Il Sussurratore delle Catene

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Il Sussurratore delle Catene
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Il Sussurratore delle Catene
Il Sussurratore delle Catene
Audiobook
Czyta Caterina Bonanni
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Capitolo 3

Riley esitò per un momento, all’atto di entrare nell’edificio del BAU, chiedendosi se fosse davvero pronta ad affrontare tutti quel giorno.

Non aveva chiuso occhio la notte precedente, ed era davvero stanca. La sensazione di terrore che l’aveva tenuta sveglia per tutta la notte aveva assorbito totalmente l’adrenalina, finché non ne era rimasta priva. Ora, si sentiva proprio svuotata.

Riley fece un respiro profondo.

E’ la sola via d’uscita.

Raccolse le idee ed entrò nell’affollato labirinto, popolato da agenti dell’FBI, da specialisti scientifici e dal personale di supporto.

Mentre attraversava la zona delle postazioni di lavoro, tutti sollevarono lo sguardo dal computer. Molti le sorrisero, e non pochi le mostrarono il pollice alto.

Riley iniziò lentamente a sentirsi contenta di aver deciso di andare lì. Aveva bisogno di tirarsi su il morale.

“Ben fatto con il Killer delle Bambole” un giovane agente esclamò.

A Riley occorsero un paio di secondi per comprendere che cosa intendesse. Poi, comprese che il “Killer delle Bambole” doveva essere il nuovo soprannome di Dirk Monroe, lo psicopatico che aveva appena catturato. Il soprannome aveva senso.

Riley notò anche un’espressione più dubbiosa sui volti di alcuni dei colleghi, che la guardavano. Senza dubbio, avevano saputo dell’incidente a casa sua, la notte scorsa, quando un’intera squadra si era precipitata sul posto, dopo che lei aveva dato l’allarme.

Probabilmente si chiedono se sono in me, pensò. Per quanto ne sapesse, nessun altro al Bureau credeva che Peterson fosse ancora vivo.

Riley si fermò davanti alla scrivania di Sam Flores, un tecnico di laboratorio con un paio di occhiali con montatura scura, impegnato al computer.

“Che notizie hai per me, Sam?” Riley chiese.

Sam alzò gli occhi dallo schermo, guardandola.

“Intendi sull’intrusione in casa tua, giusto? Ecco, proprio ora sto esaminando alcuni rapporti preliminari. Temo che non ci sia molto. I tecnici del laboratorio non hanno trovato niente sui ciottoli — niente DNA o fibre. Nemmeno impronte digitali.”

Riley sospirò, scoraggiata.

“Fammi sapere se cambia qualcosa” replicò, dando un colpetto sulla spalla di Flores.

“Non ci conterei” Flores ribatté.

Riley proseguì nell’area, condivisa da alcuni agenti anziani. Passando davanti ai piccoli uffici, con pareti in vetro, notò che Bill non c’era. Ne fu sollevata ma sapeva bene che il confronto era solo rimandato: presto o tardi avrebbero dovuto chiarire.

Giunta nel suo ufficio, ordinato e ben organizzato, Riley trovò un messaggio telefonico di Mike Nevins, lo psichiatra forense di Washington D.C., che talvolta aveva consultato per i casi del BAU.

Negli anni si era affidata a lui, che considerava un’importante risorsa non solo dal punto di vista lavorativo. Mike, infatti, l’aveva aiutata, quando aveva sofferto della Sindrome Post Traumatica da Stress, dopo che Peterson l’aveva catturata e torturata. Ora certamente l’aveva chiamata per chiederle del suo stato psicologico, come faceva sempre.

Stava per richiamarlo, quando la grande sagoma dell’Agente Speciale Brent Meredith comparve sulla porta. I lineamenti neri e spigolosi del comandante dell’unità lasciavano intuire la sua personalità dura e pratica. Riley si sentì sollevata al solo vederlo. Era sempre stata rassicurata dalla sua presenza.

