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La plebe, parte IV

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CAPITOLO XXX

Se la sala dell'udienza nella Corte d'appello (che allora aveva in Piemonte nome di Senato) fosse zeppa di spettatori, lascio pensare ai lettori che sanno quale morbosa curiosità sia nelle cittadinanze pei processi criminali di siffatta specie. Quella banda di malfattori aveva per tanto tempo incusso timore alla città intiera; la frequenza e la gravità dei delitti commessi erano tali da far rabbrividire; la circostanza straordinaria che il capo di quella orrenda sêtta fosse un giovane elegante, accolto con favore nelle migliori società, accresceva l'interesse della cosa. Dal giorno dell'arresto dei malandrini poteva dirsi che nei crocchi cittadineschi, in tutti i convegni, nelle conversazioni delle famiglie, non erasi parlato d'altro più fuor che di ciò; in quel tempo di calma e di servitù, non essendoci concorso di novità politiche a far diversione. Tutti volevano vedere le faccie orribili di quegli assassini; e principalmente quella del loro capo, che dicevasi, e molti di veduta conoscevano, non essere niente affatto orribile, ma anzi bellissima. Le donne sopratutto avevano questo curioso desiderio, il quale, in quelle creature così facilmente eccessive, spingevasi per alcune fino all'ardore della passione. I biglietti di ingresso alle tribune riservate erano quindi stati ricercatissimi; e quel primo giorno in cui cominciavano i dibattimenti molti e molti banchi erano occupati da rappresentanti del sesso gentile di tutte le età, venute in grande eleganza d'acconciatura a cercare poco gentili emozioni in quel dramma di sangue di processo criminale. Fra queste spiccava, ned ella cercava pure nascondersi, la Zoe, la quale nel tempo di attesa, prima che entrassero gli accusati a prendere il loro posto, era il punto di mira di tutti gli sguardi e l'argomento di tutti i discorsi. Era essa giunta delle prime – in una tribuna riservata s'intende – epperò s'era impadronita del miglior posto che si potesse avere di faccia e più vicino che era possibile all'ordine dei banchi preparati pei prigionieri. Le prime signore che erano giunte dopo di lei, avevano schivato il contatto e la vicinanza della cortigiana, prendendo posto più in là che potessero dalla sontuosa di lei veste di seta; ma quelle che erano sopravvenute più tardi non avevano avuto il coraggio di andarsene piuttosto che occupare i posti che rimanevano a fianco della cortigiana, e vi si erano sedute, ostentando però di tener le spalle volte alla loro vicina, e di non lasciar posare mai su di lei gli occhi che pure la sbirciavano di soppiatto con viva curiosità. La Leggera, in una mossa quasi abbandonata, pareva non accorgersi di nulla, e la sua attenzione era tutta fissa sui seggioloni dove sarebbe venuta a sedere la Corte, sui banchi destinati ai rei. Nello scompartimento lasciato al pubblico volgare senza privilegio di polizza d'ingresso, fin dal primo momento in cui s'erano aperte le porte della sala, si agitava una massa variegata di popolo cencioso, che ora ronzava come uno sciame di tafani, ora muggiva come un maroso di burrasca, ora rompeva in esclamazioni d'impazienza, in bestemmie contro chi urtava di dietro per ispingersi nella sala, in motti sconci, impertinenti, tenuta in freno dai cappelli a becchi, dalle faccie burbere e dalle baionette dei carabinieri.

Stante il gran numero degl'inquisiti, per questi, come ho già detto, erasi preparato un ordine di banchi, un dietro l'altro, che venivano salendo sino alla parete della sala, in ciascuno dei quali potevano stare quattro individui. Innanzi a questi banchi era uno spazio in mezzo della sala, dove un tavolo a cui sedeva il segretario coi suoi aiuti; e di là una delle pubbliche tribune, quella in cui c'erano più donne, e in prima fila la Zoe: dal primo banco dei rei a quello della tribuna correvano appena sei passi. In quello spazio centrale, precisamente di prospetto alla gran tavola de' giudici, erano i banchi dei testimoni, che si trovavano alla sinistra di quelli degli accusati. Dietro di questi banchi dei testimoni era il locale destinato al pubblico plebeo. Fra i banchi degli accusati e la tavola della Corte, che s'elevava sopra un tavolato a cui si ascendeva per due gradini, stavano i difensori: di faccia, dalla parte opposta, i rappresentanti del Pubblico Ministero. Questa disposizione de' luoghi occorre tenere a mente per comprendere poi l'orrenda tragica scena con cui si chiusero in quella sala i dibattimenti di tal memorabile processo.

