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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Quanto all'Italia, gli umori vi erano diversi, nè sì grande il suo momento, per esser troppo lontana dai campi in cui si dovevano combattere le battaglie, nè dava timore di un moto alla Spagnuola. Inoltre nelle regioni superiori di lei la lunghezza del dominio Napoleonico vi aveva, parte assuefatto gli animi, parte posto in dimenticanza gli antichi sovrani. Nella inferiore poi le crudeltà commesse vi avevano alienato gli spiriti, e se i popolani, specialmente nelle province, non amavano Giovacchino, i nobili l'amavano, grande sussidio al suo governo. Roma e Toscana nel mezzo fremevano ma impotenti; i Piemontesi, uomini armigeri, si contentavano di quelle guerriere sorti. Del regno d'Italia, la parte Milanese dipendeva piuttosto con lieto animo, che mal volentieri dal capitano invitto, per avere una capitale fioritissima, un nome ed un esercito proprio, magistrati ed impiegati del paese, una immagine d'independenza. Del resto la gloria militare di Napoleone quivi aveva cominciato, quivi continuato, i pubblici segni magnifici; eravi sorta una certa nazionale altezza. La parte Veneziana avversa; ma che sperare avesse, e per cui combattere non sapeva. Solo sapeva che per se non poteva combattere: niuna speranza avevano i Veneziani della loro nobil patria, o preda sempre, o compenso di preda.

Risolutisi i due potenti imperatori al venirne al cimento dell'armi, ed al contendere fra di loro dell'imperio del mondo, cominciarono, come si usa, a gareggiar di parole, allegando l'uno contro l'altro piccoli fatti, certamente molto abietti, e molto indegni di tanta mole. Essi sapevano il motivo vero della guerra: tutto il mondo se lo sapeva, quest'era l'impossibilità del vivere insieme sulla vasta terra. Napoleone come più impaziente e più ambizioso, tirandolo il suo fato, assaltava primo; infierì la guerra in regioni rimotissime; desolò prima le sponde del Boristene, poi quelle del Volga: combatterono i Russi a Smolensco, combatterono a Borodina sulla Moscova: prendeva Napoleone Mosca, la prendeva ed insultava: folle che non vedeva che Dio già gli dava di mano! Era fatale, che sui confini dell'Asia perisse la fortuna Napoleonica; arse Mosca, immensa città; cagione e presagio di casi funesti. Una rotta toccata da Murat avvertiva Napoleone che il nemico si faceva vivo, e che quello non era più tempo da starsene nel fondo delle Russie. Gli restava l'elezione della strada al ritirarsi. Pensò di ridursi, passando per Caluga e Tula, a svernare nelle province meridionali della Russia: vennesi al cimento terminativo di Malo-Jaroslavetz, in cui mostrarono un grandissimo valore i soldati del regno Italico. Quivi perirono le speranze di Napoleone, quivi si cambiarono le sorti del mondo, quivi rifulse principalmente la virtù di Kutusoff, generalissimo di Alessandro. Napoleone ributtato con ferocissimo incontro, fu costretto a voltarsi di nuovo alla desolata strada di Smolensco: il Russo gelo spense l'esercito: piange e piangerà eternamente la Francia, piange e piangerà l'Italia il suo più bel fiore perduto per l'ambizione d'un uomo, che con la sua superbia volle tentare il cielo; il cielo mostrò la sua potenza; questa fu la pienezza dei tempi profetizzata da papa Pio. Imparino moderazione e giustizia gli ambiziosi, che si dilettano delle miserabili grida degli straziati uomini.