“Bentornata, Agente Paige” le disse.

Riley si alzò per stringergli la mano. “Grazie, Agente Meredith.”

“Ho sentito che hai avuto un’altra piccola avventura la scorsa notte. Spero che tu stia bene.”

“Sto bene, grazie.”

Meredith la guardò sinceramente preoccupato, e la donna comprese che stava cercando di valutare se fosse pronta a tornare in pista.

“Vuoi unirti a me per un caffè?” le chiese.

“Grazie, ma ci sono dei file che devo davvero controllare. Sarà per un’altra volta.”

Meredith annuì semplicemente. Riley sapeva che stava aspettando che lei dicesse qualcosa. Senza dubbio, aveva anche sentito del fatto che lei credeva che Peterson si era introdotto in casa sua. Le stava dando la possibilità di dargli la sua opinione. Ma la donna era sicura che anche Meredith, come tutti gli altri, non sarebbe stato disposto ad accettare la sua idea riguardo a Peterson.

“Bene, farei meglio ad andare” lui disse. “Fammi sapere se sei libera per un caffè o a pranzo.”

“D’accordo.”

Meredith si fermò e tornò a guardare Riley.

Lentamente e attentamente, le disse: “Fai attenzione, Agente Paige.”

Riley lesse molti significati in quelle parole. Non molto tempo prima, un altro superiore l’aveva sospesa per insubordinazione. Era stata reintegrata, ma la sua posizione poteva ancora essere incerta. Riley sentiva che Meredith le stava dando un avvertimento amichevole. Non voleva che facesse qualcosa per mettersi in pericolo. E sollevare un polverone per Peterson avrebbe potuto causarle dei problemi con quelli che avevano dichiarato il caso chiuso.

Rimasta sola, Riley tornò alla sua postazione al computer, ed aprì sulla scrivania la corposa cartella sul caso Peterson. Cominciò a scorrerla per rinfrescarsi la memoria sul suo nemico ma non trovò informazioni utili.

La verità era che quell’uomo restava un enigma. Non c’erano stati rapporti neppure sulla sua esistenza, finché Bill e Riley lo avevano finalmente rintracciato. Peterson poteva anche non essere il suo vero nome e ipotizzavano che potesse avere diverse altre identità.

Scorrendo i fogli, Riley trovò fotografie delle sue vittime: erano tutte donne che erano state trovate in buche poco profonde, segnate da cicatrici da bruciature e morte per strangolamento manuale. Riley rabbrividì al ricordo delle grandi e forti mani, che l’avevano afferrata e messa in gabbia, proprio come un animale.

Nessuno sapeva quante donne lui avesse ucciso; era possibile che molti cadaveri non fossero stati ritrovati. E, prima che Marie e Riley fossero sopravvissute alla cattura per raccontarlo, nessuno sapeva quanto il killer si divertisse a tormentare le donne al buio con una torcia al propano.

Ma nessuno voleva credere che Peterson fosse ancora vivo.

Questa storia la stava demoralizzando. Riley era nota per la sua capacità di entrare nelle menti dei killer, una capacità che talvolta la spaventava. Nonostante la sua dote, non era mai riuscita ad entrare nella mente di Peterson.

In quei giorni sentiva di comprenderlo ancora di meno.

Non lo aveva mai considerato uno psicopatico organizzato. Il fatto che lasciasse le sue vittime in buche poco profonde suggeriva proprio l’opposto. Non era un perfezionista ma era abbastanza meticoloso da non lasciare tracce. Quell’uomo era davvero paradossale.

Ricordò qualcosa che Marie le aveva detto poco prima di suicidarsi …

“Forse, è come un fantasma, Riley. Forse è questo che è successo quando l'hai fatto esplodere. Hai ucciso il suo corpo, ma non hai eliminato il suo male.”