Si discorreva vivamente in tutte le tribune; il maroso del pubblico straccione muggiva più che mai: ad un tratto si fece un gran silenzio e gli occhi di tutti si volsero ad un punto: entravano i prigionieri, a due a due, in mezzo a due file di carabinieri armati. Primi venivano Stracciaferro e Graffigna, poi Pelone, Marcaccio e la turba dei satelliti minori; fra questi v'era una faccia onesta, disfatta dal turbamento e dalla vergogna: quella del povero Andrea. Il suo arresto dovevasi a Marcaccio; il quale, parte per le minaccie, parte per le promesse di pena minore, s'era lasciato indurre a confessare qualche cosa della verità e non aveva taciuto della fabbricazione delle chiavi per mano del suo amico il ferraio senza lavoro. Di poi, pentitosi delle sue rivelazioni, le aveva contraddette, aveva voluto ritrattare, s'era posto di nuovo al niego più fermamente che mai; ma un secondo arresto di Andrea era stato deciso ed eseguito, e il vedovo di Paolina, alle fattegliene interrogazioni aveva risposto tutta la verità. Oh! Dio era stato pietoso di togliere anche colla morte la onesta moglie di quell'infelice allo spettacolo di tanta vergogna!

Mancava ancora il principale: il famoso medichino. Come se anche in codesto si volesse riconoscere la superiorità di lui, il capo non era stato condotto a mazzo cogli altri, ma gli si concedeva la distinzione d'una entrata speciale in scena.

Il silenzio fattosi all'entrare dei prigionieri non durò gran fatto. Tosto dopo cominciarono i discorsi, le osservazioni, i commenti, le interpretazioni, gli indovinari intorno a quelle faccie risolute, la maggior parte malvagie, feroci, fra cui dominavano la robusta, imbestialita figura di Stracciaferro, l'allampanata, alta persona di Pelone e la diabolica faccia sottile di Graffigna. Un movimento di curiosità destarono due donne che in coda a tutti gli altri imputati vennero in mezzo a' carabinieri ancor esse e furono fatte allogarsi nei banchi de' rei. Erano Maddalena e la povera vecchia Margherita. Quella conservava la sua aria sicura e petulante: appena dentro il salone aveva mandato in giro i suoi occhi ardimentosi, e, vista di subito la Zoe, aveva con essa scambiato un fuggevole ma significante ammicco. La misera Margherita invece era tanto confusa e tremante che appena se poteva reggersi e trascinarsi. Sotto l'abbronzato della sua pelle rugosa v'era un pallore che sembrava di morte: i suoi poveri vecchi occhi erano rossi dal pianto; già magrissima prima, il suo soggiorno in carcere e la pena morale l'avevano ridotta a non aver più che la sua pelle color d'alluda sulle ossa.

Nel primo banco furono posti Stracciaferro, Graffigna e Marcaccio; quest'ultimo era al capo del banco verso quello dei testimoni. Un posto fu lasciato vacante, il primo dalla parte dove sedevano gli avvocati, serbato di certo pel medichino. Nel banco di dietro erano le due donne. In mezzo agli altri accusati Andrea, che pareva lo spettro dell'uomo d'un tempo, aveva posto i gomiti sulle ginocchia e s'era nascosto il volto nelle mani.

