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La plebe, parte IV

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– Ella, quantunque viva all'infuori delle esigenze e delle passioni del mondo, pur sa, reverendo, quali siano gli obblighi che a noi, gentiluomini, impone l'onore della famiglia, e a quelli nè io nè mio figlio non saremo per mancare giammai.

Padre Bonaventura incrocicchiò le mani, le serrò al petto che teneva ricurvo, levò un momentino gli occhi al soffitto e poi li abbassò tutto compunto, mandando un profondo sospiro che voleva significare:

– Eh! pur troppo conosco le crudeli esigenze dell'onore mondano: le deploro, ma sono disposto a dar loro passata.

Il marchese continuava:

– Ciò riguardo a quello scellerato; ma riguardo a mia figlia ed al frutto della sua colpa, sento il bisogno di consultarmi con un buon religioso qual è Lei, padre Bonaventura.

Il gesuita s'inchinò.

– Di udire dalle sue labbra se le mie decisioni possono approvarsi da Quel di lassù, come sento che le approva e stima necessarie la mia coscienza.

Queste parole erano dette con una maschera di umiltà sì mal messa che di sotto appariva agevolmente e più effettivo ancora il vero intendimento del favellante, che suonava: «Voglio che mi diate la ragione, e coll'autorità del vostro carattere religioso consecriate come opera irriprovevole lo sfogo della mia passione.»

Bonaventura prese il contegno di chi si mette ad ascoltare con profonda, vivacissima attenzione.

– Disgiunta dal suo vile seduttore, mia figlia sarà tenuta in luogo dove nessuno la veda nè pur la sappia finchè siasi liberata… Dopo, appena guarita, entrerà in un monastero, dove rimarrà finchè… finchè decideremo noi che basti… Lei, padre Bonaventura, mi farà il favore di cercarmi un monastero acconcio, in cui possa ravvedersi quella povera anima, espiare colle preghiere e colle macerazioni della carne il proprio fallo, e dove nello stesso tempo non si dimentichi che quella è figliuola del marchese di Baldissero.

Il gesuita tornò ad inchinarsi.

– Mi farò una premura d'obbedirla, Eccellenza, diss'egli, e spero che riuscirò a soddisfarla compiutamente.

Successe un istante di silenzio; il marchese pareva non voler più dir nulla; il frate, chinato un poco verso il suo interlocutore, stava nella mossa di chi aspetta il principale del discorso; Nariccia, rimasto sempre a bocca chiusa, seduto un po' discosto, guardava di sottecchi colle sue pupille bircie ora l'uno ora l'altro.

– E?.. e?.. disse poi il frate.

– Che cosa? interrogò il marchese superbamente.

– E il fanciullo? susurrò con voce sommessa che quasi non s'udiva, padre Bonaventura.

Nella faccia del marchese apparì quella feroce espressione che già gli conosciamo.

– Quel fanciullo, diss'egli a voce bassa, ma fremente, è l'onta della mia famiglia personificata: e come questa onta si de' cancellare, così egli ha da scomparire.

Padre Bonaventura si trasse indietro colla seggiola; Nariccia fece un leggier trasalto sulla sua.

– Scomparire! esclamò il frate; come la intende, signor marchese?

Questi si piegò verso il gesuita.

– Che privilegio può aver egli ad una sorte diversa da quella degli altri frutti di simili colpe? La famiglia di suo padre andrà dispersa, nella nostra non può entrare: non gli resta che il destino del trovatello. Sarà posto come tale in un ospizio.

I due che udivano queste parole erano troppo soggetti al potente personaggio che parlava, per manifestare in alcun modo, anche il più lieve, la menoma riprovazione, e fors'anco non sentivano neppure entro sè veruno sentimento siffatto; ma tuttavia a que' detti del marchese tenne dietro un silenzio che tornò per tutti impaccioso e che nessuno sapeva rompere.