Lui non era un fantasma e Riley lo sapeva. Era certa — più che mai — che fosse là fuori e di essere il suo prossimo bersaglio. Ma, per quanto ne sapesse, poteva benissimo essere un fantasma. A parte lei, nessun altro credeva che esistesse.

“Dove sei, bastardo?” sussurrò ad alta voce.

Non lo sapeva, e non sapeva neppure come fare a scoprirlo. Era completamente ostacolata. Non aveva altra scelta che lasciar perdere per ora. Chiuse il fascicolo e lo rimise al proprio posto, nel suo archivio.

Poi, il telefono del suo ufficio squillò. Vide che la chiamata veniva da una linea condivisa da tutti gli agenti speciali. Era la linea che il telefono del BAU utilizzava per inoltrare chiamate agli agenti. Stando al regolamento, qualsiasi agente prendesse per primo la chiamata avrebbe preso il caso.

Riley si guardò intorno, dando un’occhiata agli altri uffici. Nessun altro sembrava essere presente al momento. Gli altri erano tutti in pausa o fuori a lavorare su altri casi. Riley rispose al telefono.

“Agente Speciale Riley Paige. Come posso aiutarla?”

La voce in linea sembrò infastidita.

“Agente Paige, sono Raymond Alford, Capo della Polizia di Reedsport, New York. Abbiamo un vero problema qui. Le andrebbe bene fare una video chat? Penso che forse potrei spiegarmi meglio. E ho delle immagini che farebbe meglio a vedere.”

Riley ne fu incuriosita e rispose: “Certamente”. Diede ad Alford le informazioni necessarie per contattarla. Pochi secondi dopo, parlava faccia a faccia con lui. Era un uomo snello e stempiato, che sembrava avere già una certa età. In quel momento, la sua espressione era ansiosa e stanca.

“La scorsa notte, qui c’è stato un omicidio” Alford le disse. “Davvero un brutto omicidio. Le mostro subito.”

Apparve una fotografia sullo schermo del computer di Riley. Mostrava quello che sembrava essere il corpo di una donna appeso con una catena sopra dei binari ferroviari. Il cadavere era avvolto in una moltitudine di catene, e sembrava essere abbigliato in modo strano.

“Che cosa indossa la vittima?” Riley chiese.

“Una camicia di forza” Alford le rispose.

Riley era scioccata. Guardando più attentamente la fotografia, vide che era vero. Poi, la fotografia sparì, e Riley si trovò di nuovo di fronte il viso di Alford.

“Capo Alford, apprezzo la sua preoccupazione. Ma che cosa le fa pensare che questo sia un caso per l’Unità d’Analisi Comportamentale?”

“Perché la stessa cosa è avvenuta quasi cinque anni fa” l’uomo rispose.

Apparve allora un’immagine di un altro cadavere femminile. Anche questa vittima era completamente incatenata e indossava una camicia di forza.

 

“Allora si trattava di un’impiegata part-time della prigione, Marla Blainey. Il modus operandi è identico, tranne per il fatto che lei fu gettata sulla sponda del fiume, non appesa.”

Riapparve il volto di Alford.

“Stavolta, invece, si tratta di Rosemary Pickens, un’infermiera locale” la informò. “Nessuno riesce ad immaginare un movente, per nessuna delle donne. Erano entrambe benvolute.”

Alford fece un profondo respiro e scosse la testa.

“Agente Paige, io e i miei uomini siamo davvero in alto mare qui. Questo nuovo omicidio è opera di un serial killer o siamo di fronte ad un’emulazione.

Il problema è che nessuno delle due opzioni ha senso. Non abbiamo questo tipo di problema a Reedsport.

Siamo solo una piccola cittadina turistica sull’Hudson, con una popolazione di circa settemila abitanti. A volte, dobbiamo risolvere una rissa o tirare un turista fuori dal fiume. E questo il massimo è del crimine che in genere affrontiamo qui.”