Al suono delle rotte Napoleoniche, la Prussia, procedendo impetuosamente contro l'insopportabile signore, nè aspettato nemmeno d'intendere la volontà del re, insorgeva, e si vendicava cupidissimamente in libertà. Napoleone ritornava nella sua sede di Parigi; ma pei recenti fatti molto era rallentata la fama della sua gloria militare. Murat, sbalordito da accidenti tanto straordinarj, abbandonato l'esercito se ne veniva a Napoli; presene il governo Eugenio vicerè. Aveva Murat mala satisfazione di Napoleone, ed era maravigliosamente commosso contro di lui, perchè gli aveva attraversato i suoi disegni sopra la Sicilia, e perchè non gli era ignoto, ch'egli aveva negoziato con Carolina di cose pregiudiziali al suo dominio Napolitano. Dall'altra parte gli alleati, massimamente gl'Inglesi, si erano deliberati a pretendere ed a metter fuori certe voci che sapevano essere gradite agl'Italiani, sperando con esse di commuovere facilmente tutta la penisola; quest'erano che oggimai era venuto il tempo di dare all'Italia l'essere independente. Pingevano con vivi colori la tirannide di Napoleone, e con immagini lusinghevoli si sforzavano di voltare gli animi a questo pensiero della liberazione. Bentink o tentativamente o sinceramente che sel facesse, si spiegava di questo disegno con parole incitatissime, e dimostrava la Gran Brettagna parata a secondarlo. Conosceva Giovacchino tutti questi umori. Per questo, tornando da Mosca, passò per Milano, dove più che in altri paesi d'Italia questi desiderj si erano accesi, a fine di scoprire che cosa portassero i tempi. Ma siccome leggieri uomo ch'egli era, quantunque portasse ancora impressi in volto i segni del passato terrore, si mise a far gran promesse, ch'egli farebbe e direbbe, e che era tempo da far l'Italia independente, e che egli era uomo da farla, e che la farebbe. Con questi vanti, che pure lasciavano semi, se ne tornava nel regno. Bentink, conosciuto l'uomo, e volendo concordarlo con gli alleati per turbare fin dalla bassa Italia le cose a Napoleone, il confortava ad assumere le insegne di campione dell'Italica libertà. Lodava il suo valore, le armi, i soldati: l'empieva di speranze; affermava, che, dove egli consentisse a congiungergli con quei de' confederati, si toglierebbe ogni dubbio sull'esito finale dell'impresa, che il turbatore e tiranno del mondo sarebbe vinto, che i confederati il saluterebbero re, che sempre il suo trono di Napoli vacillerebbe, se non fosse conosciuto, e riconosciuto dall'Inghilterra e dalla Russia, che a voler esser tenuto e conservato re novello in mezzo a tanti re antichi, e nel cospetto stesso del naturale e legittimo sovrano, a cui era sempre parata l'azione sopra il regno di Napoli, abbisognava il consenso libero di tutti, e che perciò era necessitato a fondarsi con nuove congiunzioni. Che momento recare, che ajuto porgere a lui ancora potevano Napoleone vinto, ed i suoi gelati soldati? Badasse bene, che colla conservazione propria ne andava la salute e la libertà d'Italia: sarebbe il suo nome immortale, cambierebbe l'odioso nome di re intruso in quello di re legittimo e liberatore. Impugnasse adunque quelle Napolitane armi, si separasse dall'amicizia di Napoleone, assumesse quella degli alleati, bandisse, ed asseverasse l'independenza Italiana. Offerirgli l'Inghilterra la volontà pronta ad ajutarlo, e siccome comune sarebbe l'impresa, che avrebbe facilmente felice successo, così comuni ancora sarebbero l'onore e il frutto. A questo modo Bentink tentava Murat, affinchè venisse a questa congiunzione; il negozio andò tant'oltre, che l'Inglese già si era condotto non a Messina, per non dar sospetto a Ferdinando, ma a Catania a fine di avere maggior comodità di certificarsi dell'animo del novello re, di attendere alla pratica, e di concludere l'accordo. Nè era senza speranza di venirne a conclusione, quando Giovacchino ricevè lettere da Napoleone; portavano, magnificate le cose, che i soldati scritti in Francia con volontà obbedientissima marciavano, che gli eserciti s'ingrossavano, che i popoli gli deliberavano con pronto animo grosse sovvenzioni di denari, che la Francia sarebbe presto uscita a campo più formidabile che mai; che insomma il nome e la fortuna dell'imperatore risorgevano. Queste novelle, aggiunta anche la natura facilmente mutabile di Murat, furono cagione ch'egli tagliò inopinatamente ogni pratica, e si deliberò a perseverare nell'aderirsi a Napoleone. Bentink l'ebbe per male, e rimaso senza speranza di averlo congiunto seco, s'indispettì talmente che non ostante che per mitigare con qualche onesto modo l'animo suo, Giovacchino gli mandasse poi in presente una ricca e forbita sciabola, l'Inglese non volle più trattar con lui, nè udire le nuove proposte ch'ei gli venne facendo, quando sopraggiunsero i tempi grossi per Napoleone in Germania. Il che fu cagione che Murat deposto ogni pensiero dell'independenza d'Italia, si voltò finalmente tutto verso l'Austria, sperando in tal modo di fondare la propria grandezza sulla dipendenza altrui.