Fu il signor di Baldissero che dopo un poco riprese a dire come complemento del precedente discorso:

– A quell'ospizio, nello stesso tempo che sarà presentato il bambino, arriverà una vistosa somma d'elemosina, così che tutti i compagni di sventura di quel frutto della colpa avranno dalla sua venuta alcun giovamento; e nello stesso tempo, a propiziare la divina pietà all'anima medesima di quell'empio che mi rapì la figliuola, alla nostra così crudelmente provata famiglia ed alla sorte del neonato, intendo presentare alcuna offerta alle chiese dei Ss. Martiri e della Madonna del Carmine, che sarà di due lampade d'argento, e pregare la loro carità, reverendi padri, a voler dire un centinaio di messe a mia intenzione.

Padre Bonaventura s'inchinò più basso di quello che non avesse ancora fatto per l'innanzi, e disse col suo tono mellifluo, colla sua voce untuosa, coi suoi occhi bassi e colle sue mani incrociate:

– S. E. invero è sempre un esemplare di sentimenti religiosi e di generosità. Iddio saprà darle compenso, e dileguate queste poche nubi, vedrà che le manderà più splendido il sereno di quella felicità anche terrena che la si merita.

Fece una pausa, mandò un sospiro, strabuzzì degli occhi e poi riprese con maggior compunzione:

– Ah! certo Ella ora si trova in una penosa condizione. La nostra divina religione inculca il perdono delle offese, ed io che conosco il suo bel cuore so quanto sarebbe pur dolce a Lei il perdonare.

Il marchese fece una smorfia, che smentiva ricisamente l'allegazione del frate.

– Ma, continuava questi, pur troppo noi non possiamo aggiustare il mondo e le cose come vogliamo, e ci conviene accettare quali sono le circostanze in cui ci volle mettere la Provvidenza. Ella, pel grado che occupa, pel lignaggio a cui appartiene, per le condizioni sociali in cui si trova ha certi obblighi, certe necessità su cui non può transigere, ed è volontà divina che ciascuno compia suoi doveri varii secondo il diverso stato. Considerata adunque bene ogni cosa, io credo che V. E, fu bene ispirata nelle sue decisioni, e che a Lei, nel metterle in atto, non sarà per mancare il divino aiuto.

Il marchese si alzò; e gli altri ne seguirono lo esempio.

– Non dubitavo punto che avrei trovato anche questa volta in Lei, padre Bonaventura, quel religioso prudente e di buon consiglio che sempre mi si mostrò. Ecco dunque ciò che rimane da farsi. Voi Nariccia partirete con mio figlio per essere colà sopra luogo a provvedere a tutto ciò che possa occorrere. A voi l'incarico di condurre Aurora nel più rimoto ritiro che sappiate trovare; a voi quello di togliere, quando sia tempo, dal fianco di lei il neonato… A Lei, padre Bonaventura, l'accorrere presso la infelice a farle udire la voce di Dio e condurla al convento… Io, quella disgraziata, non la vo' manco vedere… Non ho bisogno di dirvi, Nariccia, che tutto quanto occorrerà, potrete spendere.

Il gesuita e l'Intendente uscirono insieme, e il secondo accompagnò il primo per un tratto di strada verso il suo convento.

Non si parlarono per un po': sembrava che evitassero perfino di guardarsi. Ad un punto fu il frate che, chinatosi vivamente verso il suo compagno, gli disse all'orecchio:

– Credo che fareste bene a mettere un segno a quel bambino nell'esporlo, affinchè in un caso qualunque lo si potesse riavere… Non si sa mai quel che possa arrivare!..

Nariccia fissò entro gli occhi il gesuita e gli sguardi di quei due maliziosi s'affondarono l'un nell'altro.

– Ci ho già pensato: disse poi l'intendente. E continuarono la loro strada in silenzio.

E di molte cose ne aveva pensato il tristo Nariccia. Egli aveva continuato a mantenersi in relazione col rapitore d'Aurora; quando Valpetrosa stava per partire, aveva scritto all'intendente dei Baldissero quella lettera di cui il medichino aveva letta una parte salvata dalla fiamma, allorchè Graffigna, che se n'era impadronito in casa dell'assassinato Nariccia, aveva voluto porgergli fuoco da accendere il sigaro.