Riley ci pensò. In realtà, questo sembrava proprio un caso per il BAU e forse Alford si sarebbe dovuto rivolgere direttamente a Meredith.

Ma, guardando in direzione dell’ufficio di Meredith, vide che non era ancora ritornato. Lo avrebbe aggiornato dopo. Nel frattempo, forse poteva essere di aiuto.

“Quali sono le cause della morte?” lei chiese.

“Gola squarciata, per entrambe.”

Riley provò a non mostrarsi sorpresa. Uno strangolamento o un colpo secco erano molto più comuni dello squarcio.

Questo sembrava un killer davvero insolito. Ma, nonostante tutto, era il tipo di psicopatico che Riley conosceva bene. Era specializzata in casi del genere. Era un peccato che non riuscisse a sfruttare le sue capacità ma, alla luce del suo recente trauma, non intendeva accettare questo incarico.

“Avete portato via il corpo?” Riley chiese.

“Non ancora” Alford disse. “E’ ancora appeso lì.”

“Allora non prendetelo. Lasciatelo lì per ora. Aspettate l’arrivo dei nostri agenti.”

Alford non sembrò contento.

“Agente Paige, questo sarà difficile. E’ proprio vicino ai binari ferroviari, ed è visibile dal fiume. E la città non ha bisogno di questo tipo di pubblicità. Sono sottoposto a molta pressione.”

“Lo lasci” Riley disse. “So che non è facile, ma è importante. Non ci vorrà molto. Questo pomeriggio arriveranno gli agenti.”

Alford annuì silenziosamente.

“Ha delle altre fotografie dell’ultima vittima?” Riley chiese. “Qualche primo piano?”

“Certo, glieli mostro subito.”

Riley si ritrovò a guardare una serie di foto dettagliate del cadavere. I poliziotti locali avevano fatto un buon lavoro. Le foto mostravano quanto le catene fossero strette ed avvolte in modo elaborato intorno al cadavere.

Infine, giunse un primo piano del volto della vittima.

Per Riley fu come se il cuore le uscisse fuori dalla gola. Gli occhi della vittima sporgevano, e la bocca era chiusa con una catena. Ma non fu quello a scioccare Riley.

La donna somigliava molto a Marie. Era più vecchia e più pesante, ma, a parte questo, Marie avrebbe finito con l’assomigliarle molto se avesse vissuto per un altro decennio circa.

Per Riley quell’immagine fu come ricevere un colpo al basso ventre. Fu come se Marie l’avesse chiamata, chiedendole di prendere il killer.

Immediatamente seppe che doveva prendere questo caso.

Capitolo 4

Peterson guidava la sua auto, ad un’andatura normale, felice di essere riuscito ad individuare la ragazza. Finalmente, l’aveva trovata. La figlia di Riley era lì e camminava da sola verso la scuola, senza neppure immaginare di essere seguita e di stare per morire.

Mentre la guardava, la vide fermarsi improvvisamente e voltarsi, come se sospettasse di essere osservata. La ragazza restò ferma lì, come indecisa. Qualche altro studente le passò davanti, entrando nella scuola.

Peterson continuò a guidare, aspettando di vedere la prossima mossa della giovane.

Non che a lui importasse di lei in modo particolare.

Il vero bersaglio della sua vendetta era Riley, la donna che aveva rovinato tutto e doveva pagare. Lo aveva già fatto, in un certo senso; in fondo lui aveva spinto Marie Sayles al suicidio. Ma ora, doveva portarle via la ragazza, che era la persona che contava di più per la donna.

La ragazza, con sua grande gioia, cominciò a tornare indietro e ad allontanarsi dalla scuola. Sembrava che avesse deciso di non andarci quel giorno.

Il cuore dell’uomo batteva forte, voleva catturarla. Ma non poteva. Doveva sforzarsi di essere paziente. C’erano ancora altre persone in giro.

