Il Travestimento Perfetto

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CAPITOLO QUATTRO

Hannah aveva deciso. C’era qualcosa che non andava in lei.

Era in stallo da un po’, distesa a letto, impegnata nel tentativo di ignorare il pensiero, riflettendo invece su come trascorrere la sua ultima settimana di vacanza prima di andare ai corsi estivi per recuperare tutto quello che si era persa durante il terzo anno. Non c’erano bei film da vedere. La spiaggia era troppo distante dall’appartamento di Kat, che si trovava in centro. E poi lei comunque non aveva la macchina. Tutti i suoi vecchi amici, quelli con cui aveva ormai perso i contatti, vivevano nella San Fernando Valley. E non se ne era fatti di nuovi da quando la sua vita si era trasformata in un continuo ammonimento.

Ma nonostante i tentativi per tenere occupato il cervello, i suoi pensieri continuavano a tornare alla conclusione che aveva raggiunto. Alla fine decise di guardare di nuovo la pagina web. Quella sezione del sito della Mayo Clinic era specifica per il disordine antisociale della personalità, o sociopatia. Lo descrivevano come un disordine mentale ‘in cui una persona mostra costante indifferenza per ciò che è giusto o sbagliato e ignora i diritti e i sentimenti degli altri.’ Diceva anche che ‘tendono a opporsi, manipolare o trattare gli altri in modo duro o con spietata indifferenza. Non mostrano colpa o rimorso per il loro comportamento.’

Suona familiare.

Ancora prima che la dottoressa Lemmon iniziasse a farle domande in quel senso durante le loro sedute di terapia, Hannah si era chiesta perché le venisse da comportarsi in certi modi. Perché aveva reagito all’omicidio dei suoi genitori adottivi più con curiosità che con orrore? Perché la vista di un serial killer che ammazzava brutalmente un uomo davanti ai suoi occhi, per tentare poi di farle fare lo stesso, non l’aveva riempita della repulsione che si sarebbe aspettata? Perché l’assassinio di Garland Moses, un uomo che era stato dolce e gentile con lei, non le aveva lasciato addosso altre sensazioni se non un generale senso di nostalgia per la sua assenza?

Poi l’ultima domanda, quella che la disturbava di più, le si ripresentò nella mente. Come si sarebbe sentita se fosse successo qualcosa a Jessie: la sua sorellastra, la persona che si era assunta la sua tutela e protezione? Ovviamente avrebbe provato ‘tristezza’. Ma sarebbe stata per la mancanza di una persona che le aveva reso la vita più facile e più stabile? Avrebbe compianto la scomparsa della cara estinta o si sarebbe sentita disturbata solo perché la sua vita sarebbe diventata più difficile?

C’è davvero qualcosa che non va in me?

Decise di scoprirlo. Aveva seguito abbastanza corsi di scienza da capire la regola di base: ogni teoria andava testata per poter essere validata o smentita. Ma com’era meglio procedere?

Sentì bussare alla porta e Kat fece capolino con la testa dalla soglia.

“Che combini?” le chiese con tono informale.

“Oh, sto solo controllando i requisiti per i corsi quest’estate, così da non avere sorprese quando inizio scuola la prossima settimana,” mentì.

“Ok,” disse Kat, apparentemente soddisfatta. “Devo uscire per un caso. Sei a posto qui da sola per un po’?”

“Nessun problema. Probabilmente mi guarderò un po’ di TV. Oppure darò un occhio a cosa c’è di infiammabile nel tuo appartamento.”

Kat mandò giù qualsiasi commento le fosse passato per la testa.

“Mi pare bene,” si limitò a rispondere. “Ci vediamo dopo.”

Kat richiuse la porta, lasciandola con i suoi pensieri.

È stato facile.

Aveva mentito con facilità e senza il minimo problema.

È normale?

Decise quindi che sarebbe stata necessaria qualche sperimentazione più formale. Prima di poter determinare se i suoi limiti fossero normali, doveva scoprire quali fossero tali limiti.

Chissà se mi diranno che sono brava.

*

Jessie era in attesa.

Stava seduta nella sua auto da dieci minuti davanti alla pittoresca casa a un piano in stile anni Cinquanta dove aveva vissuto Garland Moses. Alla fine, con riluttanza, smontò dall’auto e andò alla porta. Erano giorni che stava evitando questa incombenza.