Ritirate da Valpetrosa le quindici mila lire che aveva creduto necessarie per la sua fuga con Aurora, un altrettanto e più di spettanza del giovane milanese rimaneva tuttavia presso Nariccia; e questi, posseduto fin dalla sua prima giovinezza da una smania feroce di arricchire, dalla passione dell'avaro e da quel rabbioso amore dell'oro onde cotanto si degrada l'anima umana, all'apprendere la venuta del fratello d'Aurora e il suo disegno di vendetta su Valpetrosa, aveva pensato che quando questi nello scontro con Baldissero morisse, quella somma rimarrebbe sua senz'altro.

Quando arrivarono in Milano Baldissero coi suoi due padrini e Nariccia, quest'ultimo, mentre gli altri per l'ora troppo tarda decidevano di non presentarsi a Valpetrosa che il domattina, di soppiatto e sollecitamente recavasi dallo sposo d'Aurora ad avvisarlo di quel che lo minacciava. Il giovane ebbe una forte emozione che non cercò nemmeno dissimulare: ah! non era timore per sè, che dotato egli era d'ogni valore; ma era paura, viva paura del dolore e della sorte che sarebbero toccati a sua moglie ed al figliuolo suo nascituro. Macchiarsi egli del sangue del fratello di lei era grave al suo pensiero, ed era più grave ancora il pensare ch'egli stesso potesse nello scontro soccombere. Per intanto ciò che premeva era fare in modo che Aurora non avesse a concepire pure un sospetto della minacciata sventura, da avanzarle almanco delle ore penosissime di spasimi e paure. Decise a quest'effetto che il mattino vegnente si sarebbe appostato fin di buon'ora sulla strada ad aspettare la venuta dei padrini di Baldissero, perchè non avessero da entrargli in casa ed esser visti dalla sposa, la quale, riconoscendoli, avrebbe potuto agevolmente indovinare il motivo della loro presenza. Già di molto erasi turbata Aurora del vedere l'intendente di suo padre, e benchè le avessero detto che cagione di questa venuta erano gli affari d'interesse tuttavia pendenti fra quell'uomo e suo marito, tuttavia una specie d'istinto la teneva in un'ansietà piena di sospetti.

La seconda e rilevantissima cosa a cui volle provvedere Valpetrosa fu il destino della moglie e del figliuolo da nascere. E per ciò a cui aveva egli da affidarsi se non a Nariccia, al quale la sua fama di religioso dava aria di onesto, e che, nelle attinenze sino allora avute, all'inesperto e confidente giovane era apparso fedele e leale? Lo pregò volesse egli assumere codesta opera pietosissima; salvasse Aurora e il suo bambino dall'ira e dalle vendette della famiglia di lei; gli consigliò la moglie e la madre da cui la morte lui disgiungesse, Nariccia facesse riparare in qualche oscuro, rimotissimo luogo della Svizzera, e là sovvenisse di quanto abbisognavano quelle infelici; egli, Valpetrosa, con una ultima lettera da consegnarsi loro in caso di sua morte, avrebbe alle medesime manifestato come in tutto e per tutto dovessero in lui rimettersi ed a lui affidarsi.

 

Quanto ai mezzi di vivere, quanto alle fortune di quelle poverette, ohi come si dolse allora Valpetrosa d'avere così sconsideratamente sciupata tanta parte dell'aver suo! Ma quel che rimaneva, come fare perchè rimanesse e bastasse al sostentamento della famigliuola, e s'aumentasse da fornir poi al figlio che doveva nascere se non un'agiatezza, quanto meno una sicurezza del pane? Qui si trovarono a fronte la facile fiducia e la leale natura del giovane da una parte e dall'altra la frodolenta accortezza dell'antico servo dei Gesuiti, il quale non era stato tardo ad architettare per queste circostanze sopra le proposizioni del giovane un suo perfido disegno. E si decise: che Valpetrosa facesse un atto solenne di cessione d'ogni aver suo a Nariccia medesimo, perchè da costui si potesse esigere ogni capitale di spettanza del primo ed insieme colle somme che ancora rimanevano presso di lui in deposito, trafficarlo nelle sue speculazioni ch'e' chiamava bancarie; che di tutto questo avere il depositario pagherebbe un annuo interesse del cinque per cento non che una data parte degli utili ricavati dall'uso di tali somme, le quali annualità sarebbero pagate a Valpetrosa medesimo finchè e' vivesse, alla madre ed alla moglie venendo egli a mancare; che Nariccia pagherebbe a semplice richiesta di Valpetrosa di chi per lui, tutto o quella parte di tal capitale che si volesse poi ritirare; e che per impedire gli effetti giuridici di quell'atto di cessione, Nariccia avrebbe rilasciato a Maurilio una privata dichiarazione, con cui si certificasse come quella cessione fosse una finta soltanto e si determinassero i veri patti fra loro intravvenuti.

