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La plebe, parte IV

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Ma il giovane, facendo cenno col capo lo lasciasse continuare chè tutto aveva bisogno d'esprimere il suo pensiero, riprese dopo un poco:

– Potrei scusare il mio trascorso coll'alterazione mentale che mi assalse; ma non voglio, perchè ho il debito e m'incombe aver il coraggio di dirle la verità. Quello che mi sfuggì dalle labbra a quel punto, usciva proprio fuor dell'anima mia, è il segreto della mia esistenza. Sono anni ed anni, o Virginia, ch'io v'amo d'un amore impossibile ad esprimersi.

Virginia fece un movimento.

– Non mi sfugga, soggiunse ratto il giacente; non m'imponga tacere. È un uomo che deve morire fra poco quello che vi parla. Lo stampo della morte consacra solennemente ogni affetto, e questo è santo come santa è l'anima vostra. La confessione d'un moribondo si deve ascoltare con animo pacato e pietoso; l'orgoglio umano, i pregiudizi terreni devono tacere innanzi ad un amore che sta per nascondersi dietro una tomba. Uditemi, Virginia, in nome del cielo! Sarà l'unica volta che vi avrò fatto penetrare nell'anima mia. Avrò così aggiustata definitivamente questa partita de' miei affetti terreni, e non ve ne parlerò più mai. Io vi parlerò come se ad ascoltarmi qui fossero la vostra madre che voi perdeste – e la mia, che non conobbi mai! – E forse i loro spiriti qui sono e ci assistono. La vostra fierezza e la vostra purità non avranno da essere turbate pur da un'ombra di corruccio.

La donzella appoggiò, come per sorreggersi, la sua destra bianca, sottile, dalle dita affusolate sopra la spalliera d'una seggiola vicina, e con dignitosa semplicità, con nobile fiducia, disse benignamente:

– Parlate!

E il giovane, con un fuoco che l'interna passione ispirava pure alla sua debolezza, con un impeto di parola, che era come un residuo del suo delirio, ma temperato dalla soavità dell'affetto, così parlò:

– Vi ho amata quando ero appena al limite dell'infanzia, sulla soglia della turbolenta adolescenza della creta e del pensiero. Vi ho amata, non perchè foste bella soltanto, ma perchè la vostra bellezza mi incarnava dinanzi la più alta espressione di quell'ideale a cui, inconsciamente ancora a quel tempo, ma pure con ardentissimo anelito già aspirava l'anima mia. Ho amato il vero, quella parte del divino concessa alla nostra natura nelle sue manifestazioni più pure, più splendide, nella poesia, bellezza intellettuale, nella virtù, bellezza morale, in voi, bellezza di forme che le altre due vestiva ed incarnava… Non arrossite, non vi corrucciate: vi parlo come parlerei all'angelo mio custode; non c'è ombra di intendimento interessato in me, non voglio commovervi nè lusingarvi; vo' dirvi quel che foste per me, quel che siete, quel che potete essere nel mondo… Era naturale, era fatale ch'io così vi amassi. Voi rappresentate tutto ciò che vi ha di bello e di superiore nell'umana famiglia, circondato dallo splendore delle distinzioni, dell'eleganza, dell'autorità e delle grandezze sociali: voi siete il risultamento più completo e più perfetto dello stato attuale della coltura e del progresso dell'umanità, fisico, morale, intellettivo, estetico, economico. Il pensiero, il lavoro, i travagli dell'uomo di tutti i secoli trascorsi hanno cospirato per crear voi e disporvi intorno l'ambiente opportuno. Siete il frutto dell'intelligenza applicata a tutti i rami dell'attività umana; la civiltà vi ha fatto un piedestallo e voi raggiate sovr'esso, personificazione di quanto di buono e di bello seppe arrivare e conseguire il secolo. Io sono la plebe, la povera plebe che guarda da lontano il banchetto imbandito ai ricchi, e muor di fame invidiando: banchetto non di cibi materiali soltanto, ma di amore e di pace, di sapere e di fama, di potenza e di virtù. La plebe che col suo lavoro e co' suoi stenti concorre all'opera del progresso e non ne fruisce che poco o nulla, che ha, nell'oscurità delle sue grandi masse ignorate, dato sforzi, sudori e vite per ottenere il tesoro di agi sociali del secolo XIX, e vive tuttavia nella barbarie di due secoli addietro; la plebe che contenuta, domata, ignorante, con un barlume soltanto o con false idee de' suoi diritti, sta accalcata, premuta alla base della società, ma s'agita talvolta e tiene il collo levato verso lo splendore della luce, essa fitta nelle tenebre!.. Io son la plebe; ma soffrii più di essa, perchè fui conscio delle mie condizioni e potei scrutare la ragione de' miei dolori. Seppi quel che volevo e capii sempre l'impossibilità di ottenerlo. Conobbi dove era la beatitudine e mi seppi sempre condannato a non arrivarla… Avverrà egli un giorno che la plebe possa giungere alla conquista dell'Eden sociale? Certo che sì, in un tardo, ma immancabile avvenire; e sarà quando il figliuolo di nessuno – come io – coll'ingegno, col valore, col lavoro, potrà ottenere l'amore della più bella, della più nobile donzella – come voi – e gli usi e i pregiudizi sociali non grideranno allo scandalo, non ne faranno alla fanciulla una vergogna.

