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La plebe, parte IV

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CAPITOLO XVII

Maurilio rimase al villaggio tutta una settimana. I suoi dubbi continuarono ad agitarlo, ma non un barlume più venne a rischiarargli la tenebra in cui era caduta a questo riguardo la sua mente. Invano erasi recato di nuovo a quel luogo in cui lo aveva visitato l'apparizione: invano questa, e colà e altrove, aveva invocata con trasporto d'anima ineffabile, con vera frenesia di desiderio: nulla, nulla più era venuto a confermargli o distruggergli quello strano sospetto che così inopinato e così stranamente gli era stato saettato nell'anima. Col trascorrere dei giorni, per ciò, anche questo dubbio aveva scemato di forza: la ragione aveva riagito contro l'immaginativa, e debolmente dapprima, con più forza di poi, aveva mostrato la insussistenza di quel sospetto che non era forse altro se non un portato dell'inferma fantasia. Ad ogni modo, appena di ritorno a Torino, ei si proponeva di raccogliere con religiosa cura tutte quelle informazioni e que' documenti che si poteva sul conto del padre e della madre, tanto da formare colla menoma interruzione di anella quella catena di fatti che dall'amore della nobile donzella di Baldissero pel giovane patriota milanese, doveva condurre fino al ricevimento di lui come rampollo di quell'unione nella illustre famiglia di Aurora.

Al settimo giorno dopo la sua partenza da Torino, Maurilio ricevette una lettera dal marchese di Baldissero, nella quale gli si diceva: essere tempo ch'egli ritornasse, S. M. con immensa degnazione, di cui Maurilio avrebbe dovuto esserle riconoscente tutta la vita, non averlo dimenticato, ma aver fatto benignamente sapere a lui, marchese, che suo nipote sarebbe impiegato nel gabinetto particolare di S. M. medesima: convenire ch'egli senza ritardo si recasse ai piedi dell'Augusto personaggio ad esprimergli quella gratitudine che era più di un dovere: per ciò si tenesse preparato a partir di colà il giorno vegnente, che la carrozza sarebbe venuta a prenderlo al villaggio.

Maurilio lesse e rilesse quella lettera, domandandosi che cosa doveva fare. L'idea glie ne venne un momento di rispondere al marchese, rinunziar egli alle nuove grandezze che gli offriva la sorte, voler fermare la sua dimora al villaggio e viverci ignorato; ma non tardò a riconoscere che questo sarebbe stato «per viltate un gran rifiuto,» che se il destino gli porgeva in quella guisa alcuna possibilità di fare un po' di bene, era suo dovere non fallire all'opera, che il dar corpo ed importanza a quei vaghi, aerei dubbi, senza fondamento di sorta, era peggio che una follia. Annunziò adunque a Don Venanzio il suo ritorno in città pel giorno dopo; e diffatti verso il cader della notte dell'ottavo dì dacchè erasi di là partito, egli, nella carrozza collo stemma della famiglia di Baldissero, rientrava sotto il portone del superbo palazzo, dov'egli, quasi ragazzo ancora, coi panni e nelle condizioni di povero figlio del popolo era entrato primamente di straforo per ammirare la bellezza di Virginia, ond'era stato ammaliato.

Il maggiordomo era ad accoglierlo in alto dello scalone.

– Signore, gli disse con un rispetto che si vedeva chiaramente ispirato dagli ordini espressi del padrone, S. E. il marchese la prega, quando Ella siasi riposata, ristorata e rassettata, di voler passare nel salone, dove troverà riunita tutta la famiglia.

Maurilio fece un muto segno di assentimento.

Il maggiordomo, camminandogli innanzi per quei locali, tutti già rischiarati, lo condusse alla camera assegnatagli, che era un'altra da quella che gli era stata data come a segretario, al primo piano ancor essa come quella degli altri componenti della famiglia, più elegante per mobili, per arazzi e per tappeto.

Il servo, che seguiva, depose sulla pietra di marmo d'una mensola i due candelabri d'argento dalle candele accese che aveva tra mano; e il maggiordomo inchinandosi innanzi al giovane gli disse:

– È pronta una refezione per Vossignoria. Desidera Ella esser subito servita?