Valpetrosa prese di poi le mani dell'ipocrita Nariccia, e stringendogliele con forza, guardandolo con occhi umidi, con atto e voce che erano tutta una supplicazione, soggiunse:

– Vi raccomando ancora una volta Aurora e mia madre… e mio figlio! (Nel dire quest'ultima parola, tremò la sua voce.) Oh mio figlio! Se il mio sangue avesse da farlo felice, con qual gioia lo darei tutto!.. Egli porterà il mio nome… Aurora lo desidera… lo desidero anch'io… ricordatevene! ch'ei sia battezzato sotto il nome di Maurilio… Ma più di tutto egli e sua madre sieno sottratti alla famiglia di Baldissero… Appena lo scontro avvenuto, s'io muoio, accorrete a torli di qua, perchè il marchese non li trovi… Ch'e' fuggano, per amor di Dio!.. Voi me lo promettete? Voi me lo giurate?

Nariccia diede tutte le promesse e tutti i giuramenti che piacquero a Valpetrosa, e questi ebbe il coraggio di rientrare colà dove aspettavalo sua moglie, con una fronte serena così che Aurora se ne sentì rassicurare la povera anima conturbata.

CAPITOLO III

Era una fredda mattinata invernale, e Maurilio Valpetrosa tutto avvolto nel suo mantello stava passeggiando da un po' di tempo nella strada innanzi alla sua abitazione, quando, visto da lontano due persone bene imbacuccate ancor esse venire a quella volta, e' si piantò sulla soglia del portone che metteva nella casa ove dimorava; e trattasi giù dal viso la falda del mantello, lasciò scorgere le sue leggiadre fattezze. E' non s'era ingannato nella sua previsione; que' due si fermarono a quella porta, lui guardarono bene, si ammiccarono, scambiarono sommesso e ratto due parole, ed avvicinandoglisi uno si scoprì la faccia del pari e gli disse con un accento in cui sotto una finta cortesia nascondevasi un'ostilità superba:

– Giusto Lei, signor Valpetrosa, è la persona di cui venivamo in traccia… La mi riconosce?

Valpetrosa fece un lieve inchino ed un gentile sorriso:

– Perfettamente, rispose, signor conte di Castelletto.

Il compagno di costui s'era pur egli scoperta la faccia, e il conte lo presentava dicendone il nome.

– Ed ora, riprese Valpetrosa con elegante scioltezza, a che cosa debbo attribuire l'onore che mi fanno cercandomi?

Rispose il conte di Castelletto:

– È cosa che richiede per dirsi altro luogo più acconcio che la strada; ma spero ch'Ella indovinerà agevolmente la qualità della nostra ambasciata, sapendo che ci manda il marchese di Baldissero figlio, il quale è qui, a Milano, venuto apposta da Madrid.

– Capisco senza bisogno d'altra parola: disse Valpetrosa con una serena tranquillità, ma benchè mi rincresca assaissimo il non poter aver l'onore di accoglierli nella mia umile casa, capiranno, spero, senza difficoltà anche loro le ragioni che mi tolgono di invitarli a salire nel mio quartiere.

I due padrini di Baldissero fecero un moto di assenso.

– D'altronde, continuava lo sposo d'Aurora, quello che si ha da trattare fra chi li manda e me, esige anche da parte mia l'intravvento di intermediarii. Faccianmi il favore di stabilire un luogo di ritrovo e fissare un'ora, ed io manderò colà i miei rappresentanti.

