaudiremo lontani, accorreremo chiamati, e se le vostre congiungerete alle forze nostre, fia che l'Italia risorga alle sue antiche sorti, fia che di lei suoni quant'ora della Spagna suona». In questa forma l'Inglese allettava gl'Italiani: drappellava intanto le insegne delle mani giunte, sperando con queste parole e dimostrazioni di far muovere i popoli.

Ma siccome quegli che era uomo audace ed operoso, tosto giungeva alle parole i fatti. Ebbe avviso a Livorno, che Genova si guardava solamente da duemila soldati. Parvegli occasione propizia, perchè era sito di unica importanza, sì per la sua grandezza, sì per la comodità dei porto, e sì per l'agevolezza che acquista chi ne è signore, di scendere nelle pianure del Piemonte e della Lombardìa. Inoltre abbondava di armi e di munizioni navali. Pertanto Bentink si accingeva ad espugnarla. Suo pensiero era di mandar le fanterìe per le strade difficili del littorale, le munizioni pei bastimenti sottili, le armi e gl'impedimenti più gravi per le navi grosse. Giunto a Sestri di Levante, udiva che nuovo soccorso era entrato per custodir Genova, per forma che il presidio sommava a seimila soldati, presidio insufficiente alla vastità delle fortificazioni, ma bastante a rendergli molto dura l'impresa: il reggeva Fresia. Si era egli, per opporsi agli sforzi di Bentink, ordinato per modo che distendendosi dai forti Richelieu e Tecla, occupava col centro il villaggio di san Martino, e quindi arrivava colla destra, per uno spazio intricato di giardini e di ville, sino al mare. Non aveva l'avversario speranza di poter impadronirsi della piazza per una lunga oppugnazione con sì pochi soldati: pure molto gl'importava, che, in mezzo a tanti romori, e per non lasciargli raffreddare, Genova si prendesse. Da questo conseguitava, che gli era necessità d'insignorirsene per un assalto vivo. A questo ordinava i suoi, che mostravano un grandissimo ardore, ed una prontezza incredibile a fare quanto egli volesse. Mandava gl'Italiani condotti dal colonnello Ciravegna, soldato pratico ed animoso, che ancor egli sventolava le bandiere dell'independenza, a far opera contro una punta di monte, che sta a sopraccapo ed a fronte del forte Tecla. Spediva un'altra parte degl'Italiani contro il forte Richelieu, mentre un Travera colonnello, dal monte delle Fascie scendendo, con Greci e Calabresi, se ne giva a guadagnare un'eminenza, che al forte medesimo sovrasta. Quest'era lo sforzo che faceva a dritta e nelle parti di sopra; ma sotto e più accosto al mare mandava i fanti Inglesi, sotto la condotta dei generali Montresor e Macfarlane, con ordine di sgombrare, quanto possibil fosse, gl'impedimenti del paese, e di assaltar l'inimico. Succedevano i fatti a seconda de' suoi pensieri. Ciravegna, che combatteva sulla punta estrema a destra, spintosi avanti con singolar valore, cacciava il nemico dall'altura, e s'impadroniva di tre cannoni di montagna, il quale accidente vedutosi dai difensori del forte Tecla, l'evacuarono, in potestà del vincitore lasciandolo. Anche l'eminenza superiore al forte Richelieu fu presa dai Greci e Calabresi. Gl'Italiani ancor essi s'avvicinavano al forte. Non volendo il presidio aspettare l'ultimo cimento, si arrese a patti. Sulla sinistra dei confederati si sostenne la battaglia più lungo tempo, sì per la natura dei luoghi opportuna alle difese, come per la valorosa resistenza dei difensori: pure gl'Inglesi guadagnavano del campo. Finalmente gli assediati, vedendo che per la perdita dei forti Tecla e Richelieu correvano pericolo di esser presi alle spalle, fecero avviso di ritirarsi del tutto dentro le mura, lasciando le difese esteriori in poter dei confederati. Già per opera di Bentink si piantavano le batterìe per fulminare la città. In questo ad accrescere il terrore, arrivava sopra Genova Edoardo Pellew con tutta la sua armata, attelandosi a fronte di Nervi. Ai piccoli cannoni di Bentink si aggiungevano i grossi, e le bombarde di Pellew, per modo che nell'assalto che si vedeva imminente, ogni cosa presagiva un successo prospero a chi assaltava. Si venne in sul convenire: Fresia s'arrese il dì diciotto aprile.