Garland Moses, il suo mentore e amico, che era stato assassinato dal suo ex-marito assetato di vendetta, aveva solo una parente in vita. Sua nipote era una donna mediamente piacevole che Jessie aveva conosciuto al suo funerale. Ma lei e Garland non erano stati in contatto e la giovane era venuta a Los Angeles solo per dargli il suo ultimo saluto.

Non era interessata a fare la cernita dei suoi effetti personali o a gestire l’immobile. Quindi aveva chiesto a Jessie di farlo, perché sapeva che gli era stata amica. Jessie aveva accettato senza entusiasmo e più per senso di dovere nei confronti dell’uomo che le aveva insegnato come diventare una profiler criminale e un essere umano in gamba.

Ma mentre stava all’ingresso della casa, preparandosi ad eseguire le elaborate misure di sicurezza per poter entrare, provò un forte impulso a mollare tutto. L’ultima cosa che voleva fare dopo aver fatto visita al suo compagno infermo e con potenziali danni cerebrali era di mettersi a rovistare tra le cose personali di un uomo che sostanzialmente era morto perché la conosceva.

Basta storie. Ti sei presa un impegno. Mantienilo.

Scuotendo la testa frustrata, Jessie salì i gradini portandosi davanti alla porta della piccola ma ordinata casa di Garland. Dopodiché seguì le dettagliate istruzioni che l’avvocato le aveva dato prima della sua visita lì.

Digitò un codice di sei cifre sul tastierino accanto al campanello. Un coperchio metallico si sollevò, mostrando un piccolo dispositivo di scansione. Jessie si chinò leggermente in avanti e lo strumento scansionò i suoi occhi. Poi posò la mano su una lastra di vetro sotto allo scanner e aspettò che le leggesse le impronte digitali. Dopodiché sussurrò le parole ‘Caffetteria Nickel Diner’ in un microfono. A quel punto, la serratura della porta scattò.

Jessie entrò e si guardò attorno. Aveva discusso con l’avvocato di Garland e avevano concordato che la casa sarebbe stata venduta secondo il valore di mercato. L’arredamento sarebbe stato donato a diverse associazioni benefiche della zona.

Doveva solo dare un’occhiata alle sue carte e agli oggetti personali. Era comunque un compito sconsolante. L’ultima volta che era venuta qui, una settimana fa, aveva scoperto che Garland aveva tenuto un registro di tutti i casi che aveva gestito, sia all’FBI che più tardi come consulente al Dipartimento di Polizia di Los Angeles. C’erano un sacco di scatoloni, con documenti che per la maggiore non erano stati convertiti in file digitali.

C’era qualche eccezione. Nella sua cassaforte c’erano delle chiavette con materiale su una ventina abbondante di casi irrisolti, casi che sicuramente ancora lo turbavano. C’era però solo un caso per cui tutto il materiale, sia cartaceo che digitale, era conservato all’interno di una cassetta di sicurezza dentro alla cassaforte. Era il caso del Cacciatore della Notte.

Jessie lo conosceva bene. Il caso veniva insegnato all’FBI e ovunque nei dipartimenti di polizia. Il Cacciatore della Notte era un noto serial killer che aveva ucciso e smembrato oltre cinquanta persone lungo la East Coast negli anni Novanta, prima che Garland gli mettesse i bastoni tra le ruote. Purtroppo il Cacciatore della Notte aveva avuto la meglio, catturando e torturando Garland per due giorni, prima che il profiler fosse capace di liberarsi e usare il machete stesso dell’assassino contro di lui. L’uomo però era poi scappato scomparendo nella notte.

Dato che la sua identità non era mai stata determinata e non c’erano stati altri omicidi dopo quella volta che potessero essere collegati al modus operandi del Cacciatore della Notte, la maggior parte della gente riteneva che fosse morto per le ferite. Ma chiaramente Garland non la pensava allo stesso modo. Non aveva mai parlato a Jessie del caso, ma i suoi ultimi appunti al riguardo risalivano ad appena tre mesi prima, suggerendo la sua convinzione che l’uomo fosse ancora in circolazione. Jessie decise che non avrebbe gettato via quel materiale.

Si sedette alla scrivania di Garland, immaginando quante volte doveva essersi messo comodo anche lui sulla sua poltrona di pelle per lavorare a un caso. Improvvisamente si sentì travolta da un’inaspettata ondata di emozione.