Napoleone, che riavutosi dagli accidenti di Russia era rientrato in sè medesimo, ed attendeva e provvedeva gagliardamente ad ogni cosa, essendogli diventato buon maestro il timore, e considerato che il rendersi benevolo il papa, e l'accordarsi con lui, avrebbe fatto fondamento grande ai suoi pensieri, e molto giovato a tener fermi nella sua dominazione in sì grave pericolo gli animi degl'Italiani, si ritirava dalle domande di Savona, ed inclinando alla concordia concluse un concordato il dì venticinque gennajo in Fontainebleau. I principali capitoli furono, che sua santità esercerebbe l'ufficio del pontificato in Francia e nel regno d'Italia, in quel modo e conformità che i suoi antecessori l'avevano esercite; che manderebbe ai potentati i suoi ministri, e da loro ne riceverebbe, con le solite immunità e privilegi del corpo diplomatico; che gli si renderebbero i beni non venduti, e che i venduti gli si compenserebbero con una rendita di due milioni di franchi all'anno; il papa, fra sei mesi dalla notificata nomina dell'imperatore instituirebbe canonicamente, in conformità del concordato, ed in virtù del presente indulto, i nominati agli arcivescovadi ed ai vescovati dell'impero di Francia, e del regno d'Italia; che il metropolitano prenderebbe le informazioni preliminari; se fra sei mesi il papa non avesse instituito, il metropolitano instituirebbe egli, o se di metropolitano si trattasse, l'anziano dei vescovi l'instituirebbe; che le sedi mai più di un anno non potessero vacare; che il papa nominerebbe, tanto in Francia quanto in Italia, a sei vescovati, che di comune consenso si sceglierebbero; che i sei vescovati suburbani si restituirebbero, e che il papa ad essi nominerebbe; che i beni non venduti a loro si restituirebbero, ed i venduti si ricupererebbero; che i vescovi assenti dallo stato Romano si rintegrerebbero nelle loro sedi; che di mutuo consentimento si ordinerebbero i vescovati della Toscana e del Genovesato; si conserverebbero, dove il papa sederebbe, la propaganda, la penitenzierìa, gli archivj; che sua maestà rimetterebbe nella sua grazia quei cardinali, vescovi, preti, e laici, che ne erano caduti; che s'intenderebbe, che il santo padre consentiva ai sopra narrati capitoli a cagione dello stato attuale della chiesa, e della speranza datagli dall'imperatore, che soccorrerebbe con la sua potente protezione ai numerosi bisogni che stringevano la religione nei tempi presenti. La sede futura del papa lasciossi in pendente; chi parlava di Avignone, chi di Roma. Se in questo trattato, oltre le concessioni ottenute, il papa ricuperò, come pare verisimile, per un capitolo segreto, la sua Roma, ei sarà manifesto che il carcerato vinse il carceratore. Affrettossi Napoleone di pubblicare l'accordo di Fontainebleau, e ne levò anche, sapendo di quale importanza fosse, un gran grido. Querelossi il pontefice della affrettata pubblicazione gravemente perchè avrebbe voluto, che allora solamente fosse pubblicato quando avesse avuto in ogni parte la sua esecuzione.

