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La plebe, parte IV

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CAPITOLO XXIX

Venuta in possesso delle sue lettere a Luigi, e distruttele, pareva che la contessa di Staffarda non dovesse conservar più inquietudine veruna, nè avere altre ragioni di timore. Eppure non era così; invano sforzavasi essa medesima di farsi tranquilla e rimuovere ogni sollecitudine in proposito; un'ansietà indefinita le incombeva sull'anima come una minaccia continua di pericolo, e ad ogni momento era in angustia di vedere presentarlesi e più fiero il disastro. Ad ogni volta che la vedesse entrarle in camera la fante, ad ogni lettera o bigliettino che le venisse recato, allo scricchiolar delle scarpe del marito che s'avanzava nella sala o veniva a raggiungerla nella stanza da pranzo, ella rabbrividiva dicendosi: «è qui la catastrofe.»

Il suo presentimento aveva ragione: e fu appunto una letterina che, il giorno dopo quella scena in cui il marito le aveva fatte bruciare le carte, venne a darle il colpo d'una nuova minaccia. Era una lettera violenta della Zoe furibonda.

«Aveva ragione il mio istinto di popolana nel diffidare della vostra perfidia, vipera della nobiltà. Siete una traditrice più infame di tutte le donne infami del mondo; e vostro marito è un miserabile schifoso come una spia. Sì, con tutti i suoi titoli, con tutti i suoi avi, con tutta la superbia del suo sangue azzurro è un miserabile: ed insieme voi due fate una degnissima coppia.

«M'avete vigliaccamente ingannata e credete aver trionfato! Il povero Luigi lo credete irrevocabilmente perduto, e voi siete padrona delle vostre lettere. Avete fatto l'opera di Giuda e vi pensate poter dormire fra due guanciali! Vi sbagliate. Avreste dovuto fare sparire anche me; ma ciò non potrete: so guardarmi, e so difendermi occorrendo. Non ho più i documenti in mano, ma ho la conoscenza di tutto! So appuntino tutto quello che passò fra voi e lui; e parlerò. Sarò creduta, non dubitate; e se non potrò con ciò giovar più a Luigi, sfogherò almeno il mio sdegno e vendicherò lui e me.

«Aspettatevi a sentire quanto prima qualche risultato della mia vendetta.»

Alla lettura di queste parole, Candida fu presa da un assalto di febbre nervosa. L'anima sua troppo in que' giorni percossa, non aveva più vigore di sorta. Lesse e rilesse quel biglietto in una specie di stupidità dolorosa, non sapendo che risolvere, sentendo in tutte le sue fibre scorrere un fuoco che sembrava dissolverle gli elementi della vita. Pensò mostrare al conte quella lettera; e non osò; le venne in capo correre dalla cortigiana, provarle, giurarle ch'ella era innocente della fattale accusa, e se ne trattenne, non perchè la sua dignità a ciò si ribellasse, ma perchè non osò neppure. Stette inerte, tremante, sotto un'angoscia impossibile a dirsi, che durando parecchi giorni l'avrebbe uccisa. Ma parve che il Cielo avesse finalmente pietà di quell'infelice, e che la sua punizione fosse omai sufficiente alla colpa, senza accrescerne ancora la gravezza. Fu un'altra lettera della Leggera che venne a rassicurarla, due giorni di poi.

«Egli mi comanda espressamente di lasciarla in pace. Io ho giurato di obbedire a lui in tutto, e gli obbedisco anche in ciò. Ringrazi le circostanze che m'impedirono finora di cominciare l'effettuazione della mia vendetta; sia riconoscente alla generosità di quell'uomo che le perdona, e viva tranquilla riguardo a me: abbandono la cura della nostra vendetta alla sua coscienza.»

A cagionare questo cambiamento nelle determinazioni della Zoe, ecco che cosa era successo.

Fuggita, come abbiam visto, alle granfie di Barnaba e de' suoi, la Leggera aveva riparato niente meno che al Palazzo Reale, nell'appartamento datovi da Carlo Alberto a quel principotto scapato venutovi sotto colore di educarsi all'arte di regno del re Savoino, e che doveva profittarne così bene da presentar poi al mondo lo spettacolo strano, all'infelice popolazione del suo ducato il brutto regalo d'un Caracalla in sedicesimo nel pieno secolo XIX, finchè non l'avesse mandato ad aggiustare i conti con Dio il coltello vendicatore d'un ignoto assassino.