Peterson proseguì e girò intorno all’isolato, forzandosi a pazientare, mentre a stento tratteneva il sorriso, pregustando la gioia dell’azione. Quello che aveva in mente per la figlia avrebbe fatto soffrire Riley in un modo che non pensava possibile. Inoltre, per quanto allampanata e goffa, la ragazza assomigliava molto a sua madre e questo gli avrebbe dato ancora più soddisfazione.

Mentre girava intorno all’isolato, vide che la ragazza stava camminando a passo svelto lungo la strada. Si fermò e rimase ad osservarla per alcuni minuti; infine la vide incamminarsi per una strada, che conduceva fuori città. Se fosse tornata a casa da sola, quello sarebbe stato il momento perfetto per rapirla.

Col cuore che batteva forte, pregustando il piacere della vendetta, Peterson girò intorno ad un altro isolato con la sua auto.

Bisognava saper rinviare certi piaceri, Peterson lo sapeva, per cogliere il momento giusto. Una gratificazione rinviata rendeva tutto più piacevole. Lo aveva imparato in anni di crudeltà perpetrata per il suo piacere.

Vale davvero la pena di aspettare, pensò con soddisfazione.

Quando tornò indietro e la vide di nuovo, Peterson scoppiò in una sonora risata. Stava facendo l’autostop! Dio era con lui quel giorno. Senza dubbio era destinato a prendersi la vita di quella ragazza.

Accostò l’auto a lei, e le sorrise nel modo più piacevole possibile.

“Vuoi un passaggio?”

La ragazza contraccambiò con un grosso sorriso. “Grazie. Sarebbe grandioso.”

“Dove sei diretta?” domandò.

“Vivo poco dopo fuori città” e gli diede l’indirizzo.

L’uomo rispose: “Sto andando proprio da quelle parti. Salta su.”

La ragazza salì accanto a lui. Con sua grande gioia, Peterson si accorse del fatto che aveva persino gli occhi nocciola della madre.

Peterson premette i bottoni per la chiusura di sportelli e finestrini. Al tranquillo rimbombo dell’aria condizionata, la ragazza non ci fece neanche caso.

*

April sentì una piacevole scarica di adrenalina, mentre allacciava la cintura di sicurezza. Non aveva mai fatto l’autostop prima d’ora. La madre sarebbe andata su tutte le furie, se lo avesse scoperto.

Naturalmente, April si diceva che sarebbe stata una buona lezione per la madre.

Era stato davvero un gesto scorretto averla mandata a dormire dal padre la sera precedente — e tutto a causa di quella sua folle idea, secondo cui Peterson era stato in casa loro. Non era vero, ed April lo sapeva. I due agenti che l’avevano accompagnata a casa del padre avevano detto così. Da quello che si erano detti tra loro, sembrava che l’intera agenzia fosse convinta che la madre fosse un po’ fuori di testa.

L’uomo disse: “Allora, che cosa ti porta a Fredericksburg?”

April si voltò a guardarlo. Aveva un aspetto gradevole, una grande mascella con la barba corta e capelli poco curati. Stava sorridendo.

“La scuola” fu la risposta di April.

“Lezioni estive?” l’uomo domandò.

“Sì” April rispose. Certo non gli avrebbe rivelato la sua decisione di saltare la scuola. Non che sembrasse il tipo di persona pronta a scandalizzarsi, anzi: sembrava piuttosto simpatico. Forse le avrebbe persino dato una mano a sfidare l’autorità genitoriale. Ma era meglio non tentare la sorte.

Il sorriso dell’uomo divenne un po’ malizioso.

“E dimmi, che cosa ne pensa tua madre dell’autostop?” le chiese.

April arrossì, imbarazzata.

“Oh, non è un problema per lei” la ragazza rispose.

L’uomo sogghignò. Non fu un suono molto piacevole. E qualcosa scattò nella mente di April. Le aveva chiesto che cosa ne pensasse la madre, non quello che ne pensavano i genitori. Che cosa lo aveva indotto a dire così?