 

La benignità della stagione permetteva oggimai il guerreggiare: Napoleone, fatta con gran prestezza una nuova congregazione di soldati, e promettendosi più che mai del futuro, ricompariva forte ed audace sui campi Germanici. Combattè i Russi, combattè i Prussiani in duri incontri; combattè anche con estremo valore gli Austriaci voltatisi contro di lui per gli sdegni antichi, e per le disgrazie nuove. Ma la rotta di Lipsia pose fine alla sua potenza: la Germania intera, mutato procedere con la fortuna, corse con impeto infinito a libertà: i popoli Alemanni facevano a gara in quest'impresa, che santa chiamavano, e coll'armi in mano delle lunghe ingiurie si risentivano. Le Francesi terre sole furono ricovero al vinto Napoleone. Così il lungo fastidio dell'imperio Napoleonico, e lo sdegno universale avevano tolto di mezzo le difficoltà, che altre volte avevano disturbato il desiderio comune. Una gran tempesta cambiatrice di destini sovrastava all'Italia. Aveva Napoleone, che non si era punto ingannato dell'avvenire, mandato il principe Eugenio in Italia, perchè ordinasse le cose alla imminente guerra. Era il principe veduto con qualche amore dai popoli del regno, non che si mostrasse acceso nel desiderio dell'independenza, che anzi in questo era assai docile nel servire alla volontà del padre, ma perchè era di natura facile e temperata. Pure in quest'ultimo caso tanto si mostrò acerbo nell'eseguire il mandato di Napoleone, sì nel far correre i soldati delle nuove leve, sì nel riscuotere i denari dai popoli, che l'amore convertissi in odio. Prima però di narrare i successi dell'armi in Italia, è mestiero descrivere i maneggi politici, che specialmente rispetto a lei si trattavano in questi tempi. Primieramente quando ancora Napoleone era a Dresda, gli alleati, ai quali l'Austria già si era accostata, gli proponevano che restituisse le provincie Illiriche, che ristorasse a libertà le città anseatiche, che consentisse a nominare, d'accordo con gli alleati, sovrani independenti pei regni d'Italia e d'Olanda. Domandavano altresì, che evacuasse la Spagna, e rimandasse il papa a Roma: susseguentemente credendo, che per le rotte avute si fosse renduto più facile alla concordia, il richiedevano, senza però, che questa fosse condizione indispensabile, che rinunciasse alla confederazione Renana, ed alla mediazione della Svizzera. Quello spirito altiero, che sempre si empiva di pensieri vani, e presumeva della sua fortuna sopra il consueto degli uomini ragionevoli, non volle piegar l'anima; risolutamente ricusò le proposte. Quanto all'Italia, corse fama che i confederati, non avendo potuto persuadere il desiderio loro a Napoleone, si voltassero a tentar l'animo d'Eugenio vicerè, offerendogli di riconoscerlo re del regno d'Italia, se volesse congiungersi con loro ad impresa comune per la liberazione d'Europa: cosa, che il principe non avrebbe potuto fare senza voltar le armi contro la Francia, e contro il padre. Vogliono che Eugenio rispondesse, non esser padrone di se medesimo, non avere la potestà sovrana; solo essere delegato e mandatario, non potere senza taccia d'infamia, non che accettare, udire le proposte; non avrebbero gli alleati nè stima nè fede in lui, se a quello che da lui richiedevano acconsentisse. Se fu vera, bella risposta fu certamente questa, e se Eugenio avesse perseverato sino alla fine nella medesima illibatezza di posporre l'utile all'onesto, non potrebbero i posteri dargli biasimo d'importanza.

Ma peggiorando vieppiù per la rotta di Lipsia le condizioni dell'imperator Napoleone in Germania, Eugenio cominciò a pensare ai casi suoi, e procedendo con dubitazione, frutto o della lunga servitù, o di disegni più cupi, o di affezione verso Francia, metteva fuori parole che dinotavano in lui la volontà di abbracciar l'independenza: essere cambiati i tempi, spargevano i suoi più fidi; dover essere l'Italia independente, ma unita a Francia, non unita ad Austria, non ad Inghilterra; ciò volere, ciò desiderare Napoleone; salvassersi le sorti di Francia, fossero quelle d'Italia quali e quante dovevano essere. Napoleone tocco da sventura, non essere più Napoleone trionfatore; lui la prosperità avere fatto rigido signore dei popoli, lui l'avversità fare spontaneo comportatore di libertà; pigliassero gl'Italiani quella occasione, che la fortuna offeriva loro di vendicarsi a libertà sotto il potente e temperato dominio della Francia.