Tacque un istante per riposarsi. Virginia disse, commossa, con quella sua voce d'oro:

– Ah! gli usi e i pregiudizi sociali sono una tirannia a cui nessuno può sottrarsi: e non è la volontà d'una debole fanciulla che possa rompere queste catene di ferro.

La poveretta pensava al suo amore per Francesco, contrastato, ed ella pur troppo temeva senza rimedio nessuno, dalla boria aristocratica della sua famiglia.

Maurilio la indovinò, la comprese e con un mesto sorriso ripigliò a parlare:

– La sorte volle che fra noi, così lontani – voi al fastigio, io all'ultimo gradino della piramide sociale – si stabilisse in breve un'attinenza di domestico affetto… Oh la deve cessare, lo so: si affrettò a soggiungere vedendo un lieve moto nelle fattezze della fanciulla, al quale egli attribuì più superbo significato che non avesse: ma frattanto, permettetemi ch'io me ne profitti per parlarvi in vostro vantaggio… in vantaggio d'un'altra persona che vi sta a cuore… per parlarvi come un fratello, quale un istante fui creduto essere per voi.

Gli sguardi del malato erano così supplichevoli, la sua voce era improntata d'un affetto che aveva qualche cosa di materno, per guisa che Virginia represse la volontà d'imporgli silenzio cui le suggeriva l'orgoglio, e credette far opera di pietà verso quel misero, cedendo alla curiosità ond'era punta eziandio di ascoltare le parole che Maurilio sarebbe per dirle, e col silenzio annuì che il giovane continuasse.

– Io sono la plebe; Francesco Benda è la borghesia…

Al nome di colui ch'essa amava, le guancie di Virginia si suffusero d'un lieve rossore e gli occhi si chinarono lentamente.

– La borghesia è plebe incivilita mercè l'agiatezza e l'educazione; è parte di quel gran serbatoio comune del popolo, venuta su, trattasi fuori dalla bolgia dell'ignoranza e della miseria grazie la fortuna, l'intelligenza, l'operosità maggiore, arrivata a spartire colla classe superiore una gran quantità dei beni sociali, se non tutti, a godere i precipui vantaggi della civiltà. Ma tuttavia anch'essa, la borghesia, anela ad ascendere pur sempre: lo splendore dell'idealismo sociale incarnato nella grandezza e nell'autorità, la attrae sempre più su: aspira ad un'uguaglianza assoluta cogli eredi delle grandezze antiche, col capitale di educazione e di tradizioni raccolto dagli antenati… Francesco Benda, il figliuolo degl'industriali arricchiti, ama Virginia di Castelletto discendente d'una illustre prosapia di prodi. È la legge del progresso: e l'effettuarsi di questo vuole che cotal maritaggio si compia. Bisogna che l'aura, il profumo, il raggio della poesia aristocratica si unisca alla prosa dell'attività, dell'audacia, della scienza positiva del ceto medio. Ne verrà un miglioramento morale, sociale, e fisico eziandio della razza umana. Plebe e nobiltà sono troppo ancora distanti: il loro maritaggio è tuttavia mostruoso: ma fra l'aristocrazia e il mezzo ceto, se gli è difficile sempre, non è più impossibile. Le anime elette di questo e di quella, hanno oramai dall'educazione e dalle condizioni economiche, ricevuto la patente d'uguaglianza. Voi, Virginia, e Francesco rappresenterete questo fatto colla vostra unione; le difficoltà della quale io conferirò ad appianare. Come? Non so ancora: ma ho la coscienza che il mio concorso aiuterà il conseguimento della vostra felicità. Fra voi, il povero plebeo, cadendo, colmerà lo spazio che ancora vi disgiunge. La vostra felicità sarà passata sul mio cadavere.