Il susurro cessò di nuovo, quando in mezzo a due carabinieri comparve il fiero e leggiadro aspetto del sedicente Gian-Luigi Quercia. Era egli un po' pallido, ma calmo e tranquillo. Dalla soglia gittò egli pure uno sguardo su tutte quelle faccie intente verso di lui che lo divoravano cogli occhi e schiuse le labbra ad un superbo, ironico sorriso; vide la Zoe e non fe' cenno nessuno, ma nel guardarla le sue pupille nere brillarono fugacemente d'una fiamma viva. La cortigiana sorrise in un certo modo ed occhieggiò essa pure con una speciale significazione che Gian-Luigi comprese.

– Sono qua, voleva essa dire, lavoro tuttavia per salvarti, ogni speranza non è ancora perduta.

Egli s'avanzò con passo tranquillo, senza braveria, fino al suo posto, fece un piccol cenno di saluto e d'incoraggiamento cogli occhi a Maddalena, il cui volto alla vista di lui s'era tutto illuminato, e tese una mano alla sua vecchia nutrice chiamandola affettuosamente per nome.

Margherita appena aveva visto entrare il suo diletto figliuolo, aveva mandato un'esclamazione soffocata ed era stata assalita da un tremito universale. Sarebbe corsa incontro a lui a gettarglisi nelle braccia, se avesse osato e se glie ne fossero bastate le forze. Lo guardava, lo guardava e gli occhi le si empivan di lagrime, e tremava sempre più. Quando egli le fu dinanzi e le tese la mano, ella ruppe in singhiozzi, e presa quella destra la baciò con trasporto.

– Oh mio Giannino!.. oh mio Giannino! balbettò fra i singulti.

– Coraggio, madre! le disse amorevolmente Gian-Luigi.

Sentirsi dare questo nome di madre dal suo caro era sempre per la poveretta una gioia ineffabile. In tal punto ciò pose il colmo alla sua commozione.

– Ah! se questi signori lo permettessero, disse ella accennando i carabinieri, e se tu non te ne vergognassi, vorrei pure abbracciarti.

Quercia le regalò il più amorevole de' suoi gentili sorrisi; poi si curvò su di lei, le prese il capo fra le mani e le stampò un bacio sulla fronte; essa, la povera vecchia, gittò le sue magre braccia al collo del giovane e lo baciò replicatamente, piangendo. Questa scena destò un'universale commozione.

E questa non era ancora dileguata del tutto, quando un'altra circostanza avvenne che suscitò una impressione di ben diverso genere. In mezzo a due carabinieri anche lui, fu introdotto e condotto a sedere al banco dei testimoni un vecchio, piccolo, curvo, d'aspetto miserabile e sporco, di andatura esitante ed obliqua; era il complice propalatore, al quale (secondo l'uso di que' tempi) in premio delle sue rivelazioni era stata concessa l'impunità: Jacob Arom il rigattiere.

 

Entrò egli cogli occhi bassi, timoroso ed incerto; solo un istante sollevò le ciglia e saettò una guardata viperina al posto dov'era il medichino. Questi s'era seduto tranquillamente, senza fare la menoma attenzione agli altri coaccusati che si trovavano su quei medesimi banchi, precisamente come se non esistessero, nè questi avevano mostrato di badare a lui in alcuna maniera, fuori di Graffigna che essendo più vicino al posto dove aveva da sedere il medichino, s'era, quasi per omaggio di rispetto, tirato più in là per lasciargliene maggior luogo; per il che Quercia, in mezzo agl'imputati, stava, come per una nuova distinzione, con una certa distanza isolato dagli altri, a cui non fu mai ch'egli volgesse una parola, un cenno, uno sguardo soltanto.

Al passargli di Macobaro dinanzi, Gian-Luigi, senz'affettazione, ma con evidentissima espressione di profondo disprezzo e di schifo, volse il capo dall'altra parte per non vederlo; ma saettarono il vecchio rigattiere di sguardi micidialissimi gli altri imputati, e principalmente Graffigna, il quale fece colla mano un cenno pieno di minaccia. Anche nel pubblico, e specialmente in quella parte dove entrava chi volesse, si levò un susurro che poteva dirsi di riprovazione. Macobaro si confuse ancora di più, e parve rannicchiarsi all'estremità di quel banco dove egli fu condotto; ma poco stante ogni rumore cessò, perchè gli uscieri imposero silenzio, ed entrarono a prender seggio i magistrati.