C’era molto traffico, a quell’ora del mattino nelle vicinanze della scuola e ci sarebbe voluto un po’ per arrivare a casa. April sperava che l’uomo non avrebbe continuato quella conversazione. Quello sarebbe potuto essere davvero strano.

Ma, dopo un paio di isolati superati in silenzio, April si sentì ancora più a disagio. L’uomo aveva smesso di sorridere, e la sua espressione le sembrava piuttosto severa. Notò che tutti gli sportelli erano chiusi. Provò a premere di nascosto il pulsante del finestrino dal lato passeggero ma non successe nulla.

L’auto si fermò dietro in coda, in attesa che il semaforo diventasse verde. L’uomo attivò la freccia a sinistra. April fu assalita da un’ansia improvvisa.

“Um … dobbiamo proseguire dritto qui” lei disse.

L’uomo non disse niente. Forse non l’aveva sentita?

Per qualche strana ragione, non riusciva a trovare la forza di ripeterlo. E, dopo tutto, forse pensava di prendere una strada diversa.

Ma no, non riusciva neppure ad immaginare come potesse riportarla a casa, andando in quella direzione.

April si chiese che cosa fare. Doveva gridare aiuto? Qualcuno l’avrebbe sentita? E l’uomo non aveva sentito quello che lei aveva detto? Non significava che volesse farle del male dopotutto? Tutto sarebbe stato orribilmente imbarazzante.

Poi, la giovane vide una sagoma familiare percorrere il marciapiede, con lo zaino in spalla. Era Brian, il suo, per così dire, ragazzo di quei giorni. Picchiò forte sul finestrino.

Fu sollevata, quando Brian si guardò intorno e la vide.

“Vuoi un passaggio?” mimò con le labbra a Brian.

Brian fece un largo sorriso e annuì.

“Oh, è il mio ragazzo” April disse. “Possiamo fermarci e dargli un passaggio, per favore? Comunque, deve fare la stessa strada che porta a casa mia.”

Era una bugia. April non aveva proprio idea di dove fosse diretto Brian. L’uomo aggrottò le sopracciglia e grugnì. Non era affatto contento di ciò. Si sarebbe fermato? Il cuore di April batteva forte.

Brian stava parlando al cellulare, fermo sul marciapiede ad attendere. Ma stava guardando verso l’auto ed April era sicura che da lì potesse vedere il guidatore molto chiaramente. Fu contenta di avere un potenziale testimone, nel caso in cui l’uomo avesse qualcosa di brutto in mente.

L’uomo studiò Brian; lo vide parlare al cellulare e poi guardarlo dritto negli occhi.

Senza dire una parola, l’uomo sbloccò le sicure delle portiere. April indicò a Brian di salire in auto, sui sedili posteriori, così aprì la portiera e saltò dentro. Subito dopo, il semaforo divenne verde e la fila di auto riprese ad avanzare.

“Grazie per il passaggio, signore” Brian disse allegramente.

L’uomo non parlò, le sopracciglia sempre aggrottate.

“Ci sta portando a casa mia, Brian” April si rivolse al ragazzo.

“Fantastico” Brian rispose.

April ora si sentì al sicuro. Se l’uomo aveva davvero cattive intenzioni, senz’altro non avrebbe fatto del male a entrambi. Senza dubbio, li avrebbe accompagnati dritto a casa dalla madre.

April si chiese se avrebbe dovuto riferire alla madre dell’uomo e dei sospetti che nutriva nei suoi riguardi. Ma no, questo avrebbe significato ammettere di aver marinato la scuola e aver fatto l’autostop: sarebbe stata messa in punizione per sempre.

Inoltre, pensò che il guidatore non poteva essere Peterson.

Peterson era un killer psicotico, non un uomo normale, che guidava un’auto.

E, dopotutto, Peterson era morto.