– Signore: interruppe qui Virginia: è un tristo augurio che voi mi fate. Le circostanze straordinarie che avvennero tra noi vi hanno messo in grado di parlarmi e mi hanno consigliata ad ascoltare da voi cose che non avrei dovuto, che non avrei tollerato da nessuno, fuori da chi avesse legittima autorità su di me. Avete voluto con soverchia audacia penetrare nel segreto del mio cuore: volete ora disporre del mio destino e far pesare su di me la risponsabilità di avvenimenti che spero non si effettueranno, ma che in ogni modo non dipendono dal mio arbitrio. Qualunque sieno i casi, quali che esser possano i miei sentimenti ed affetti, una cosa sola potete ritener per sicura, ed è che la mia condotta sarà ispirata sempre dalla coscienza dei miei doveri, della mia dignità, dalla sommissione ai voleri di coloro cui debbo obbedire, ed alle leggi della convenienza.

Maurilio rispose con un mesto sorriso:

– Non è un uomo che ora vi parla, è un'idea. Attribuite pure l'audacia dei miei discorsi al residuo del delirio, ed ascoltatemi, pietosa come siete, con generosa tolleranza, per compassione della mia follia; ma le cose ch'io vi dico serbatele nella vostra memoria e richiamatevele alla mente il dì che avrete bisogno di conformare a quei principii gli atti della vostra vita. No, non è vero ch'io voglia addossare a voi la responsabilità di fatti che sono un effetto necessario di quello svolgersi del dramma umano nella esistenza particolare dei singoli individui e nella complessiva della massa, del quale non possiamo abbracciare le forme generali e lo scopo finale. Chiamatelo caso, chiamatelo destino, chiamatelo piuttosto Provvidenza, noi siamo attori che traduciamo in atto, ciascuno per la sua parte maggiore o minore, il concetto di quell'autore. Il nostro dovere, l'importante è di rappresentarla questa parte il meglio che ci sia possibile: l'esserne conscii e il travagliarvisi intorno deliberatamente, è il privilegio degli esseri eletti. Voi siete tra questi; voi siete un tipo; voi sentite, forse ancora in confuso, la vostra missione: io, dall'orlo della tomba, illuminata la mente da lampi di luce eterea che già mi guizzano tra la materia che si scioglie, io vengo a definirvi colla mia parola, a farvi concrete le forme vaghe della vostra ispirazione. Ponete mente, voi siete la grazia, la bellezza, l'ultimo portato dell'educazione civile, l'arte, la poesia, l'ideale; Francesco è la ricchezza economica, il progresso materiale, la tendenza all'egoismo del benessere, l'attività meccanica che nella lotta colle difficoltà affacciate dalla natura sempre ribelle, anche soggiogata, dimentica agevolmente la luce superiore, diventa sorda alla voce di doveri più vasti che non son quelli avvertiti dalla comune, d'impulsi più sublimi che non quelli delle pedisseque virtù delle anime volgari. Voi avete da essere nella sua vita quella luce; voi avete da far risuonare al suo cuore quella voce. L'uomo che avrà l'immensa felicità di possedervi deve pagarla alla Provvidenza, deve farsene degno coll'essere un'anima superiore. Francesco è un'anima generosa, ma debole: voi l'avete da temperare col vostro amore alla forza delle grandi idee, alla sublimità dei grandi sacrifizi, alla potenza delle grandi volontà. Di quel ferro fatene acciaio. Fategli guardare in alto: sempre più su, sempre più su, excelsior, coll'animo, coll'intelletto; ma fategli tendere la mano al basso. Voi siete la beneficenza; siate di più ancora: siate il genio del mondo novello; e l'uomo che ha l'amor vostro bandisca il vangelo della nuova redenzione, lavori per l'effettuamento della nuova civiltà.

 

Si sollevò sui cuscini con più forza di quello che si sarebbe creduto, e la vasta fronte parve corsa da una lieve fiamma fugace, mentre gli occhi parevano riflettere un raggio di sole.