Libertino, beone, giuocatore, soleva egli sottrarsi alle regole di severa condotta che Carlo Alberto voleva imposte alla sua famiglia (e il principotto era tenuto come della famiglia), al vivere di Corte. La scapataggine, il libertinaggio, la corruttela si complicavano e pigliavano più acre sapore d'un zinzino d'ipocrisia. La mattina in chiesa, a messa, col libro delle orazioni in mano; la sera, fuggito di soppiatto, al lupanare. Aveva taciti complici delle sue fughe notturne il custode d'una porticina e i servi a lui più specialmente addetti. Sgattaiolava fuori delle solenni pareti del Palazzo silenzioso, severo, scuro in mezzo all'oscurità della notte, come un foriere di compagnia riesce a scappolar di caserma, dopo fatta la chiama, e in compagnia di abbietti campioni blasonati, cortigiani del vizio e del grado, corrazzava per la città mostrando la vivacità del suo ingegno in chiassose impertinenze a danno dei pacifici abitanti, de' buoni bottegai, per le quali chiudeva gli occhi la Polizia così permalosa verso i semplici cittadini.

La Zoe che conosceva le abitudini di quell'Altezza così bassa, bene aveva immaginato che quella tal porticina le si sarebbe aperta e che, nota come essa era ai ministri di quel principesco libertinaggio, le si sarebbe concesso il passo verso l'abbominevole santuario di quella grandezza politica e sociale, che era una morale abbiettezza. E così fu. Il Principe non era ancora tornato a casa da una delle sue corse notturne; ma la Zoe, la cui meretricia bellezza si sapeva pagata dal denaro dei contribuenti che passava per le tasche del duchino, ebbe a dire solamente che S. A. R. le aveva detto venisse da lui, perchè il custode di sotto e i servi di sopra la lasciassero penetrare nelle più intime stanze del padrone. Lasciata sola, Zoe si rallegrò della circostanza che le concedeva un po' di tempo per pensare al modo di regolarsi prima di affrontare l'avversario. Era la prima volta che dopo una contesa col suo regio amante, veniva essa a fare il primo passo verso una riconciliazione; e non ignorava che questo, coll'umore e col carattere del Principe, non era buon metodo a tenerlo avvinto. Egli, istintivamente, aveva un concetto abbastanza giusto di sè, da disprezzare chi mostrasse per lui premura ed interesse: per farsene correr dietro, una donna bisognava non se ne curasse, e ne pungesse il capriccio col disdegno. Ma ora le condizioni delle cose erano state tali che non concedevano alla Leggera di seguire sino alla fine, come aveva fatto le altre volte, quella regola di condotta. La lite era stata più viva ed accanita delle precedenti; il rancore principesco era durato più che non avesse fatto mai per l'addietro, e l'urgenza del bisogno in cui era la cortigiana della protezione di lui per sè e pel suo damo l'avevano spinta contro ogni consiglio di prudenza a venire. Bisognava riparare a questa debolezza, coll'arte; e non c'era altro mezzo per lei che di rendersi più bella, più procace, più provocante che mai, per dettar poi la legge al desiderio di S. A. inuzzolito.

La si pose innanzi allo specchio, e preparò agli sguardi del principe un accorto disordine di acconciatura che la faceva irresistibile: mezzo sciolte le chiome che cadevano sulle spalle e sul seno in ciocche voluminose il cui fulvo colore luceva d'uno splendore metallico ai raggi de' candelabri accesi; discinte le vesti con tanta maestria che lasciasse trasparire e pur celasse le bellezze delle forme, e più facesse indovinare, ed acremente acuisse il desiderio di più vedere; uno strano e piacevolmente irritante contrasto fra la fronte severa e corrucciata e lo sguardo vivo come una fiamma e la bocca voluttuosa; un abbandono delle membra pieno di grazia felina e d'impertinente noncuranza. Quando il Duca entrò vide sopra una poltrona presso il camino lo splendore di quella bellezza, la fiamma di quegli sguardi, il candore di quelle carni, il fulvo dorato di quelle chiome, il carminio di quelle labbra, tutto uno sbarbaglio, e stette sovraccolto, come ammirato. Ella fu appena se volse il capo verso di lui, e lo guardò alla sfuggita.