Io non istarò ad annoiare i lettori coll'esposizione di tutto il dibattimento del processo, delle requisitorie del fisco, e delle difese degli avvocati. Sono cose oramai che si conoscono da tutti; e i fatti che importano al nostro racconto e che vennero in quel dibattito appurati, si videro man mano avvenire. Solo dirò che la quantità dei testimoni, il numero degl'incidenti, la rilevanza delle quistioni sollevate e dibattute fra il fisco e la difesa, fecero prolungare il processo oltre le quindici sedute; che le due prime furono tutte spese nella lettura del lunghissimo atto d'accusa, in cui erano consegnati tutti i risultamenti ottenuti dalle propalazioni di Arom, dalle rivelazioni poi disconfessate di Marcaccio, dalle ingenue confessioni di Andrea, dalle indagini della Polizia; che tutte le volte fu grandissimo il numero degli spettatori e fra questi delle donne, prima sempre la Zoe; che fra i testimoni comparvero di nostra conoscenza Barnaba, Bancone, Fra Bonaventura e Giacomo Benda. La giustizia, che non ha pietà, aveva citato anche la povera Maria: e farla comparire alla vergogna di tal pubblicità sarebbe stato un'ucciderla addirittura, la infelice ragazza; ma Virginia avevale risparmiato questa prova mercè l'autorevole intervento dello zio il marchese. Anche quest'ultimo era stato sentito per ciò che era accaduto al letto di Nariccia; ma non si era all'autorevolissimo personaggio dato il carico ed il disturbo d'una comparsa in pubblico.

Solamente di quel processo riferirò l'interrogatorio del medichino, e la tragedia che seguì la lettura della sentenza.

Il medichino, come il più importante degli accusati, fu fatto levare in piedi pel primo, e il Presidente cominciò ad interrogarlo così:

– Il vostro nome?

Un gran silenzio s'era fatto nella sala, non si sentiva una mosca a volare, e tutti gli sguardi erano intenti sulla bella figura del giovane inquisito: questi con quel suo contegno di sicurezza, con quell'aria di superiorità piena di degnazione che gli erano abituali, rispose colla sua voce limpida e chiara tre parole che suonarono, in quel silenzio come un accordo musicale:

– Non ho nome.

– Voi foste registrato nei libri dell'Ospizio con quello di Giovanni Venturino, e con esso dato ad allevare alla donna Margherita Coppa; ora vi facevate chiamare in società Luigi Quercia.

L'accusato guardò fiso il Presidente, come per dire: «non ci ho nulla da contestare:» e si tacque.

– Perchè vi siete voi fabbricato un nuovo nome?

– Perchè così mi piacque.

– Credevate voi avere il diritto di cambiarvi nome ed attribuirvi qualità a vostro capriccio?

– Lo credo sicuro. Gli uomini s'erano arrogato quello di stamparmi col nome che mi avevano imposto una nota di vergogna per tutta la vita: io me ne volli liberare. Il nome di Luigi era quello del mio benefattore, medico al villaggio dove fui allevato, e lo presi in memoria di lui: quello di Quercia lo scelsi come impresa del mio avvenire, come programma di resistenza della mia volontà, ai colpi del destino nella lotta della vita.

– Riconoscete voi dunque che avete affermato il falso alla famiglia Benda, quando vi siete vantato d'una origine misteriosa, di segreta parentela con famiglie di riguardo, e che sono falsi i documenti che presentaste in sostegno delle vostre parole e che abbiamo qui dinanzi?

L'accusato levò la fronte e guardò intorno con dignitosa fierezza.

– Che io abbia detto il falso, la misera logica degli argomenti umani sembra provarlo, che poi sia così realmente è un'altra cosa.

Il suo aspetto era cotanto nobile che nell'uditorio non vi fu forse una persona in quel momento che non gli attribuisse quelle illustri, misteriose origini, ond'egli s'era vantato.

– E la sua età? domandò dopo un istante il Presidente, passando senza accorgersene a trattarlo col Lei.