– Guardatevi dintorno in questa società, che si travaglia nella gestazione dolorosa dell'avvenire. Quante cose da fare! Tutto vacilla: la fede, l'autorità, la coscienza umana. Una casta, a nome dello spirito, ha troppo disprezzata e maltrattata la materia: questa s'insorge e dà la battaglia della negazione allo spirito, in nome della libertà. Gli errori cozzano innanzi alla verità sbalordita. Gl'infimi, dal ghiacciato fango dove giacciono oppressi levano in su la testa, si drizzano in punta di piedi e vogliono arrampicarsi alle più tepenti aure della ricchezza. I derelitti gettano in faccia alla civiltà del secolo la tremenda questione; «Perchè abbiamo sofferto sinora? Perchè soffriamo?» La risposta autoritativa delle religioni dommatiche non basta più ad acquetarli. Un miasma di materialismo inasprisce le piaghe sociali e manda al parosismo la febbre della miseria… Convien provvedere, convien provvedere… La quistione politica non è che vicenda di transizione. È la tendenza del predominio della borghesia; ma l'avvenimento di questa non sarà che una sosta nella lotta sociale, dove essa non pensi alla redenzione della plebe e non l'effettui.

Si strinse colle mani la fronte e tacque un istante; le carni gli ardevano ed affannoso aveva il respiro. Virginia fece un atto come per venirgli pietosamente in aiuto; ma egli lasciò cadersi le braccia e mostrò spento nelle pupille il raggio, svanita la fosforescenza della fronte diventata color della morte.

– Oh meschinità ed impotenza della parola! disse egli con voce sorda, soffocata, in cui ogni vibrazione era spenta. S'io potessi tradurre in linguaggio umano le mie idee! S'io potessi dar forma alle mie visioni!.. Mi avete voi potuto comprendere? Potrete voi completare nella vostra intelligenza il concetto da me appena accennato?.. Ah perchè non posso trasmettere in altrui quello che s'agita dentro il mio cervello? Perchè non son io Francesco?.. Perchè sono condannato a morire?..

Ricascò sui guanciali e chiuse gli occhi così che parve già fatto cadavere.

La nobile fanciulla si curvò su di lui, impietosita, palpitante; e gli fece scendere sull'anima la rugiada di dolci parole di speranza e di conforto. Egli sorrise mestamente a quella melodia soave.

– Addio bellezze dell'esistenza terrena; susurrò colle tremole labbra sfiorate da un sorriso: addio poesia della mia vita!.. Sì, sono condannato a morire… Bere sino alla feccia il calice delle amarezze, e morire.

Il misero pensava all'ignominia di suo padre, il quale pure ei voleva conoscere.

– Perdonatemi, Virginia, e compatitemi… E non dimenticate le mie parole!.. Forse non vi parlerò più… Ma son lieto d'aver potuto manifestarvi un cantuccio dell'anima mia… E siate benedetta voi che avete per pietà inchinato il vostro orgoglio alla pazienza di ascoltarmi. Ora sento offuscarsi di nuovo la mia mente turbata: addio; lasciatemi alle tenebre che m'invadono… e siate felice!

Virginia s'allontanò pensosa, commossa, a passo lento. La rozza figura del giovane plebeo aveva preso ai suoi occhi proporzioni mai più credute di grandezza. Essa lo aveva indovinato; traverso le confuse parole aveva capito il pensiero, aveva travisto la luce dell'idea. Si fermò innanzi al ritratto di sua madre e stette assai tempo contemplandolo, assorta in profonda riflessione. Quando si riscosse si passò le piccole mani sulla fronte: gli occhi mandavan faville.

– Esser la luce, la coscienza, l'ideale dell'uomo che si ama! esclamò. Essere il genio del mondo novello!.. Oh! il mio Francesco sarà un grand'uomo!

Don Venanzio vide sul volto del marchese le traccie d'una tal desolazione e d'un tale abbattimento, che avventurandosi ad una maggiore famigliarità di quella che mai avesse ardito usare coll'illustre personaggio, gli si avvicinò con premura, gli prese una mano e disse con tono di amichevole conforto:

– Coraggio, signor marchese.

– Ah! se sapesse!.. mormorò lo zio di Virginia.

– So tutto; disse affrettatamente il parroco; e narrò che veniva dalla stanza di Maurilio, da cui aveva appreso la fatale novella, e come quello sciagurato che da pochi dì andava per le bocche di tutti col nome di medichino egli avesse conosciuto bambino ed istrutto in compagnia di Maurilio.

Il marchese si nascose nelle mani la faccia.

– Ah! come Iddio ha punita la mia famiglia e me stesso: disse gemendo. Togliere ad una moglie il suo sposo, rubare ad una madre il frutto delle sue viscere, condannare alla miseria ed alla vergogna un innocente bambino furono orribili colpe… ma orribile pure è il castigo del cielo!.. Ed ora che fare, mio Dio! che fare?