Dopo il funerale, aveva frenato il più possibile i pensieri di Garland quando tentavano di fare capolino nella sua mente. Le procuravano troppo dolore. Il padre naturale di Jessie era stato un serial killer che era scomparso dopo aver assassinato sua madre quando lei aveva sei anni. I suoi genitori adottivi erano stati uccisi dallo stesso padre serial killer solo pochi anni fa. E ora anche la persona per lei più vicina a una figura paterna era scomparsa, sempre per mano di qualcuno di cui lei avrebbe dovuto potersi fidare.

Cacciò i pensieri e i ricordi di come Garland aveva lasciato questo mondo e si concentrò su come vi aveva vissuto. Un profilo in un giornale aveva calcolato che Garland Moses aveva catturato 1.200 assassini nella sua carriera, inclusi più di cento serial killer. E questo solo sulla base di quanto riportavano i registri pubblici.

Ma la sua vita non era stata definita esclusivamente dai casi che aveva risolto. Jessie era più propensa a ricordare altri momenti meno celebri. I suoi pensieri divagarono alle colazioni insieme a lui al Nickel Diner – l’origine della password per aprire la porta di casa sua – a pochi isolati dalla centrale di polizia dove entrambi lavoravano.

Ricordò come Garland fosse stato capace di far sorridere Hannah, indipendentemente da quanto lei sembrasse di cattivo umore. Era un uomo che proiettava l’idea di essere rude e distaccato, ma sia lei che Hannah aveva capito che si trattava di una facciata che usava per nascondere un’identità incredibilmente dolce. Jessie mise insieme una miriade di ricordi di tutte le volte che l’aveva sostenuta, esprimendo fiducia nelle sue capacità, anche quando lei stessa ne dubitava.

 

Sentendo le lacrime che le salivano agli occhi, Jessie allungò una mano per prendere un fazzoletto dalla scatola sopra alla scrivania. Mentre si tamponava gli occhi, scorse una cosa che era sfuggita alla sua attenzione l’ultima volta che era stata lì. Era un piccolo fermacarte di metallo a forma di tazza. Sopra c’era una piccola iscrizione. Jessie prese in mano l’oggetto e lo ruotò sotto alla luce per leggere meglio la scritta. Le parole le erano familiari, ma non si sarebbe mai aspettata di trovarle sulla scrivania di un uomo così materiale come sembrava essere Garland Moses. Dicevano:

Chiunque uccida una vita, uccide il mondo intero, e chiunque salvi una vita, salva il mondo intero.

Jessie fissò l’iscrizione a lungo. Anche se non l’aveva mai detto a voce alta, era chiaro che, nel suo modo burbero e senza tante pretese, quella era stata la sua massima. L’aveva sempre seguita, anche se non l’aveva mai declamata a voce alta. Jessie si chiese cosa avrebbe pensato di lei che cancellava il messaggio vocale del capitano Decker. Avrebbe scosso la testa leggermente deluso? Cos’avrebbe detto Ryan se avesse potuto parlare?

Prima di capire ciò che stava facendo, Jessie aveva già preso il suo telefono e stava componendo il numero di Decker.

CAPITOLO CINQUE

Jessie vide subito che la gente era stupita di vederla.

Mentre attraversava la sala principale della centrale, diretta verso l’ufficio di Decker, le parve di scorgere anche qualche occhiataccia. Finse di non accorgersene.

Quando aveva lasciato il dipartimento, era stata scagionata dall’accusa di aver postato dei commenti razzisti su Facebook. Le prove mostravano che il suo account, che usava di rado, era stato hackerato. Ma alcuni degli ex-colleghi chiaramente avevano ancora dei dubbi. Jessie sospettava che fosse questo il motivo dei loro sguardi torvi. Ma la maggior parte delle persone sembravano semplicemente scioccate di vederla lì dopo soli tre giorni che aveva dato le dimissioni dal Dipartimento di Polizia di Los Angeles.

Bussò alla porta di Decker, che era già leggermente aperta, e aspettò una risposta. Nonostante avesse deciso di non farlo, si voltò a guardare l’area di lavoro della Sezione Speciale Omicidi. Era attualmente vuota, il che suggeriva che tutti erano attualmente fuori per lavorare sul caso. La sua vecchia scrivania era spoglia. Di fronte c’era quella di Ryan, dove ancora erano appoggiate delle carte, come se le avesse lasciate lì per fare una pausa caffè e dovesse tornare al lavoro da un momento all’altro.