– So di avere venticinque anni; ma non ho documento nessuno di fede di nascita.

– Perchè si spacciava Ella per medico?

– Per omaggio eziandio al mio protettore che fu tale e desiderò ch'io pure lo divenissi: perchè ho studiato la scienza della medicina, e senza aver ottenuto diplomi di laurea credo saperne più di tanti che acquistarono dall'Università il diritto di ammazzare il loro prossimo impunemente.

Un'ilarità generale scoppiò nell'uditorio, e i giudici medesimi sorrisero.

Il Presidente riprese dopo un poco:

– Ella conosceva da molto tempo il signor Nariccia?

L'accusato non rispose subito: tutti gli occhi erano con più intentività che mai fissi sul volto di lui, il quale non ebbe pure il menomo cenno d'una anche lievissima emozione.

– Mi permetta, signor Presidente, alcune parole ancora intorno al mio nome ed all'esser mio, disse l'inquisito: e il Magistrato avendo fatto un cenno di consenso, egli continuò. La povera donna che mi fu nutrice trovasi accusata di falsa testimonianza per avere dato di me quelle informazioni che ho ammesso poc'anzi trovarsi false innanzi alle apparenze de' fatti. Dichiaro solennemente che la misera vecchia non può essere tenuta imputabile di ciò. Ella mi ama d'un amore maggiore di quello d'una madre; ella per me farebbe qualunque cosa; qualsiasi maggior sacrifizio le domandassi, la vi si acconcerebbe; la sua volontà è una molle cera in mano della mia. Ora io le avevo imposto, se interrogata sul mio conto, di rispondere quel ch'ella disse. Coll'anima padroneggiata dal tanto affetto, colla mente indebolita dalla vecchiaia e dai patimenti d'una vita di miseria, ignara affatto delle cose del mondo e delle leggi, come ritenerla in colpa di questo suo fatto? Dichiaro poi altamente che nel mio tentativo d'evasione la buona Margherita non vi ebbe parte di sorta e non n'ebbe pure sentore nessuno…

Il Presidente lo interruppe.

– Ciò verrà più opportuno quando saremo a quel punto del processo; e riguardo all'inquisita Margherita Coppa, il magistrato apprezzerà questa dichiarazione ora da Lei fatta. Veniamo a noi… e risponda alla domanda che le ho diretta: s'Ella conoscesse da molto tempo il signor Nariccia.

– Risponderò con un'altra dichiarazione, la quale penso non torni nuova al Magistrato, essendo la medesima ch'io feci nell'istruttoria segreta, dove assunsi il contegno da cui non intendo ora dipartirmi.

Nell'uditorio vi fu un movimento che indicava accresciuta ancora la tanta attenzione con cui si ascoltavano le parole dell'imputato.

Questi pronunciò lentamente, con parola chiara e spiccata:

– Non dirò pure una parola che riguardi il processo e i tanti capi d'accusa che si affacciano contro di me e i miei coimputati. Per rispondere converrebbe ch'io volessi o difendere la mia innocenza e la mia vita, o coadiuvare la giustizia nella ricerca della verità; ora io non voglio nè l'una cosa, nè l'altra. Della mia sorte non mi curo e l'abbandono al caso; nella ricerca del vero vo' lasciare che la giustizia se la districhi da sè colla facilità dell'errore.

Il Presidente lo interruppe con tono di rampogna, riprendendo, nel parlargli, il voi.

– Questa è una nuova colpa. Avete il dovere di rischiarare nelle sue indagini la giustizia.

– Cotal dovere io non me lo sento per nulla.

– Lo avete pei vostri complici…

– Non ammetto d'aver complici.

– Vuol dire che negate.

– Nè nego, nè affermo: mi taccio.

Il Presidente gli fece una severa ammonizione che l'inquisito ascoltò freddamente.

– Signore, diss'egli poi, quando il Magistrato ebbe finito, le sue parole non mi faranno uscire dalla determinazione che ho presa. Se fossimo ancora ai beati tempi della tortura, non varrebbero a farmi parlare neanche i più fieri tormenti.