Don Venanzio parlò col buonsenso della sua anima religiosa ed onesta.

– Bisogna rendere omaggio al vero; bisogna obbedire alla manifesta volontà di Dio che per suoi imperscrutabili fini ha voluto appunto che in questa occasione si scoprisse il segreto: bisogna che quello sciagurato sappia tutto.

– Come! La pensa a quello che dice? disse il marchese levando in sussulto la testa, vorrebbe che l'onore della famiglia fosse posto in balìa di quel cotale?..

– La verità ha un diritto maggiore di quello dell'onor d'una casa; quell'infelice medesimo non può ulteriormente lasciarsi nell'ignoranza dell'esser suo. Chi le dice non sia uno de' maggiori e de' principali castighi che gli abbia riserbato la Provvidenza pel suo traviamento, quello di apprendere, quando caduto al fondo dell'infamia, che avrebbe potuto essere ricco, glorioso, felice, dove avesse camminato sempre senza inciampare nel cammino della virtù?

Il marchese curvò il capo e tacque alcun tempo, assorto in una profonda e dolorosa meditazione.

– Forse Ella ha ragione, Don Venanzio: disse poi con accento di scoraggiato abbandono; ma io sono in mezzo ad impulsi diversi, a sentimenti contrarii, a doveri contraddittorii, e non so bene qual seguire, qual condotta trascegliere. Quel miserabile può egli dirsi che abbia ancora qualche diritto verso la mia famiglia? Non gli ha egli persi tutti coll'infamia della sua vita?

– Ma di chi la colpa s'ei precipitò a quel modo?

– È vero, è vero… Ma non ho io il dovere di conservare inviolato l'onore del nome che devo trasmettere a' miei figli? Poichè tutto s'ignorò finora, poichè tutto si può seppellire… non ho io il diritto di fare che si continui ad ignorare?

Il buon prete stette un momento, perplesso ancor egli: il marchese incalzò:

– Se quell'infelice medesimo conoscesse le condizioni in cui mi trovo, vedendo dall'una parte un inutile lustro gettato sulla sua ignominia a dispendio del decoro d'un glorioso casato, dall'altra il silenzio e l'oscurità continuati intorno alla sua origine, oh certo vorrebbe darmi ragione di appigliarmi a questo secondo partito…

S'interruppe come sovraccolto da una nuova idea.

– Don Venanzio, soggiunse egli poi affrettatamente e senza guardare in faccia il vecchio sacerdote: quel disgraziato è ben padrone della sua sorte, in lui sta bene il diritto di rinunziare ad un nome e ad un grado?

– Oh sì.

Il marchese tacque di nuovo un poco meditando.

– Ella mi ha detto avere stupito di trovare uno scellerato in quell'uomo ch'Ella aveva giudicato capace dei più alti destini.

– Sì.

– Non è dunque spenta nella sua anima ogni generosità, ogni nobile sentire?

– Non credo.

Altra pausa; poi con voce più bassa e testa più china, il marchese soggiunse:

– Voglio andare io stesso ad apprendere la verità a quello sventurato… Ella mi vi accompagnerà, Don Venanzio… Farò giudice colui medesimo di quel che si debba.

Il parroco parlò allora della povera Margherita; il marchese promise l'avrebbe raccomandata, e nello stesso tempo, quando avrebbe chiesto di poter avere un colloquio senza testimoni col medichino, avrebbe ottenuto facoltà a Don Venanzio di visitare la vecchia incarcerata.

All'influenza del marchese non fu difficile il conseguire per lo stesso giorno successivo la permissione di quell'abboccamento coll'imputato Gian-Luigi Quercia.

Ma di quella sera frattanto, una dolorosa scena aveva luogo nella famiglia Baldissero.

Si era al finir del pranzo. Durante questo non si era quasi parlato mai: il marchese era cupo, Virginia era triste e preoccupata, la marchesa superbamente fastidiosa, il marchesino ancora in broncio con tutti. Appena se poche parole erano state pronunziate in grazia a Don Venanzio che in mezzo a quelle cere imbrunite mostrava afflitta eziandio la sua bella fisionomia di uomo senza peccato. All'ultimo bicchierino di Bordeaux, Ettore, come per protestare contro la comune musoneria, sciolse il scilinguagnolo ed entrò di pieno nell'argomento che era sulle bocche di tutti, ma che allora, per diversa cagione, suscitava particolarmente l'interesse di Virginia, che quel giorno medesimo era stata a vedere Maria, del marchese e di Don Venanzio, che avevano avuto il colloquio or ora riferito; parlò del medichino.