“Avanti,” la chiamò una voce familiare.

Jessie entrò nell’ufficio e chiuse la porta alle sue spalle. C’erano due persone nella stanza. Il capitano Roy Decker era in piedi dietro alla sua scrivania. Sembrava in qualche modo più vecchio di quando l’aveva visto venerdì: alto e magro, il petto incavato che sembrava ripiegarsi su se stesso. Aveva sessant’anni, ma le profonde rughe sul suo volto lo facevano sembrare più vicino ai settanta. Sulla testa aveva pochi ciuffi di ribelli capelli grigi.

Nonostante tutto questo, era ancora in qualche modo impressionante. Indossava un completo di giacca e pantaloni perfettamente inamidato, con la cravatta al collo, come se fosse pronto per entrare nella sala riunioni di un’azienda di Fortune 500. Le narici del suo naso aquilino vibravano leggermente, come un segugio in continua caccia di prove. E i suoi freddi occhi da falco erano fissi su di lei.

“Felice di vederti, Hunt,” le disse. “Grazie per essere venuta. So che il nostro Trembley qui ne è stato felice quando gliel’ho detto.”

Jessie si voltò verso il detective Alan Trembley, che si stava alzando dal logoro divano addossato alla parete. Anche se entrambi avevano iniziato a lavorare alla centrale più o meno nello stesso periodo, due anni prima, Jessie non poteva fare a meno di pensare sempre a lui come a una matricola. Forse era solo perché sembrava decisamente privo di esperienza rispetto a Ryan. O forse perché aveva quell’aspetto da bambino con un corpo da uomo.

Trembley aveva ventinove anni, solo uno meno di lei, ma sembrava un ragazzino del college. Aveva disordinati capelli biondi e ricci, gli occhiali perennemente sporchi e una giacca che sembrava più grande di due taglie, come se l’avesse presa in prestito dal papà. Alzandosi in piedi, quasi inciampò goffamente sui suoi stessi mocassini consumati.

“Ciao Jessie,” le disse con un sorriso timido. “Sono contento che ci aiuti.”

“Come va, Trembley?” gli chiese.

“Oh, beh, da matti come al solito.”

“Giusto,” commentò, riportando poi l’attenzione su Decker. “Allora, prima che entriamo nei dettagli, voglio solo essere chiara. Sono venuta a sentire cos’avete da dire. Non sto ancora prendendo nessun impegno. Giusto perché siamo tutti sulla stessa linea.”

Decker annuì.

“Non te l’avrei proprio chiesto, ma siamo davvero in difficoltà. Tutta l’unità HSS, eccetto Trembley, è già impegnata in altri casi. Il detective Reid sta lavorando a due corpi trovati al Parco Statale di Los Angeles. Pare che siano stati tagliati in pezzetti che poi sono stati sepolti in tutta l’area. Roba divertente, insomma.”

Jessie non disse niente. Aveva la netta sensazione che non fosse finita lì, e aveva ragione.

“Il detective Pointer sta gestendo una serie di furiosi omicidi a L.A. Live,” continuò. “Con Hernandez fuori uso, abbiamo addirittura chiamato Parker da Vice perché ci dia una mano. E con la morte di Moses e le tue dimissioni, abbiamo fatto richiesta per avere un profiler da un’altra divisione, ma non abbiamo ancora avuto riscontro. Ma ad essere sincero, dopo aver avuto a disposizione te e Moses, non sono entusiasta all’idea di accaparrarmi la squadra B.”

“Chiaro,” rispose Jessie, rifiutandosi di lasciarsi indurre a fare promesse. “Allora, qual è il caso?”

“Ti do la versione breve,” rispose Decker. “Questo perché, anche se sulla scena c’è già un team di detective della centrale di Hollywood, ci hanno richiesto l’intervento dell’HSS.”

“Ci hanno richiesto?” ripeté Jessie incredula. “Pensavo che fosse lei a decidere quali casi debbano essere gestiti dalla Sezione Speciale Omicidi.”

“Avrei preso questo caso anche se non ce l’avessero chiesto,” le assicurò. “Ecco il motivo: la vittima è l’attrice Corinne Weatherly. Hai presente?”

Jessie ci pensò su.