– È giusto: rispose di Castelletto. Ella non vorrà stupirsi se questo ritrovo lo fisseremo ad un'ora piuttosto vicina. Per le ragioni ch'Ella può facilmente immaginare, il marchese brama ardentemente che ogni cosa sia presto, assai presto finita.

Valpetrosa sorrise con mesta ironia.

– Capisco la sollecitudine del signor marchese, diss'egli, e non la condanno; anzi la partecipo ancor io. Ma lor signori capiranno pure come, per quanta volontà io abbia di accondiscendere alle brame del signor marchese, mi ci vuole un certo tempo a trovare due fidati amici a cui commettere il mio mandato, e come io, dovendomi preparare a quello che è scopo della loro venuta con provvedere ad infinite cose, non posso altrimenti che differire a domani l'onore di trovarmi a fronte del loro principale.

I padrini di Baldissero mossero di subito alcuna obiezione, da cui non si lasciò smuovere Valpetrosa, il quale dichiarò fermamente che nulla lo avrebbe fatto cambiare di proposito a tal riguardo. Si stabilirono il luogo e l'ora de! convegno fra i padrini, e poi sì separarono. Lo sposo d'Aurora non tardò a trovare due amici che acconsentirono a rendergli quel funesto servizio, e si decise che il duello all'ultimo sangue avrebbe avuto luogo il domattina per tempissimo, arma la spada.

Tutto quel giorno Valpetrosa ebbe lo straordinario coraggio di comparire in presenza di sua moglie e di sua madre più lieto, sereno e tranquillo che mai; se vi fu un cambiamento in lui non si mostrò che nella tenerezza dell'affetto che si sarebbe detta più espansiva e maggiore; potè avere la forza d'animo di parlare con Aurora dell'avvenire, di confortarla colle più lusinghiere speranze d'un destino migliore, di parlare delle gioie che la nascita del loro bambino avrebbe arrecato a far più prezioso e più santo ancora il diviso amor loro. E in cuore il misero aveva pur troppo i più funesti presentimenti; e la sua natura abitualmente risoluta era tutto ondeggiante fra le più opposte contraddizioni. Ora non voleva difendersi, voleva disarmare il suo avversario colla mitezza del suo contegno, presentandogli il petto indifeso, chi sa che alcun resto dell'antico affetto non fosse ancora per lui nell'animo di Baldissero, ed al vederlo così non si ridestasse tornando quale al tempo della loro amicizia? pensò perfino un momento – ma fu un solo momento – ad umiliarsi innanzi all'avversario, a tentare di vincerne colle parole e colle supplicazioni la collera, a dirgli come di loro l'uno a niun modo potesse uccider l'altro, perchè egli non doveva tornare dalla sua sposa lordo del sangue del fratello di lei, e questi non poteva presentarsi alla sorella, omicida dell'uomo a cui ella aveva dato l'amore, la sua sorte, tutto di sè. Ora invece egli pensava a difendersi con ogni vigore, a combattere con accanimento, ad offendere con feroce ardimento. I vincoli del sangue, le memorie dell'antico affetto non dovevano aver più ragione alcuna di farlo riguardoso verso i giorni di Baldissero: non s'aveva da veder più in costui che un fiero nemico il quale veniva per distruggere la sua felicità. Era suo diritto, era suo dovere, anche per Aurora, il ripulsarne, fosse pur colla sua morte, la minaccia e l'offesa.

Ed era egli tuttavia colla tenzone di questi varii pensieri in capo quando il mattino di poi Valpetrosa vide giunta l'ora di recarsi al fatale convegno. A Nariccia, col quale il giorno innanzi aveva terminato ogni cosa che occorresse per quel certo aggiustamento che ho detto; a Nariccia, cui aveva pregato di un ultimo abboccamento prima dello scontro, Valpetrosa diede la lettera per la moglie e per la madre e tutte le più minute istruzioni sul modo di governarsi, ed ottenuto anco una volta i più solenni giuramenti di fedeltà da quell'ipocrita, partissi accompagnato da' suoi padrini pel luogo del ritrovo, mentre Aurora, ignara affatto d'ogni cosa, dormiva tuttavia tranquillamente.