– E' pare veramente, disse, che vi sieno in giuoco delle suste potenti per sottrarlo alla sorte che si merita. Ieri sera ebbe luogo un tentativo d'evasione che fu per un filo se non riuscì. (Contò le cose com'erano andate). L'agente di Polizia che venne in momento tanto opportuno ad arrestarlo, fu nominato sott'ispettore delle carceri e specialmente incaricato della custodia di quel mariuolo: il capoguardiano e il custode che fuggiva con lui sono ai ferri: l'ispettore medesimo, caduto in sospetto, è per intanto sospeso dall'impiego. È sperabile che quello sciagurato non isfugga al suo destino: e ci ho gusto. L'infame supplizio il miserabile lo ha meritato mille volte più d'ogni altro. Pensare che osava comparire nelle società di garbo…

– Non nella nostra: disse con tono secco la marchesa.

– Ma pur tuttavia oggi che la società è così mêlée ci avvenne di costeggiarlo le tantissime volte. Pensare che ci tendeva inguantata quella mano la quale giuocava di baro, rubava ed assassinava!.. Pensare che l'ho avuto io di fronte in una quistione d'onore e che l'ho trattato come uomo onorevole! Esso merita cento morti.

– E la sua condotta verso la povera Maria Benda? esclamò con indignazione Virginia. Quello è uno dei peggiori suoi assassinii, se non è il pessimo. Chi può vedere quella vittima infelice e non sentirsi schiantar l'anima?.. No, non v'è punizione di leggi terrene, non v'è maledizione di Dio che basti per tanta scelleraggine.

Il marchese era divenuto pallido pallido e guardava con occhi sbarrati ora la nipote, ora Don Venanzio.

 

– Ah! la misericordia di Dio è grande: disse questi colla sua voce mite e commossa: e dove noi non veggiamo che ragione di maledire, il Supremo Giudice sa le cause di compatire e di perdonare. Non anticipiamo i giudizi del Signore!

– Lasciamo stare la giustizia di Dio: disse Ettore con quel suo fare fra l'impazienza e la leggerezza, in cui un impertinente sussiego era appena temperato dall'urbanità delle maniere. Quanto alla giustizia umana, se havvi caso in cui la debba essere implacabile, è certo questo. Uno scellerato che ruba la considerazione della gente, che non è spinto al delitto dall'urgenza del bisogno, ma da empie passioni, che si trafora nelle famiglie a rubarvi onore e denaro… Ma la morte è troppo poco… Ha torto a mio avviso la nostra filantropia moderna che abolì le tenaglie roventi e il supplizio della ruota…

Il padre di Ettore si drizzò di scatto più pallido ancora, e si levò di tavola. Tutti ne imitarono lo esempio e lo seguirono nel vicino salotto. Colà il marchesino che non s'accorse dell'emozione di suo padre, e che ad ogni modo non ne avrebbe capita la ragione, continuò come se di nulla fosse il suo discorso.

– Bisogna farli soffrire quella gente: la morte sì, ma dopo buoni tormenti…

– Siete voi senza cuore, Ettore? esclamò il marchese con accento di rimprovero doloroso.

– Per quella canaglia, sì: rispose col medesimo tono Ettore: e tanto più per quel cotale. E' mi ha sempre sovranamente spiaciuto… Se fosse stato mio pari, gli è da tempo che avrei voluto dare anche a lui una buona lezione… Ma io sentiva per istinto che quello era degli uomini che sono indegni anche del nostro odio, un vil verme che si disprezza e si calpesta.

Il marchese fece un passo verso suo figlio con mossa così vibrata e con aspetto così turbato che tutti gli si voltarono a guardarlo, ansiosi di botto delle parole che stavano per uscire dalle sue labbra. Le porte del salotto erano chiuse, e niun altro orecchio estraneo alla famiglia poteva udire, fuor quello di Don Venanzio.

– Sapete chi è quel vil verme? disse il marchese con voce bassa, ma tremola; sapete chi è quello scellerato, ladro, assassino, falsario, che voi volete attenagliare ed arrotare?.. Egli è vostro cugino, Ettore, è il figliuolo di mia sorella, è il tuo fratello, Virginia…