Non ci fu verso a smuoverne il fatto proposito; Stracciaferro e Graffigna ne imitarono l'esempio; gli altri si confusero nelle loro risposte; Pelone riprese per suo conto quelle confessioni che Marcaccio aveva ritrattate; Maddalena pose una strana audacia a compromettersi pel medichino; Andrea, come già aveva fatto nell'istruttoria segreta, disse tutta la verità di quanto lo riguardava. Così esplicite poi furono le deposizioni testimoniali, così eloquenti i corpi del delitto sequestrati che provavano un'infinita quantità di furti e di assassinii, così precise le rivelazioni di Macobaro che niuno poteva conservare il menomo dubbio sull'esito che la sentenza avrebbe dato al processo.

Contro Macobaro non avevano cessato gl'inquisiti di saettare sguardi feroci d'odio e di minaccia. Certo le lunghe ore di seduta di quei dibattimenti dovettero essere per quel vecchio una sequela di tormenti indicibili; ma il pensiero della vendetta lo sosteneva, e poi messosi una volta per quella strada, bisognava bene andarne fino al termine.

Si chiusero alla fine i dibattimenti. Il Pubblico Ministero tuonò contro i rei e ricordando lo spavento generato nella cittadinanza da quell'audacissima schiera d'assassini, l'empietà e la barbarie di tanti e sì frequenti reati, invocò tutto il rigor delle leggi e chiamò la pena di morte pel medichino, per Stracciaferro, per Graffigna, per Marcaccio e per altri due accusati di cui il nome non rileva; per gli altri inquisiti varii gradi di pena dai lavori forzati a vita fino ai cinque anni di reclusione. Gli avvocati difensori s'industriarono se non a purgare d'ogni taccia i loro clienti (chè la cosa era impossibile) di mostrarne almeno minore di quel che volesse il fisco la colpabilità.

Udito tutti, il Presidente fece il riassunto di tutti i dibattimenti avvenuti, e poi, levando la seduta, annunziò che nell'udienza del giorno di poi sarebbe stata letta la sentenza che nell'intervallo il Magistrato avrebbe pronunziata.

L'assemblea si sciolse con quel mormorio speciale che è indizio di commozione delle masse: il domani una folla più fitta che mai si stipava nella sala dell'udienza, nel vestibolo precedente, nella gradinata, nell'atrio, fino nella strada. Un maggiore susurro regnava nella sala, sintomo d'agitazione promossa dalla curiosità d'impazienza ansiosa nell'aspettazione. Il rumore non cessò, anzi s'accrebbe quando furono visti entrare gli accusati. Alcuni notarono che il medichino era un po' più pallido del solito; ma la sua fisionomia era calma e l'aspetto sicuro come sempre. Avreste detto ch'egli veniva spettatore di cosa che riguardava tutt'altri da lui. Gli altri delinquenti avevano tutti l'aspetto turbato ed ansioso, eccetto Stracciaferro che conservava la solita aria ferocemente stupida e Graffigna la sua maliziosa figura di volpe. Il bettoliere Pelone era di color verde, il suo cranio giallognolo luceva di sudore che vi spuntava a goccioline, e i suoi occhi infossati si giravano intorno con uno sbigottimento profondo; Andrea era abbattuto e privo di ogni vigore; Marcaccio per contro ostentava un'animazione, una specie di gaiezza che era troppa per apparir naturale e che si vedeva effetto della inquietudine la più viva; egli non poteva star fermo, le mani sue brancicavano sull'assicella superiore della barriera che aveva dinanzi a sè, volgeva atti e sguardi e sorrisi a' suoi compagni, e il carabiniere che gli stava presso non cessava dall'ammonirlo a tenersi tranquillo. Un osservatore avrebbe fatto attenzione a certi sguardi che a questo carabiniere che gli era allato gettava Marcaccio: erano sguardi che parevano misurarne la forza, esaminarne la risoluzione e il coraggio; e ad ogni volta lo squadrasse a quel modo, vedendo la robusta complessione e l'aspetto ardimentoso di quel difensore della legge, Marcaccio non poteva nascondere certi segni di contrarietà e di disappunto.