Maurilio che pareva aver perduto la parola mettendo piede sul limitare di quel palazzo, fece un cenno che voleva dire, non aver egli bisogno nè desiderio di nulla; il maggiordomo lo interpretò invece per un assentimento anche questo e dopo un altro profondo inchino si ritirò annunziando che colà stesso sarebbe tosto recata la refezione. Il giovane non aveva in quel momento per la testa altro che un pensiero: avrebbe visto fra poco tutta la famiglia, le sarebbe comparso dinanzi egli a prendere ufficialmente il suo posto in mezzo a lei: quest'idea lo turbava e lo spaventava. Sollevò gli occhi e incontrò la sua pallida figura riflessa nello specchio che stava sopra alla mensola su cui il lacchè aveva deposto i lumi, e diede in una scossa come se quella fosse la vista inaspettata d'un ignoto che venisse a guastargli la solitudine che desiderava: dietro la sua, vide pure la figura del valletto che lo guardava con un'impertinente curiosità ammantata di rispetto, degna affatto di un servo di nobil casa. Si rivolse vivamente.

– Che fate costì? domandò con tono abbastanza superbo da padrone che gli valse di botto una maggior stima da parte del domestico.

– Aspetto gli ordini di Vossignoria, in caso volesse cambiarsi d'abiti.

Ma il nostro giovane, cresciuto fra gl'infimi, allevato in mezzo la plebe, non aveva nè indole, nè abitudine da mantenersi in quello sprezzoso contegno d'uomo che si ritien di razza superiore e che non vede nel suo simile che un passivo stromento delle sue volontà; sentì una soggezione e quasi una specie di vergogna de' fatti suoi in presenza di quel cotale, più alto, più grosso, più forte di lui, dalle braccia che avrebbero potuto fare tanto lavoro utile, il quale gli stava dinanzi nella sua livrea gallonata per prestargli dei servizi che non gli erano necessarii e di cui aveva sempre fatto senza. Chinò gli occhi con una nuova umiltà che di colpo fece sparire tutto quel po' di stima che il domestico aveva sentito per lui, e rispose impacciatamente:

– No… non ho bisogno di nulla: ritiratevi pure.

Mentre il domestico apriva la porta per uscire, entrarono due altri portando un deschetto apparecchiato, che posero poco distante dal camino: uno di essi tirò presso al tavolino un seggiolone e disse al giovane:

– Se Vossignoria vuole accomodarsi, eccola servita.

E i due nuovi valletti venuti stettero come due cariatidi, uno di qua, l'altro di là del deschetto su cui fumava mandando un profumo appetitoso una zuppiera d'argento.

Maurilio sempre immobile, sempre dritto a quel punto da cui vedeva riflesso nello specchio in mezzo alle vacillanti fiammelle dei candelabri, il suo pallido viso che spiccava nella penombra del fondo della stanza; Maurilio guardava con occhio attonito il luccicare degli argenti e dei cristalli sulla tavola dove ripercotevansi e rimbalzavano i raggi di due altri candelabri d'argento, la candidezza della finissima tovaglia, la forma spigliata della bottiglia di vino di Bordeaux, i galloni delle livree e le braccia imbottite della soffice poltrona che parevano tendersi verso di lui per invitarlo.

Dopo un silenzio di pochi minuti, il giovane capì che doveva dire o fare qualche cosa. Fece un evidente sforzo per sciogliere la lingua che gli pareva annodatasi; ed ebbe mestieri d'un atto di coraggio per pronunziare le seguenti parole:

– Andate… Desidero rimaner solo.

I domestici salutarono e partirono. Allora egli, quando ebbe visto l'uscio richiudersi dietro le loro spalle, si mise a passeggiare su e giù per la camera a capo chino, sostenendo colla mano destra il mento e colla sinistra il gomito del braccio destro. Non pensava a nulla di preciso, ma sentiva un gran disagio di sè, una strana malavoglia. Ora che l'orizzonte della vita pareva esserglisi aperto dinanzi, egli non iscorgeva che buio, peggio di prima, buio in sè ed intorno a sè. La sua mente vagava, vagava in un indefinito chimerizzare, che non aveva neppure una lontana somiglianza di forme, che niuna parola, che nemmeno l'incerto, ondeggiante, generico linguaggio della musica varrebbe ad esprimere.