Quale fosse l'esito del duello fra il marchese di Baldissero e Maurilio Valpetrosa, lo sappiamo già dalle parole che dal primo di costoro sorprendemmo pronunziate a se stesso in un momento d'angoscia nell'attesa del figlio e poscia nel suo colloquio col Governatore.

Non vi narrerò la desolante scena che avvenne quando in casa di Maurilio Valpetrosa fu quest'ultimo recato in aspetto di cadavere, innanzi alla povera Aurora che di nulla sapeva, ma che pur tuttavia era turbata da un'indefinibile inquietudine che era un presentimento di sventura. Il marchese di Baldissero non volle, non osò presentarsi innanzi alla sorella per annunziarle cotanta disgrazia; e nessuno l'osò di quelli che avevano assistito al duello fatale, da Nariccia in fuori, a cui si diede e il quale accettò l'incarico di correre a preparare, per quanto fosse possibile, al brutto colpo l'anima sensitiva dell'infelice amante. Ma Nariccia, fosse insufficienza in lui al dilicato ufficio, fosse anche (e di quel tristo ben può pensarsi cotanto orribile disegno) uno scellerato proposito di ferire mortalmente al cuore la misera donna, annunziò la cosa in modo che Aurora svenne e parve dovesse morire di quel colpo ancor essa. La madre di Valpetrosa non aveva guari maggior forza e coraggio della sposa di lui. Il trafitto recato con ogni precauzione a casa, non potè parlar più, non potè più esprimere che cogli sguardi i suoi ultimi addii alle dilette persone del suo cuore, e raccomandarle ancora a Nariccia, e morì fra le braccia delle sconsolatissime donne.

Fu allora che primamente Baldissero ardì entrare in quella casa in cui egli aveva recato il dolore. Aurora giaceva priva di sensi abbandonata sul corpo di suo marito che abbracciava strettamente: la vecchia madre, in un accesso di dolore furibondo, malediva colei che aveva portato al suo figliuolo la barbara morte immatura.

Baldissero sentì stringersi il cuore, e fino da quel momento gli penetrò nell'animo quel dubbio crudele che gli abbiamo udito manifestare tanti anni dopo all'epoca del nostro racconto, quando si domandava, s'egli aveva avuto il diritto di troncare colla spada dell'omicida il nodo di quelle due esistenze, se Dio aveva da perdonargli l'aver versato quel sangue.

Mentre il marchese rimaneva colà fermo, immobile, sovraccolto, la faccia pallida, i lineamenti contratti, stretto il cuore da un'emozione impossibile a dirsi, Nariccia gli si appressò rispettosamente, e gli parlò piano:

– Che ordina Ella si faccia?

Il fratello d'Aurora volse su di lui uno sguardo torbido e semispento.

– Lasciamo quell'infelice al suo dolore. L'intendente s'appressò ancora di più al figliuolo del suo padrone e soggiunse con voce ancora più bassa:

– Mi rincresce, ma ho altri ordini da S. E. il marchese suo padre.

Baldissero levò la testa con qualche vivacità:

– Ah! quali?

– Trar subito fuori di questa casa l'illustrissima signora marchesina Aurora.

– Per condurla dove?

– Ho già preso a pigione una comoda casetta fuori di città dove è intenzione di S. E. che nascostamente da tutti la stia finchè siasi sgravata… E mi pare opportuno profittare di questo suo stato medesimo per togliere la signora marchesina di qua.

Il marchese stette un momento sopra pensiero e poi rispose asciuttamente:

– Fate quel che vi ha comandato mio padre.

Quando Aurora tornò in sè la si trovò in letto entro una stanza che non aveva visto mai, con intorno un medico sconosciuto, la sua cameriera Modestina e dietro le cortine del letto l'ombra d'un uomo ch'ella non poteva scorgere chi fosse.