Spaziavano poscia i fomentatori di questi pensieri sull'odioso, come dicevano, dominio dell'Austria; venirne l'Austria con brame di vendetta, venirne con fini d'assoluta potenza; il lungo dominio avere immedesimato col nuovo governo le persone e gl'interessi; non potere questa comunanza rompersi, il che l'Austria farebbe, senza infiniti dolori e ruine; altra essere la natura dei Francesi, altra quella dei Tedeschi; quella più uniforme agl'Italiani, questa più disforme; del resto, potere gl'Italiani stare, se l'independenza fondassero, senza i Francesi; il dominio Austriaco nel regno non potersi fondare senza la presenza dei soldati: eleggessero gl'Italiani tra lo essere stato proprio, o provincia altrui: quei magnifici palazzi novellamente sorti, quei valorosi soldati sì numerosamente formati, quei magistrati sì indissolubilmente radicati, quelle abitudini sì generalmente allignate, quel nome d'Italia sì lungamente in fronte portato, assai indicare che proprietà di se, non d'altrui, che insegne libere, non serve, che denominazione propria, non forestiera, doveva il regno, doveva l'Italia avere, nè comandare agl'Italiani altri che gl'Italiani: essere Eugenio, non Italiano di nascita, ma Italiano di elezione e d'affetto: offerirsi parato a fare quanto in lui fosse per dimostrare ai popoli, quanto la libertà, e l'independenza loro amasse, purchè in termini non pregiudiziali a Francia si consistesse: essere in lui sperienza di stato, sperienza d'armi, età giovenile, ma matura, corpo forte ed esercitato; le moleste cose averle volute Napoleone rigido, le dolci lui; e chente fosse il principe, averlo dimostrato con quella sua risoluzione stessa di conservarsi fedele nell'avversa fortuna a colui dal quale era stato innalzato nella prospera.

Queste insinuazioni dei fidati di Eugenio producevano pochi effetti, perchè i contrari al nuovo stato non si lasciavano svolgere, massimamente nell'imminenza dei pericoli presenti, i favorevoli poco confidavano nelle promesse Francesi. Costoro vedevano occupare tuttavia il primo luogo nella grazia del principe, intromettersi nei consigli più segreti, e l'autorità solo arrogarsi coloro, che nella servitù verso Napoleone più erano stati sprofondati, che al nome d'independenza sempre si erano spaventati, che delle più dure deliberazioni, e dei più rigidi comandamenti dell'imperatore e re erano stati i principali autori, ed i più attivi esecutori. Sapevano ch'essi erano sempre stati consigliatori di amare risoluzioni contro coloro, che per generosità d'animo, e per amore di franchigia, della lor patria altamente sentendo, erano divenuti sospetti: l'aver pruovato il loro giogo acerbo nuoceva alla causa che pretendevano. Due uomini principalmente erano venuti in odio dei popoli nel regno Italico, il conte Prina, ministro delle finanze, carissimo a Napoleone per la sua natura sottile ed inesorabile nel riscuoter le tasse, ed il conte Mejean, segretario del principe, uomo di tratto cortese e soave, ma che, come di scuola Napoleonica, credeva, che a voler che gli uomini siano bene governati, convenga metter loro un duro freno in bocca. Questi discorsi davano grandissimo nocumento alle cose del vicerè: alcuni però speravano, che, rimossa quella mano di Napoleone dalle viscere del regno, si avessero anche a rimuovere quei due consiglieri acerbi, e ad avere più in considerazione i consigli di quelli, che più amavano la moderazione e la libertà d'Italia. Tanto poi si era fatto per l'attività del vicerè, che si era creato un esercito giusto, composto parte di Francesi raccolti dai presidii e dagli scritti dell'Italia Francese, parte di soldati del regno, alcuni veterani, molti novelli. Il vedere queste genti dava qualche sicurtà ai popoli, se non di vincere, almeno di negoziare, e non si disperava dello stato franco. La tempesta intanto di verso il mare, e di verso il Tirolo e l'Illirio si avvicinava.