– Buon giorno, principe: disse con fredda leggerezza: son io.

Il principe aveva lo sguardo, l'andatura e le idee d'un uomo mezzo briaco, qual egli era. I fumi del Bordeaux gli bollivano nel cervello insieme coi vapori della libidine; non aveva il pieno dominio della insolenza che gli teneva luogo di volontà; barcollava fisicamente e intellettivamente sotto il peso dell'ebbrezza, oppresso, non sazio dello stravizzo.

– Tu qui: esclamò egli: oh brava! oh la bella sorpresa!

E s'avanzò per abbracciarla; ma essa lo respinse e lo guardò con atto di severa dignità offesa.

– Piano! disse. La stia in là; e le mani a casa… Oh che crede Ella io sia venuta a fare?

Il principe ruppe in una risata.

– Sì, bene, rispose: oh che cosa sei venuta a far qui? A dire il rosario eh?

– La senta; i suoi scherzi saranno bellissimi, ma ora non hanno il dono di farmi sorridere… Ah che cosa son venuta a fare?.. E se mentre l'aspettavo mi fosse piaciuto renderle la pariglia di quello che Ella ha fatto a casa mia e fracassar tutto qui dentro?

S. A. si lasciò cascare sopra una poltrona in faccia a quella della Zoe e raddoppiò le sue risa.

– Questa sarebbe stata una bella idea… Vi ti riconosco, mia bella tigre… addomesticata.

– Ma io, almeno, se mi abbandonassi a questi sciocchi furori in casa d'altri, non mi dimenticherei del proverbio.

– Che proverbio?

– Chi rompe paga.

– Ma, gioia mia, la casa tua non è affatto d'altri per me, ma un pocolino anche mia… Prima di rompere mi pare che avevo cominciato per pagare… Ma al postutto tu hai ragione. Se non c'è che questa causa di screzio, la è subito levata. Oggi ho tutte le fortune. Ho guadagnato al giuoco, e ricevo una tua visita così inaspettata: sono il beniamino della sorte, e voglio che abbia a rallegrartene anche tu.

 

Si alzò, venne presso alla cortigiana, e vuotando le sue tasche, fece cascare una piova di napoleoni sul seno, in grembo della cortigiana; nuovo Giove che si stemperava in oro per quella Danae di Pafo. A tutta prima gli occhi della Zoe brillarono di quella brutta gioia che è l'espressione d'una bassa cupidigia soddisfatta; ma poi tosto smorzò quel guizzo, e si levò fremente in una falsa indignazione che la rendeva bellissima a vedersi. Prese una manata di quei dischi d'oro e la gettò ai piedi del principe sbalordito; scosse da' suoi panni, come si fa del sudiciume della polvere, le monete che suonarono cadendo e sparpagliandosi sul tappeto, ed esclamò con una superba fierezza la cui simulazione le avrebbe invidiata la migliore delle commedianti:

– Si tenga il suo denaro, signor duca: che crede Ella io faccia una quistione d'interesse? Come la mi conosce poco! È quistione di dignità, dei più nobili sentimenti dell'animo mio… Son venuta a darle un addio, e per sempre. Vo' partire da questa città, forse dall'Italia, e non tornarci mai più.

Agli occhi imbambolati del Principe mezzo brillo quella donna apparve ora in quell'atto più bella che non le fosse apparsa mai; la desiderò con più potenza che non avesse fatto; gli sembrò che il perderla, che il non vederla più sarebbe stata per lui una vera sventura. Cominciò per voler provare coi ragionamenti alla Zoe, che non doveva far così: i suoi argomenti vacillavano nella logica, come avrebbero vacillato le principesche gambe nel passo, se S. A. avesse voluto camminare; la cortigiana li mandava le gambe in aria coll'urto dei più matti paradossi e delle più impossibili affermazioni che al Duca parevano verità incontrastate; finì egli per umiliarsi, pregare e domandare l'elemosina del perdono. Era a questo punto ch'essa lo voleva trarre. Parve voler cedere; e quando lo vide tutto invaso dal suo influsso, ella si sciolse violentemente dalle braccia di lui, lo rigettò con vigore e gli disse sulla faccia con freddezza brutale:

– Sapete che io ho determinato di non appartenervi mai più, se voi non mi giurate di salvare Luigi Quercia?