“So chi sia, ma non posso dire di essere esperta del suo lavoro. Magari conosco uno o due film.”

“Trembley può aggiornarti mentre andate sul posto, sempre ammesso che tu accetti l’incarico. Ma pare che sia stata uccisa – strangolata – ai Sovereign Studios a qualche ora ieri sera, dopo aver terminato le riprese della giornata sul set del suo ultimo film. Il corpo è stato trovato solo questa mattina. Le indicazioni iniziali dicono che è stata uccisa nella sua roulotte e poi spostata nel magazzino degli oggetti di scena. A quanto pare, quando l’artista del moulage l’ha trovata, all’inizio non ha neanche pensato che fosse vero. La Weatherly stava girando un film horror e il loro reparto è piano di cadaveri finti. Puoi immaginarti il colpo che si è preso quando si è reso conto che il corpo era vero, e morto.”

“Cos’è un artista del moulage?” chiese Jessie.

Trembley si intromise.

“È una persona che si occupa di trucco ed effetti speciali. Quello che ricrea ferite e sangue facendoli apparire realistici.”

“Ok”, disse Jessie rabbrividendo. “Abbastanza disgustoso direi.”

Trembley parve sorpreso dalla sua risposta.

“Difficile credere che una profiler criminale che ha a che vedere continuamente con brutalità reali sia così schifata da qualcuno che crea ferite finte,” commentò.

“Touché, Trembley,” gli rispose.

“Ad ogni modo,” li interruppe Decker con impazienza, “i dirigenti dello studio stanno facendo un casino. Stanno già trapelando notizie sull’identità della vittima e loro vogliono poter dire pubblicamente che l’unità più specializzata del Dipartimento di Polizia di Los Angeles si prenderà carico del caso. Non è irragionevole, ma se non entriamo nel caso con la gente migliore che abbiamo, la cosa si rifletterà negativamente sulla centrale e su di me. Senza offesa per Trembley, ma Ryan Hernandez è il primo detective della squadra, e senza Moses tu sei ovviamente la migliore profiler che abbiamo.”

“Avevamo,” lo corresse Jessie.

“Avevamo,” le concesse. “Quindi, se non ho Hernandez, ho bisogno almeno di te. È un caso di profilo troppo alto per affidarlo a gente di serie B.”

A Jessie non piaceva l’implicazione.

“Quindi, se la vittima fosse stata un commesso a caso in un supermercato di Hollywood, degli investigatori di, come ha detto, ‘serie B’, sarebbero andati bene?”

“Non mettermi in difficoltà, Hunt. Se si fosse trattato di un commesso di supermercato, non ci avrebbero neanche mai chiamati. Sai di cosa si occupa l’HSS. Questa è la nostra specialità. Allora, sei disposta ad aiutarci?”

Decker aveva iniziato la frase con tono permaloso, ma quando la concluse la sua voce era quasi implorante. Da quello che Jessie poteva ricordare, era la prima volta che lo sentiva parlare così. Non poté fare a meno di provare una certa comprensione. In quel momento, nonostante tutti i campanelli dall’arme che stavano suonando nella sua testa mettendola in guardia di non farlo, capì che doveva dire di sì.

“Se accetto,” iniziò, “sarebbe solo un incarico una tantum, in qualità di consulente, come faceva Garland. Non sono una dipendente del Dipartimento di Los Angeles, e non ci sono aspettative che io continui dopo questo caso, d’accordo?”

“D’accordo,” disse Decker immediatamente.

“Ho dei colloqui come insegnante con diverse università la prossima settimana. Non intendo perderle, che la cosa sia risolta o meno. Non intendo sovvertire la mia vita per questa cosa, capitano. È il primo motivo per cui me ne sono andata. Siamo intesi?”

“Chiaro e limpido,” le disse, le labbra che iniziavano a incurvarsi in un sorriso.

“E Trembley qui deve stare al passo,” aggiunse. “Nessuna titubanza da ingenuotto.”

Il detective si fece serio in volto, ma non disse nulla.

“Questo non posso prometterlo,” ammise Decker nervosamente.

“Io sì,” intervenne Trembley, riprendendosi prontamente.

Jessie lo guardò: era entusiasta, quasi saltellava molleggiando sulle punte dei piedi. In quel momento le parve come l’epitomo dell’ingenuità.

“Andiamo,” disse sospirando. “Guidi tu.”