Ma passando e ripassando egli innanzi alla tavola apparecchiata, gli effluvii di quella succosa zuppa, che profumava l'aria della stanza, finirono per solleticare e destare i suoi sensi: si fermò, si raccostò al desco, cedette all'invito della poltrona, si lasciò cadere fra quelle braccia così benignamente allargate. Quando ebbe mangiato un buon tondo di minestra al consommé, una buona fetta di pâté e bevuto un buon bicchiere di Bordeaux, le cose apparvero sotto ai suoi occhi con aspetto un po' diverso da quel di prima. Si fece coraggio, l'idea di affrontare la presenza e gli sguardi della sua nuova famiglia gli fece battere il cuore, ma non lo spaventò più: si guardò nello specchio con meno spregio e ripugnanza di se stesso; camminò con passo più sicuro per la stanza, si raggiustò la cravatta al collo e i panni addosso, e s'avviò abbastanza risolutamente verso il salone.

Un domestico glie ne aprì l'uscio ed alzò la portiera: Maurilio vide innanzi a sè, aggruppate presso il grande camino, quattro persone che volsero verso di lui il loro volto su cui si dipingeva una curiosità in tutti diversa: quelle quattro persone erano il marchese e sua moglie, la loro nipote Virginia ed il loro figliuolo Ettore, uscito il giorno prima soltanto dagli arresti di rigore in cittadella.

Ma prima di entrar testimonii a questa scena che sta per aver luogo, è conveniente assistere ad un'altra che in quell'ora medesima succede nel piccolo e remoto quartiere di Barnaba, l'agente segreto della polizia. Già dal giorno prima il ferito s'era provato a scendere di letto; ma la debolezza non gli aveva consentito che di far pochi passi per la stanza.

– Eppure voglio esser guarito: aveva mormorato fra sè con fermezza tenace; voglio fra pochi giorni, fra tre, fra quattro al più, poter uscire, poter io recarmi all'importante impresa. Lo voglio! Questo mio corpo non me l'hanno avvezzo fin da piccino a piegarsi ad ogni maggiore sforzo secondo le volontà altrui? Non ho io conservato sempre colla mia volontà un predominio assoluto sopra di lui? Or dunque voglio esser guarito, e lo sarò…

 

E ripeteva a mezza voce coi denti stretti, come per fermar meglio, dar maggior forza alla sua risoluzione ed imprimersela più profonda nel pensiero, la parola: voglio!

Quel giorno in cui Maurilio faceva ritorno a Torino, Barnaba due volte volle calare dal suo giaciglio, vestirsi e provare a camminare. La seconda di queste volte era appunto alla sera. Una piccola lucerna illuminava di poca luce quella stanza; il viso del poliziotto, pallido ed affilato, pareva una maschera di cera a quel fioco lume gialliccio; Meo colla grossa faccia più melensa, e le chiome più scarmigliate del solito dava il braccio al convalescente che mutava adagio adagio i passi, appoggiato da una parte al non corrisposto amante di Maddalena, dall'altra ad un bastone. Macobaro seduto in un angolo col suo aspetto d'arpia seguiva degli occhi que' due che gli passavano innanzi lentamente andando e venendo.

– Sì, sì, disse Barnaba ad un tratto fermandosi in mezzo la stanza, coll'aiuto di qualcheduno potrò uscire dopo dimani, e se non a piedi, in carrozza, recarmi là dove occorre. Che ne dite Jacob?

– Dico che gli è possibilissimo: rispose il vecchio rigattiere che aveva sul suo volto le mostre di una profonda preoccupazione: ma non conviene che per esercitarsi al camminare la si stanchi di troppo, chè allora poi sarebbe peggio.

– No, no: disse il ferito con una specie d'impazienza: so io bene come devo fare… Bisogna esercitarlo questo miserabile d'un nostro corpo di nervi e di muscoli per ottenerne quello che si vuole.