Il colpo fu duro al principe colpito nel massimo calore della sua foga da quest'acqua ghiacciata in viso. S'inalberò, volle ribellarsi; ma la domatrice della fiera teneva nella sua mano nervosa attorcigliata la giubba di quell'animale, lo aveva avvinto pei bassi vincoli della sensualità.

– Quell'uomo!.. Ma che cosa t'importa di lui?.. che cosa è quell'uomo per te?

– Ebbene! esclamò con impudente franchezza la cortigiana: e s'io l'amassi?

La faccia del Duchino si contrasse come il muso d'una jena che sta per mordere.

– No, non l'amo niente affatto: s'affrettò a soggiungere la Zoe. Tutto il mio amore è per te, mio principe, mio padrone, mio tutto; ma ho di molti debiti a quell'uomo; gli è lui che mi ha fatta quella che sono: fra noi corrono strane e misteriose attinenze che non ti posso spiegare ma che sono indissolubili; è una fraternità delle anime e della sorte; e sarei un'infame se la tradissi. Chiedimi qualunque cosa, ma non di abbandonare nel pericolo quell'uomo. Tu puoi salvarlo: salvalo ed io sarò per te più umile, più devota d'un cane. Lui non lo vedrò più nemmeno; lo farai partire per lontani paesi, per dove ti piacerà meglio; io starò sempre teco finchè mi vorrai; che m'importerà ancora di quell'uomo, quando abbia compito verso di esso il mio dovere?.. Io ti amerò tanto, sai, che ti compenserò a dovizia di quanto avrai fatto…

Ne disse mille di parole, di promesse, di sollecitazioni, di preghiere ardenti, accompagnate da mosse che suscitavano le più vive fiamme del desiderio, con voce che vibrava, palpitava, accarezzava, con isguardi che avrebbero turbato uno stoico.

– Ebbene, sia: disse il principe più inebriato che mai, sedotto, allucinato, raggirato: lo salveremo e lo manderemo in Australia.

Zoe prese il Duca alle braccia, glie le strinse da lasciarci impresse le sue piccole dita, e guardandolo bene in faccia soggiunse:

– Davvero? Oh non è una parola inconsiderata, leggermente concessa, che mi basti. Tu codesto me lo hai da giurare, e lo farai per l'anima tua.

– Ma sì.

– Giuralo.

– Lo giuro.

– E se tu ci mancherai, guai a te… saprò punirtene e vendicarmi.

– Diamine! quando prometto una cosa, quando la giuro, è come se fosse già fatta… Or via, smetti quell'aria da eroina, e torna meco la Zoe di un tempo.

Le passò un braccio intorno alla persona, ed ella si abbandonò su di lui… Il predestinato principe non sapeva che in quel punto con tal giuramento ch'egli non aveva menomamente l'intenzione di mantenere, aveva mosso il primo passo verso la tragica sua morte.

La Zoe non uscì del quartiere del principe che assai tardi nella giornata di poi: venuta a casa sua, fatta sicura d'ogni molestia per la protezione del Duca, dovette prima di tutto pensare all'opera importante di restaurare le sue forze, accudire alle sue bellezze e rendere il culto della toilette alla sua persona. Bene cercò sapere di Maddalena, la cui sorte assai la preoccupava, e la quale troppo aveva ragion di temere caduta in mano della giustizia essa pure: ma nessuno de' suoi ne la seppe informare di nulla al riguardo. Quando appena lo potè, ed era oramai la sera, corse all'appartamentino di Bancone dove aveva fatta ricoverare la giovane, e trovò tutto chiuso, scuro e taciturno, come là dove regna la solitudine. I casigliani ella non voleva interrogarli, e riteneva inoltre che non avrebbero saputo dirle cosa nessuna, perchè su quel pianerottolo non c'era altro uscio e di sopra non ci stava che povera gente, la quale stava fuor di casa tutto il giorno al lavoro, e di notte dormiva della grossa. La Leggera non rimase molto tempo in forse, ma si affrettò verso il palazzo di Bancone, ed introdottasi nel salottino dove il ricco banchiere riceveva chi veniva a parlargli di affari, gli mandò una sua polizza di visita con due parole scritte a matita che dicevano venisse subito, avere urgente bisogno di parlargli.