Eugenio confermandosi più l'un dì che l'altro ne' suoi disegni e nelle sue titubazioni e vacando sempre ai negozi cogli antichi consiglieri, aveva dato ordine al suo ministro di polizia, che scrivesse una circolare a tutti i prefetti, esortandogli a far sorgere destramente nei popoli il pensiero, che fosse arrivato il tempo di fondar l'independenza: insinuassero altresì, ch'egli si sarebbe fatto capo dell'impresa, e che Napoleone imperatore l'avrebbe veduta volentieri. Ma poscia, avendo paura di se stesso, e temendo che il moto, che si voleva suscitare, tornasse in pregiudizio della Francia, diede ordine che le lettere s'intrattenessero. Così tra il volere e il disvolere non riusciva a nulla, non accorgendosi che chi si mette a simili imprese, non solamente non può regolarle a volontà sua, ma non deve nemmeno curarsi che a volontà sua si possono regolare. A volere fondar la franchezza d'Italia, che era un fatto grandissimo, e' bisognava volerla senza mescolanza di altro affetto, e il voler serbare fedeltà a Napoleone ed a Francia, quando il fine della liberazione d'Italia esigesse altri pensieri, se era cosa onorevole, era certamente puerile. A chi si getta a questi partiti straordinarj è d'uopo il non pensare alle indiavolate cose che ne possono seguire. Odo che si dice, che a queste cose gli uomini onesti non possono consentire. A questo sto cheto; solo dico, che, se così è, gli uomini onesti non si debbono gettare a tali partiti, e nemmeno far vista di volervisi gettare. Questo poi so di certo, che Eugenio, o fosse onestà, o fosse mancanza di cuore, perdè l'impresa.

Giovacchino anch'egli si era travagliato di questa materia, quando ebbe veduto le cose di Napoleone andare in fascio in Germania. Ma varj ed incerti erano i suoi pensieri. Sul principio, quantunque non amasse il vicerè, ed emolasse la sua grandezza, gli aveva mandato proponendo: dividessersi fra di lor due l'Italia, facesserla independente; ch'essi soli, se operassero d'accordo, la potevano preservare dai Tedeschi; che non si sarebbe recato alcun pregiudizio alla Francia, la quale avrebbe avuto l'Italia per alleata. Aggiungeva, che in caso di deliberazione contraria da parte del vicerè, ei sarebbe obbligato di fare quelle risoluzioni che avrebbe stimate più convenienti alla salute sua.

Prestò il vicerè poco orecchio alle proposte del re di Napoli, o che non si fidasse di lui per le antiche emolazioni, o che volesse far da se, o che temesse di pregiudicar Napoleone e la Francia. Caduto Giovacchino dalle speranze di Eugenio, si era deliberato, già insin da quando aveva condotto l'esercito nella Marca d'Ancona, ad appiccare nel regno d'Italia qualche pratica segreta: anzi giungendo i suoi vanti a quei dei Napolitani, pareva che volesse far gran cose. Il generale Pino, antico amico di Lahoz, e soldato di pruovato valore, era venuto in qualche disfavore in corte, sì perchè si sapeva ch'egli era amatore dei viver patrio, sì perchè erano tra lui e Fontanelli, ministro della guerra, emolazioni di fama e di potenza. Vivevasene, dopo le prime battaglie dell'Illirio e del Friuli, che nel seguente libro racconteremo, in condizione privata, alle faccende pubbliche non badando, se non per saperle. Parve stromento opportuno al re di Napoli; il fece tentare; prometteva di condurre i suoi Napolitani all'impresa. Molti entrarono nell'intelligenza. I capi, disperando del vicerè, come troppo Francese, si gettavano alle parti di Giovacchino, il quale come più audace e meno cauto, era capace di fare qualche strepitosa alzata d'insegne. I congiurati tanto operarono, che Pino fu mandato al governo militare di Bologna, luogo atto a poter consuonare coi Napolitani, che, già occupate le Marche, si trovavano vicini.