 

Jacob Arom, condotto anche lui ad udire la lettura della sentenza, poichè ancor egli era fra gli inquisiti e solo aveva da esser salvo per le fatte propalazioni, era più pallido, più confuso, più tremante che mai e si sarebbe detto ch'egli, il quale aveva l'impunità assicurata, era quello che più di ogni altro era occupato dallo spavento. Più feroci che mai lo saettavano gli sguardi dei suoi complici, cui egli non osava affrontare, tenendo gli occhi continuamente fissi al suolo; e più d'uno tendendo verso di lui il pugno chiuso, gli faceva atti di minaccia e gli lanciava imprecazioni e bestemmie.

Un gran silenzio si fece quando la Corte entrò e prese posto, quando il segretario si levò in piedi e cominciò con la voce grave e monotona la lettura della sentenza. Questa dopo le relative considerazioni per cui venivano poste in sodo le risultanze del processo e le varie colpabilità degli imputati, passando alla parte dispositiva, condannava, dei personaggi del nostro dramma, tre alla pena di morte: Giovanni Venturino sedicentesi Luigi Quercia e sopranominato il medichino; Michele Luponi detto Stracciaferro; e Giocondo Graffigna. Marcaccio era condannato alla galera in vita; Pelone a dieci anni di lavori forzati; Andrea a dieci anni di reclusione; Maddalena a cinque anni; Margherita era assolta.

I condannati all'estremo supplizio non fecero il menomo movimento; Quercia solamente sorrise col suo modo superbo e slanciò uno sguardo alla Zoe, la quale era là, innanzi a lui, al suo solito posto. Con quello sguardo egli le diceva: «Bada che ora mi occorre un ultimo servizio e conto su di te.» La Leggera gli rispose con uno che significava: «Non ismarrirti. Tutto può ancora rimediarsi: io non ti mancherò, e sarai salvo.»

La vecchia Margherita a sentire quella tremenda parola di morte mandò un gemito e tendendo le braccia verso il suo Giannino che le stava dinanzi:

– Oh figliuol mio! esclamò.

Il medichino le si volse mestamente sorridente e con tono di pietà e d'autorità insieme le disse:

– Calmati; taci; non isgomentarti.

Passato il fremito della prima impressione prodotta nell'affollato uditorio da quella sentenza di cui pure già s'aspettavano quali erano le disposizioni, il Presidente si volse ai condannati e disse loro se avevano qualche cosa da dire.

Il medichino fece come se nulla avesse udito; ma Stracciaferro, Graffigna e Marcaccio si drizzarono tutti tre di scatto.

– Abbiamo da dire, gridò Marcaccio con voce stentorea, ma che un pochino tremava, che qualcheduno l'ha da pagare… e subito!

Ciò dicendo si slanciò sul carabiniere che aveva presso e lo afferrò alla gola: nel medesimo tempo Graffigna e Stracciaferro scavalcavano la barriera, quest'ultimo si gettava addosso al secondo carabiniere che trovavasi all'altro capo del banco; e Graffigna sgusciava, agile e pronto com'era, verso Macobaro.

Successe un momento di confusione indescrivibile. L'uditorio spaventato credette vedere tutta quella massa di malfattori precipitarsi sopra di esso per aprirsi fra di lui un passaggio alla fuga: gli uomini si levarono, le donne strillarono e minacciarono svenire: si fece ressa alla porta per iscappare. I carabinieri così aggrediti, frattanto, non potevano far uso delle armi, perchè stretti corpo a corpo dai loro robusti avversari, e i loro compagni non potevano venire in loro aiuto, perchè, allogati nelle corsie de' banchi, avevano il passo impedito dalla persona medesima di chi si trattava di soccorrere, ed inoltre avevano da tener d'occhio gli altri condannati cui temevano veder levarsi ancor essi ed assalirli.