E Bancone, interrompendo il suo lauto pranzo ch'egli gustava da vero Epulone qual era, venne sollecito, ma di cattivo umore e impazientemente collerico. Non lasciò parlare la donna, e incominciò egli senz'altro con una sfuriata:

– Brava! Belle cose che mi fai! Bei servigi che mi rendi!.. Ed anche questo di venirmi ora qui in casa è proprio un bel piacere che mi vuoi dare… Ma saccorotto! non te l'ho detto le centinaia di volte che non voglio mi veniate qui a trovare, tu e le pari tue?.. Sono ben buono io a non farvi mandar via e serrar l'uscio in faccia… Ti preme parlarmi?.. Hai di nuovo qualche favore da chiedermi, qualche buon soggetto da raccomandarmi come quella tua Maddalena?.. Un bell'acquisto, affè di Dio, che mi hai fatto fare!.. Io che mi piace vivere tranquillo e che nessuno ficchi il becco nei miei negozi!.. Sai che cosa è capitato a quella tua sviata tortorella?.. E' me l'han presa su i birri e tratta in prigione. Ed io aveva messo in mia casa una simile eroina!.. Ho avuto un bel spavento oggi quando sono entrato colà… Tutto era sottosopra; i mobili aperti, i cassetti tirati. «Buono! pensai, quella tortorella mi ha fatto un repulisti ed alzato i tacchi; te lo meriti, animale.» Corsi alla Polizia senz'altro; ed appresi che quella giovane era niente meno che un'addetta alla famosa cocca, la quale mi ha già vuotato, è poco tempo, la cassaforte, e che tutto quel disordine e quel rifrugamento in casa mia l'aveva fatto l'Autorità per cercare non so che prove, non so che documenti, di cui la birbona era in possesso. Cospetto! Compromettermi colla Polizia, me! Questa è troppo e non me la sarei mai aspettata.

Zoe aveva udito questo diluvio di parole colle braccia incrociate, e pensatevi se con interesse. Ora la sapeva tutto quello che voleva apprendere, e non le restava più nulla da fare in quel luogo: girò sui suoi talloni e s'avviò per partirsi, senza manco aver aperto bocca.

– Ebbene? gridò Bancone meravigliato. Te ne vai di questa guisa? Gli è tutto ciò che avevi tanta urgenza di dirmi?

– Voi avete risposto a tutte le domande che volevo farvi; non ho più nulla da chiedervi. Buona sera.

– Fermati, ascolta, spiegami almeno…

La Leggera non volle fermarsi, nè ascoltare, nè spiegar nulla; partì con una rapidità che legittimava il suo nomignolo, e Bancone di peggior umore di prima, senza capirne niente, tornò a finire il suo pranzo.

Per la Zoe fu evidente che presso la Maddalena erano state trovate e prese le lettere della contessa; credette un tradimento di questa e del marito; ne provò tanto furore che in quei primi momenti pensò ogni più orribil cosa per vendicarsene, e sarebbe stata capace di qualunque eccesso; ma poi la solenne promessa ottenuta dal principe, mercè la quale ella nutriva certezza che Luigi sarebbe salvo ad ogni modo, valse a calmarla. Avvisò che non doveva scegliere tal vendetta del conte e della contessa, che compromettendola, facendola forse incarcerare eziandio o cacciare dal regno, la ponesse in condizione da non poter più vegliare all'esecuzione del giuramento principesco, da non poter più giovare al prigioniero; tutta notte lavorò colla fantasia per trovare un mezzo che soddisfacesse a tutte le esigenze e scelse finalmente quello che abbiam veduto minacciato dal suo oltraggioso biglietto alla contessa.