 

Mandò Giovacchino un Pignatelli ad abboccarsi con Pino a Bologna. Il richiedeva, che col nome, ed autorità sua, che era grande fra i soldati italiani, ne tirasse a se quanti potesse, ed improvvisamente si scoprisse, quando il re si mettesse a cammino per assaltare l'Italia superiore. Queste trame non si poterono ordire tanto copertamente, che Fontanelli, che già sospettava del governator di Bologna, non ne avesse qualche sentore; perciò diede lo scambio a Pino. Giovacchino si trovò ingannato della speranza concetta di fare un moto nel regno d'Italia malgrado del principe vicerè. Andossene Pino a Verona, dove il principe, quando fu risospinto dai confini per le armi Austriache, aveva ridotto i suoi alloggiamenti. Veduto con poca lieta fronte dal principe, anzi interrogato, come sospetto, dal ministro di polizia Luini, se ne venne molto di mala voglia, e dimostrando dispiacenza grandissima, a Milano. Quivi visse privatamente, ed anche oscuramente sino alla commozione, che terminò con funesto fine un regno più lietamente incominciato. Giovacchino si gettava alla parte dell'Austria.

Le armi potenti seguitavano le macchinazioni impotenti. Aveva l'imperatore Francesco, che con grandissima prontezza si era allestito alla guerra, mandato un forte esercito, in cui si noveravano meglio di sessantamila buoni soldati, ai confini, per modo che cingeva tutto il regno Italico da Carlobado di Croazia insino al Tirolo. Obbedivano tutte queste genti al generale Hiller, uomo di grande sperienza per essere già molt'oltre con gli anni, e vecchio ancora di milizia. Militavano con lui non pochi generali di nome, tra i quali principalmente si notavano Bellegarde e Frimont, capitani esperti nell'Italiche guerre. Mandava fuori Hiller un suo militare manifesto, con cui, descritte primieramente le forze e le vittorie della lega, esortava gl'Italiani a levarsi contro il tiranno a generale liberazione d'Europa conquassata sì lungamente da tanti movimenti, ed a cooperazione dei poderosi eserciti che accorrevano in ajuto loro da ogni banda.

Quest'era il nembo che minacciava il regno Italico dai paesi di Settentrione, e d'Oriente. Vers'ostro i confini non gli erano sicuri; perchè gli alleati, facendo grande fondamento sulle sollevazioni dei popoli, si erano accordati, che, mentre gli Austriaci l'assalterebbero dalla parte loro, gl'Inglesi, o coi soldati proprj, o con soldati di ogni paese, massimamente Italiani raccolti in Malta ed in Sicilia, o finalmente con qualche mano di Austriaci, infesterebbero i due littorali dell'Adriatico, tanto dalla parte della Dalmazia e dell'Istria, quanto da quella d'Italia. Sapevano, che massimamente nella Dalmazia e nell'Illirio s'annidavano male disposizioni contro la dominazione Napoleonica, nella prima per le crudeltà usate da qualche generale, e per la cessazione del commercio, nel secondo per l'antica affezione alla casa d'Austria, e per la superbia di Junot governatore, che già pazzamente vi procedeva prima che pazzo diventasse. Intendevano anche a percuotere nei lidi Italiani, entrando per le bocche del Po, per far diversione in favor dello sforzo principale, che calava dalle Alpi Rezie, Giulie, e Noriche. Avevano anche speranza, sebbene il vedessero incerto e titubante, che Giovacchino di Napoli si sarebbe congiunto a loro, sì perchè allora sempre più precipitavano le cose di Napoleone, sì perchè si persuadevano, che avrebbe creduto un gran fatto, che i governi antichi con lui trattassero, lui riconoscessero, ed in luogo di alleato accettassero. Le forze del re di Napoli erano di grande momento all'Austria, perchè andavano a ferire il regno Italico a fianco ed alle spalle, e dove aveva minor difesa; perchè dei futuri casi, nissuno, e nemmeno Napoleone previdentissimo avrebbe potuto immaginare questo, che Giovacchino di Napoli fosse un giorno per muovere le armi contro il regno Italico di Napoleone di Francia.