Ma non era tanto la libertà che volevano ottenere i tre assassini insortisi a quel modo, quanto la vendetta contro il complice traditore. Non ostante la sorveglianza dei carabinieri, che dovevano impedire ogni comunicazione fra gl'inquisiti, essi, mercè sguardi, cenni, ammicchi e qualche mezza parola, avevano ordita la congiura, ed era stato Graffigna ad immaginarla, per vendicarsi di Macobaro il giorno e il momento medesimo in cui sarebbe loro stata letta la sentenza. Stracciaferro e Marcaccio, poderosi di membra com'erano, dovevano contenere i due carabinieri più prossimi, e Graffigna lesto saltare sul traditore e strozzarlo. Il programma fu eseguito alla lettera. In mezzo a quel tumulto che ne nacque fu udito ad un punto un grido di spavento indicibile, poi un rantolo: Graffigna aveva preso alla gola il vecchio rigattiere e colle sue mani nervose, piantandogli le unghie entro la carne, lo stringeva con una forza che l'odio accresceva a più doppi. Livida diventava la faccia del miserabile, gli occhi fattisi pieni di sangue gli uscivano dalle orbite, le vene della fronte si gonfiavano e parevano corde tese prossime a rompersi, un'espressione orribile di sbigottimento, di dolore, di agonia contraeva quei lineamenti convulsi, le mani adunche si agitavano nel vuoto, come per domandare aiuto, come quelle del naufrago che cercano abbrancarsi a qualche cosa. Un carabiniere potè finalmente arrivare in soccorso di Arom e fece a trarre in là l'assassino che si abbandonava con tutto il suo peso sopra la vittima, e non riuscendovi per quanto forti strappate gli desse, si pose a percuoterlo sulla testa col calcio della pistola; in quel frattempo s'udì un colpo di arma da fuoco, ed un corpo sanguinoso fu visto strammazzare nello spazio vuoto a metà della sala. Era Marcaccio. Il carabiniere da lui afferrato alla gola, vedendo non poter aver ragione del suo assalitore, e già sentendosi mancare il fiato, aveva lasciato andare la carabina di cui non poteva servirsi in quel serra serra, e toltasi di dietro le falde della montura una delle pistole che vi portava appese, ne aveva appoggiata la bocca alla nuca del condannato colla direzione volta in su, ed aveva sparato; la palla, traversato il cervello ed il cranio di Marcaccio, era andata ad allogarsi su in un trave del soffitto. Stracciaferro, più forte, aveva impedito al carabiniere su cui egli s'era gettato, di far uso delle armi, ed avendolo steso a terra mezzo soffocato, erasi impadronito della carabina e si levava su terribile colla baionetta inarcata contro gli altri carabinieri, che riusciti a districarsi dagl'impacci, stavano per lanciarsi contro di lui.

Tutto accennava ad una sanguinosa, orribil lotta. Ad un tratto suonò là in mezzo una voce sonora, chiara, imperiosa, potente:

– Alto là!.. Abbasso quell'arma, Stracciaferro!.. Fermi tutti, per Dio!

Era il medichino. Egli era rimasto sino allora tranquillamente seduto al suo posto, guardando con una specie di meraviglia curiosa il fatto dei suoi complici, delle cui intenzioni non era stato istruito. La tentazione gli venne un momento di cacciarsi ancor egli in quello sbaraglio.

– Bene! Aveva pensato. Strappiamo le armi a codestoro, e riconquistiamo la libertà, o facciamoci uccidere.

Ma quando si levò guardando coll'occhio freddo dell'uomo che sa dominare il pericolo, quella specie di campo di battaglia, vide due cose che gli fecero cambiar di presente la sua determinazione. Vide le donne spaventate in mezzo all'uditorio, e la Zoe medesima, che, nonostante tutta la sua risolutezza, pareva prossima a svenire: questa vista, che un tempo non l'avrebbe trattenuto di certo da nulla ch'egli avesse deciso di fare, ora bastò a produrgli una riazione nei suoi propositi. Sentiva l'obbligo di essere più nobile e più generoso che per l'innanzi; ascoltava con più cedevolezza i subiti impulsi del suo sangue illustre, di cui voleva esser degno oramai innanzi a sè medesimo.