Ella non pose immediatamente in atto il suo perfido disegno, perchè voleva preparare i suoi colpi di modo che fossero i più efficaci, e due giorni passò meditando e combinando un piano infernale contro di Candida; e quando lo aveva tutto perfettamente immaginato e stava per cominciarne l'attuazione, le venne l'ordine espresso ed energico di lasciar in pace la contessa, in un biglietto di Gian-Luigi.

Quel giorno il marchese di Baldissero e Don Venanzio si erano presentati alle carceri con un ordine in buona forma dell'autorità competente, perchè il detenuto Gian-Luigi Quercia fosse posto in comunicazione con S. E. il marchese e colla persona che lo accompagnava e lasciato solo con essi per quanto tempo l'Eccellenza medesima avesse voluto. Il nuovo capoguardiano, succeduto a quello stato destituito e imprigionato, esaminò ben bene quell'ordine, s'inchinò profondamente innanzi al vecchio che aveva titolo e grado di ministro di Stato; ma invece di ubbidire prontamente, disse con una umiltà che intercedeva perdono per l'indugio:

– Scusi, Eccellenza… l'ordine è in piena regola… io vorrei affrettarmi a servirla… Ma ci è il Sott'Ispettore che ha sotto la sua speciale osservanza quel prigioniero; ed abbiamo ordine di dipendere in tutto e per tutto da lui rispetto a quell'individuo…

– Fate quel che dovete fare: disse tranquillamente il marchese: e il capoguardiano sparì portando seco la carta.

Due minuti dopo entrò con passo sollecito Barnaba, il quale esaminava, camminando, con occhio attentissimo quel foglio che a lui aveva rimesso il capoguardiano. Giunto a due passi di distanza dal marchese, levò lo sguardo e lo diresse sul volto del vecchio gentiluomo che stava attendendo con calma, seria e quasi mesta dignità; lo riconobbe di botto e fece un riverente saluto.

– Mille perdoni, Eccellenza: diss'egli. L'importanza del prigioniero, l'audacia de' suoi fautori che tutto son capaci di tentare per liberarlo, ci obbligano alle maggiori precauzioni…

Il marchese l'interruppe con un gesto che significava: «Va benissimo, e siete compiutamente assoluto: ma ora non fatemi indugiare altrimenti.»

Barnaba, che lo comprese, si rivolse al capoguardiano:

– Introducete questi signori nel parlatorio e sia condotto presso di loro il prigioniero. Li lascierete soli; ma due secondini staranno a ciascuna delle porte.

Il capoguardiano precedette i visitatori in una stanzaccia vicina, e ve li lasciò per andar a prendere il medichino. Le pareti di quella stanza erano nude, imbiancate a calce; delle due finestre che si aprivano verso il cortile, una era murata e l'altra munita d'una grossa inferriata piena di ragnateli, lasciava passare poca luce pel riparo della tramoggia che la difendeva esteriormente; questo poco di luce era ancora impedito nel suo filtrar nella camera dal denso strato di polvere e di indefinibile sudiciume che s'era disteso sui piccoli vetri impiombati. Colà dentro, per effetto di ciò, pareva regnar sempre un crepuscolo grigiastro, di giornata invernale nuvolosa. Per mobili eranvi solamente una tavola di legno non verniciato, una panca, quattro seggiole impagliate; non vi era fuoco e il freddo faceva densamente vaporoso il fiato delle persone. Il marchese e il parroco ebbero ad aspettare pochissimo tempo che udirono un rumore di chiavi che aprivano dei chiavistelli che si tiravano, poi una cadenza di passi numerosi e pesanti che si accostavano giù d'un corridoio, e quindi videro aprirsi un uscio e circondato da quattro ceffi di secondini, presentarsi il fiero viso di Gian-Luigi Quercia.

 

Una mano spinse alle spalle il prigioniero, e poichè fu entrato, la porta pesante gli si chiuse dietro. I tre personaggi che rimasero così in presenza si guardarono in faccia.