 

Dapprincipio non la si ricordò di nulla; non sentiva che un indolorimento generale, e per raccogliere il suo pensiero aveva bisogno d'uno sforzo penosissimo che gli tornava come una viva trafittura al cervello. Ma poi venne la funesta memoria: gittò un grido e volle gettarsi giù dal letto: ve la trattennero con amorosa violenza.

– Lasciatemi, lasciatemi… Il mio Maurilio!.. Il mio Maurilio!.. Dov'è?.. Voglio vederlo ancora… Siate pietosi… Vo' morire con lui.

L'ombra d'uomo dietro le tende s'agitò, si mosse e come tratto da una forza esteriore, venne fuori con passo lento, quasi riluttante fino all'arrivo degli sguardi della giacente.

Questa mandò un'esclamazione soffocata che pareva di sorpresa: si lasciò andare sul letto senza più sforzi per togliersene, guardò fiso fiso un istante la faccia di quell'uomo che pareva non poter riconoscere. Dopo un poco allargò le pupille, come sotto l'impressione d'un insuperabile orrore, si trasse indietro sui cuscini più che potè, allungando innanzi le braccia come per respingere un'orribile visione ed esclamò con accento pieno di ribrezzo, di sdegno, d'odio:

– Via, via, via!.. Tu qui!.. Tu osi venir qui!..

Il fratello d'Aurora si ritrasse; uscì di quella stanza con infinita oppressura dell'anima.

La misera diede nuovamente in ismanie: ma il medico che le stava al fianco trovò pure le magiche parole con cui ricondurla alla calma, infonderle forza e coraggio.

– Se la fa di questa guisa, le disse, la si uccide.

Aurora lo guardò con una certa espressione che significava chiaramente: – E che m'importa? Se gli è questo appunto ch'io voglio!

Ma il medico lesto a soggiungere:

– E la sua morte sarà quella eziandio della innocente creaturina che porta nel suo seno. Ella ha l'obbligo, il sacrosanto obbligo di conservarsi per suo figlio.

Aurora non rispose parola: ma si calmò di presente; stette lungo tempo sopra pensiero, muta, immobile, appena se con sembianza di viva, tanto era pallida, solo che tratto tratto due grosse lagrime le colavano giù delle guancie. Quando il medico tornò a vederla, ella gli disse piano:

– Ha ragione. Debbo vivere per mio figlio: e lo voglio… Mi faccia guarire.

Il medico si pose con tutta la sua scienza e con tutto il suo zelo a lottare contro la morte che pareva aver già posto il suo artiglio su quella infelice; e la lotta fu varia, lunga, dolorosa.

Mai non fu che il marchese fratello d'Aurora le comparisse dinanzi: il medico lo aveva assolutamente proibito: ma Baldissero seguiva con ansia e sollecitudine l'andamento della malattia di lei, nè si sarebbe mosso di colà se notizie arrivate di Madrid non avessero costrettolo ad una ratta partenza. Suo figlio nato da poco, Ettore, era stato assalito da una di quelle malattie infantili che tante vite mietono nella prima età e temevasi pei giorni suoi. Il marchese raccomandò la sorella a Nariccia, e partì.

Ed era proprio in buone mani, la povera Aurora, affidata alle cure di quel tristo uomo di Nariccia, il quale veniva dicendosi fra sè con cinica e scellerata speranza:

– Se questa donna morisse, portando seco nel mondo di là il frutto del suo amore, chi vi sarebbe ancora a cui dovrei dar conto dei capitali di Valpetrosa?

Legalmente egli s'era già governato di modo da non avere ostacolo nessuno alla sua ruba, poichè aveva fra le carte dell'ucciso Valpetrosa frugato, trovato quella sua dichiara che certificava simulata la cessione, presala e distruttala: ma se la vedova e il figliuolo del derubato sparissero, tanto di meglio: alla madre di Maurilio contava dare una piccola somma per azzittirla.