Nè dovevano restare senza disturbo le sponde del Mediterraneo, perchè gl'Inglesi, essendo oramai certi delle intenzioni di Giovacchino, si proponevano di far impeto con quei loro soldati moltiformi, e racimolati da ogni paese, nella Toscana, provincia che credevano, non senza ragione, avversa al nuovo stato e desiderosa di tornare all'antico. Venivano con loro Bentink e Wilson generale colle loro pubblicazioni di libertà e d'indipendenza, dico Bentink, che intendeva la libertà, ma pendeva al tirato, essendo di natura piuttosto signoreggevole, e Wilson che amava la libertà, ma pendeva al largo, essendo di natura piuttosto tribunizia. Avevano essi trovato non so che bandiere con suvvi scritto il motto Independenza d'Italia, e dipinte due mani che si toccavano in segno d'amicizia e di colleganza. A questo modo suonava d'ogn'intorno un forte nembo al regno Italico, ed a tutta Italia. Le antiche ricordanze dell'Austria, le nuove parole di libertà, l'allettatrice mostra della padronanza propria, gli epifonemi di pace, di concordia, di felicità, le promissioni di tasse temperatissime, e di abolizione delle leve soldatesche si mettevano in opera per far muovere l'Italia; ma gl'Italiani, che già ne avevano vedute tante, non credevano nè agli uni nè agli altri.

Il vicerè forbiva ancor egli le sue armi. Aveva circa sessanta mila soldati, nei quali erano i veterani Italiani venuti di Spagna, i soldati di nuova leva, e la guardia reale Italiana, bella e valorosa gente; sommavano gl'Italiani circa ad un terzo. I Francesi anch'essi, o raccolti prestamente dai presidj, o chiamati dalla Spagna, con celeri passi accorrevano al sovrastante pericolo. Gli partiva in tre principali schiere; la prima, che obbediva a Grenier, aveva le sue stanze sulle rive del Tagliamento e dell'Isonzo, terre tante volte già combattute, e tante volte ancora gloriosamente conquistate dai Francesi; la seconda retta da Verdier alloggiava a Vicenza, Castelfranco, Bassano e Feltre. La terza, quest'era l'Italiana, posava a Verona ed a Padova: la governava Pino, non ancora stato al governo di Bologna. Una parte di lei sotto l'obbedienza dei generali Lecchi e Bellotti era mandata a custodire l'Illirio: la cavallerìa stanziava a Treviso. Per vigilare intanto sugli accidenti del Tirolo, parte che dava grandissima gelosia, una schiera di soccorso alloggiava in Montechiaro: quando poi divenne il pericolo più imminente, fu mandata, sotto il governo di Giflenga, a combattere in Tirolo contro un corpo d'Austriaci condotto dal generale Fenner. Secondavano tutto questo sforzo dalla Dalmazia, ma piuttosto per difendere che per offendere, pel picciol numero dei soldati, i presidj, la maggior parte Italiani, di Zara, Ragusi e Cattaro. Ora, diventando ad ogni momento la guerra più imminente, pensò il vicerè a spingersi più innanzi, andando a porre il campo principale a Adelsberga, terra poco distante dalla sponda destra della Sava sulla strada per a Carlobado di Croazia, e per a Lubiana di Carniola. Al tempo stesso, allargandosi alla sinistra, mandava una forte squadra a custodire i passi di Villaco e di Tarvisio, avendo avuto avviso che Hiller, fatto un assembramento molto grosso a Clagenfurt, minacciava di farsi avanti, sì per isforzare quei forti passi, e sì per condursi, montando per le rive della Drava, alle regioni superiori dell'affezionato Tirolo.