Quando il capoguardiano aveva aperto la porta della segreta in cui stava rinchiuso il medichino, questi era dritto a metà del piccolo stanzino, forse passeggiandovi su e giù come soleva quasi sempre e per iscaldarsi alquanto e per occupare e divertire con quel moto l'attività febbrile della sua mente. All'udire aprir la sua prigione in un'ora affatto insolita, in cui non si usava fare interrogatorii, nè era tempo da recargli cibo, Gian-Luigi guardò tutto meravigliato verso il capoguardiano dietro il quale vide la scorta di quattro uomini.

– Che cosa c'è? domandò egli con un accento di lievissima curiosità.

– Siete domandato in parlatorio.

– Dal giudice istruttore?

– No.

– Da chi dunque!

– Da un signore e da un prete.

Quercia fece un sogghigno.

– Oh oh! Mi si manda già il prete… E che cosa mi vogliono?

Il capoguardiano si strinse nelle spalle.

– Sentite, continuò il medichino: se gli è qualche altro tentativo per farmi parlare, è tutto inutile. Io amo che oramai mi si lasci tranquillo, e non più veder nessuno. Sarebb'egli possibile risparmiarmi la noia di questo colloquio?

– No: è ordine preciso di mettervi in comunicazione con quei signori.

Gian-Luigi represse un sospiro, si passò le mani sulla faccia, quasi volesse con quell'atto fermarsi la maschera d'indifferenza superba che imponeva alle sue sembianze e disse:

– Allora andiamo pure.

E tenne dietro al guardiano accompagnato dai quattro secondini, che tosto gli si misero alle coste.

Al primo presentarsi, Gian-Luigi apparve a Don Venanzio un po' più pallido del solito e dimagrato, ma sempre colla medesima aria d'imponenza, di superiorità e di sicurezza. Il marchese, che non ricordava aver visto mai il sedicente dottor Quercia, fissò non senza una certa emozione il suo sguardo sul giovane che, mossi pochi passi, s'era fermato dinanzi a loro, e fu colpito dalla nobile figura di lui, dalla fiera espressione de' suoi tratti, più di tutto da una abbastanza spiccata rassomiglianza colla defunta sua sorella, prova questa non meno delle altre efficace, della discendenza di quel reo, della consanguinità che a lui, marchese, consigliere della Corona, ministro di Stato, confidente del Re, avvinceva quel miserabile.

Gian-Luigi riconobbe di botto il vecchio sacerdote e l'autorevole gentiluomo ch'egli aveva visto più volte e in sociali convegni e nel corteo del Re; e fosse la vergogna di comparire innanzi a que' due in tale stato e condizione, fosse una subita emozione di sorpresa, un lieve rossore gli soffuse le guancie mentre i suoi occhi si chinavano a terra. Ma fu un istante e nulla più. Le pupille si rialzarono di nuovo con tutta l'usata sicurezza, il volto riprese l'impassibilità abituale coperta dalla vernice della cortesia; ed egli si avanzò verso i due visitatori, col garbo e coll'eleganza di un gentiluomo che riceve personaggi degni del maggior rispetto nel suo salotto.

– Loro signori, diss'egli, a visitare il povero carcerato!.. Non mi stupisce di Lei, Don Venanzio; questa è opera di carità, ed Ella è stata posta al mondo per dar l'esempio di tutte le carità: e poi Ella mi conosce e mi fa il generoso regalo di volermi bene. La sua venuta mi prova che questo suo affetto la non me l'ha ritolto, ora ch'io son caduto nella disgrazia; e le accerto che non m'aspettavo punto che fosse altrimenti; ma qual ragione mai può valermi l'onore d'una visita di S. E.?

E' parlava con tanta libertà di spirito ed agiatezza di maniere che il marchese, il quale si sentiva impacciato a dispetto dell'autorità del suo grado, del suo frequente trattare coi più alti personaggi, non potè a meno di pensare quella essere una prova o del soverchio indurimento nel male di quel giovane, o della sua innocenza: osò sperare un istante quest'ultima, e i suoi occhi espressero un desiderio, un'emozione cui notò Gian-Luigi e, non comprendendone il perchè, si affaticò colla mente ad interpretare. Ma per quanto pensasse, non una supposizione glie ne veniva che gli sembrasse avere il senso comune, e tanto si struggeva della curiosità che riusciva a mala pena a frenarla.