Ma dopo alcuni giorni intorno all'ammalata venne da Torino un'altra persona, mandata dal padre medesimo di lei: il frate Bonaventura, il quale Aurora guarita e liberata, doveva poi condurre al scelto monastero: e la misera vedova di Valpetrosa fu dunque in piena balìa di queste tre persone: Nariccia, il gesuita e la fante Modestina Luponi. Quella che per si poco tempo era stata sua suocera non sapeva dove Aurora fosse riparata, nè ancorchè lo avesse saputo avrebbe cercato vederla: ned Aurora chiese mai menomamente di lei.

Non andò gran tempo che una quarta persona si aggiunse a prestare le sue cure alla giacente, e queste furono le cure veramente amorevoli ch'ella ebbe. La cameriera, Modestina, si lagnava che da sola erale troppo faticoso e poco meno che impossibile il bastare ai moltissimi ed incessanti uffizi da rendersi all'ammalata, e siccome se a quella piccola schiera in mezzo a cui viveva Aurora era da aggiungersi una persona, questa volevasi delle più fidate, Modestina, che tutta oramai s'era posta ai servigi di Nariccia e di Padre Bonaventura uniti in una comune e strettissima lega d'interessi, suggerì ella stessa una donna che secondo lei poteva ed era dispostissima ad aiutarla nell'accudire l'inferma, senza pericolo di ciarle o d'indiscrezioni qualsiasi: ed era questa insieme una buona opera che la Modestina, in quel tempo non ancora trista del tutto, come quando la conoscemmo noi sotto il nome di Gattona, invecchiata e pezzente, faceva in vantaggio d'una povera vittima, che era sua cognata, la moglie di suo fratello Michele, soprannominato più tardi Stracciaferro.

E qui ci occorre fare una nuova digressione per narrare brevemente la storia di questa infelice.

Si chiamava Eugenia ed era figliuola di un armaiuolo; questi che un tempo se la ricavava per benino, aveva fatto dare alla figliuola un po' d'educazione di cui essa, dotata d'un ingegno non comune, d'una buona volontà eccezionale e di una rarissima disposizione ad apprendere, aveva tratto un tal profitto che si sarebbe giudicato impossibile. Bellissima e virtuosissima, aveva intorno una nuvola di galanti, da cui era la sua saviezza sola a difenderla, perchè sua madre era morta, e suo padre, sempre inclinato al vizio, s'era ora buttato sulla mala strada addirittura e crescevano in lui lo sciupo del danaro, la smania dei bagordi nella proporzione diretta con cui diminuivano il lavoro ed i guadagni.

Michele era allora maestro di scherma; era di umore irascibile, di carattere impetuoso, d'abitudini manesche, conscio della sua forza e facilmente tracotante, ma non aveva commesso ancora atto che si potesse dir disonesto. La sua abilità nel mestiere gli dava sufficienti guadagni, e il marchese di Baldissero dietro la raccomandazione della cameriera di sua figlia (sorella di Michele) lo aveva fatto nominare eziandio maestro all'Accademia militare. Per ragione del suo mestiere. Michele aveva dapprima conosciuto l'armaiuolo padre di Eugenia, e veduto poscia quest'essa se n'era fieramente innamorato. Aveva cercato ogni maniera per diventare intrinseco dell'armaiuolo; e siccome la più facile era quella di farglisi compagno nella vita disordinata ch'ei menava, Michele, il quale aveva pur esso le medesime tendenze, non trascurò questo mezzo e divenne il compagno assiduo delle orgie e dei bagordi di quello sciagurato, il quale in breve tempo ebbe la maggiore ammirazione e della robustezza di stomaco del maestro di scherma che ingollava vino a bizzeffe senza manco darsene per inteso e della forza straordinaria dei muscoli di lui che lo facevano temuto e rispettato da tutti e la miglior salvaguardia per quelli che fossero dalla sua in ogni baruffa che potesse nascere, tanto che non poteva più passarsela senza l'amico Michele.

Quando adunque quest'ultimo ebbe fatto appena un cenno del suo amore per Eugenia e del suo desiderio d'ottenerla, il padre di lei glie la gettò, come si suol dire, fra le braccia, lieto e di far cosa grata al suo amicone, e per dir tutto il vero, di sbarazzarsi d'un imbarazzo e d'una spesa.