Nessuno dei due vecchi aveva ancora risposto, impediti e l'uno e l'altro da diverso turbamento. Quercia, come se fosse nel suo quartiere a far gli onori del sontuoso salotto, accennò con gesto pieno di grazia le seggiole e disse, argutamente sorridendo:

– Facciano il favore d'accomodarsi. Mi rincresce che non ci ho poltrone da offrir loro nè un allegro foco nel camino, che sarebbe troppo necessario in quest'atmosfera da ghiacciaia; ma il generoso padron di casa, che ora mi alberga, non mi concede altre sontuosità da queste.

Siffatta scherzosità dispiacque al marchese: la non gli parve più la sicurezza dell'innocente, ma l'impudenza dell'uomo compiutamente pervertito; la sua nobile fisionomia espresse il disgusto, e la sua fronte si rannuvolò. Gian-Luigi era troppo furbo e pratico osservatore, per non accorgersene subito: smise il suo sogghigno: stese sui suoi lineamenti un velo di mestizia e di dignitoso riserbo, e si volse verso Don Venanzio. Intanto pensava, sempre più intricata in impossibili supposizioni la mente, qual cosa mai menasse da lui quello de' primi fra i potenti personaggi dello Stato.

Don Venanzio aveva gli occhi pieni di lagrime, il petto di sospiri, e guardando il suo antico discepolo, aveva una tale aria di rammarico, di dolore e di tenerezza insieme, che commoveva a vederlo. Dapprima aveva sembrato esitare se dovesse o no stringere ancora quella mano che veniva accusata di opere sì ree; ma la generosa mitezza della sua anima cristiana non lo aveva lasciato lungamente in forse: prese la destra di Gian-Luigi, la serrò con significativa pressione e disse, commossa la voce:

– Crudele figliuolo!.. È così, in queste condizioni, in questo luogo ch'io doveva vederti un giorno!.. Te nato per le grandi cose!.. Ah! se tu avessi ascoltato le istruzioni e i consigli del povero vecchio prete!

Quercia lo interruppe con accento in cui l'impazienza era pur vestita di una certa deferente amorevolezza.

– Ella ha tutte le ragioni del mondo, mio caro Don Venanzio; ma pur tuttavia le sue osservazioni entrano nell'ordine di quella scienza del poi, che fu sempre inutile a tutto ed a tutti. Ella sa la massima principale della mia filosofia pratica della vita: quando una cosa è irrimediabile, da folle il disperarsene, e bisogna portarne allegramente la risponsabilità.

– Ma, sventurato! esclamò il buon prete tremando; tu dunque ammetti essere reo de' falli onde ti si accusa?

– Nè ammetto nè nego… Qui non sono a confessione: soggiunse con quel suo mefistofelico sogghigno: d'altronde Ella sa che io e la confessione non ce la diciamo troppo… Sono in mano della giustizia umana, a lei l'adoperarsi coi mezzi che le spettano a scoprire la verità; io lascio fare: e mi darò la soddisfazione di ridere o di maledirla se la sbaglia… Ma questi non sono i discorsi che debbono interessare S. E. il marchese di Baldissero, perchè non credo un sì autorevole personaggio siasi di tanto scomodato per venire a darmi il gusto di una conversazione da avvocato fiscale con un povero inquisito.

Le impressioni che provava il marchese erano molteplici e contrarie: ora badando solo alla voce di chi parlava, alle aggraziate movenze di quel giovane leggiadro, alle fattezze del viso, a certe arie, al complesso esteriore di quell'avvenente persona, egli si sentiva grado grado intenerire dalla dolcezza d'una cara memoria lontana, gli pareva scorgere in quelle le arie, le mosse, le intonazioni di voce di sua sorella, si lasciava vincere da un interessamento che era come la forza della consanguinità che lo spingesse; ora ponendo mente al significato delle parole cui pronunciava quella voce tanto simpatica, provava una ripugnanza contro lo spirito che le dettava, ed una specie di riazione, cancellando ogni ombra di tenerezza, gli rendeva poco meno che odioso quel disgraziato nel quale non vedeva più che un diabolico cinismo.