E riprese il suo lento passeggiare. Arom sostenne il mento ai suoi due pugni chiusi e si diede tutto alle sue meditazioni che parevano tutt'altro che liete. Successe un silenzio di parecchi minuti, finchè Barnaba andò a sedersi in faccia al vecchio ebreo, e guardatolo attentamente un poco, gli disse poi con vibrato e quasi crudo accento:

– Voi pensate a vostra figlia, alla vostra Ester, non è vero? State tranquillo che fra poco ne avrete piena vendetta.

Jacob sollevò un momento quei suoi occhi piccini, affondati nell'occhiaia, che avevano il guizzo di quelli d'un serpente.

– Penso anche ad un'altra cosa: disse con voce sommessa; penso se mai potrò riavere quelle cinquanta mila lire che ho dato al medichino.

Barnaba fece un atto di dispettoso disappunto.

– Le avrai, vecchio avaro, esclamò impaziente, se ci servirai a dovere.

In quella fu picchiato con mano risoluta all'uscio d'ingresso, e Meo andò a dimandare chi fosse.

– Apri, son io: rispose la voce forte e burbera del commissario Tofi.

– Già levato! esclamò questi entrando nella camera in cui era Barnaba, col suo passo sonante e il portamento da militare: molto bene! È necessario affrettarsi ad agire.

– Perchè? È succeduto qualche cosa di nuovo? domandò Barnaba con molto interesse.

– È succeduto che quel mariuolo sta per isposare una infelice di ragazza di buona famiglia, e gli sponsali avranno luogo domani sera.

Il convalescente pregò il suo superiore gli narrasse tutti i particolari ch'e' sapeva intorno a questa novella; e quando gli ebbe intesi colla più seria e fissa attenzione di cui fosse capace, egli che aveva penetrato le intenzioni del medichino, disse:

– Lei ha ragione, non conviene più indugiare. Quello sciagurato vuole sposare, intascar la dote e fuggire… Di domani bisogna che sia arrestato.

– Ciò non è tutto: riprese il Commissario che non aveva voluto neppure sedersi e stava col suo largo cappellaccio in capo, le mani affondate nelle gran tasche laterali del soprabito. Ci è ancora un'altra novità più strepitosa ed importantissima. Ecco una lettera che ho ricevuto testè dal giudice istruttore.

Trasse da una di quelle sue tasche un foglio che spiegò e porse così aperto a Barnaba: questi lesse il seguente corto bigliettino:

«Il medico che cura il signor Nariccia mi fa avvertito adess'adesso che quest'infelice vittima di quell'orribile assassinio, per un caso provvidenziale, ch'egli non osava nemmeno sperare, ha riacquistato in parte l'uso della favella. Siccome c'è timore che questo non sia che un temporaneo e fuggitivo miglioramento, così è bene non perder tempo ad approfittarne; ho perciò determinato di recarmi questa sera medesima a tentare un interrogatorio dell'assassinato e la pregherei a volerci intervenire Ella pure per recarmi il soccorso della sua pratica e della sua intelligenza.

«L'aspetto dunque senz'altro al domicilio del signor Nariccia medesimo alle ore otto di questa sera, che prima mi sarebbe impossibile di recarmici, ed ho l'onore, ecc.»

– Sono le sette e tre quarti: disse il Commissario quando Barnaba ebbe finito di leggere, e trasse dal taschino un grosso orologio d'argento tenuto ad un occhiello del panciotto per una catena d'acciaio: ci ho giusto il tempo di recarmivi.

Il convalescente restituì la lettera al signor Tofi, poi con qualche sforzo, ma senza l'aiuto di nessuno, sorse in piedi e stette, sorreggendosi alla spalliera della seggiola.

– Signor Commissario: disse con voce impressa di tanto desiderio, che tremava come per emozione; mi conceda che io l'accompagni colà…

– Siete matto… Potete appena camminare.

– Manderò Meo a prendere una carrozza.

– E le scale?..

– Non tenterò neppure di farle… e forse ne sarei anche capace… ma per essere più sicuro e avanzar tempo Meo mi porterà.

Tofi non ci pensò che un minuto secondo.

– Bene: diss'egli colla sua solita ruvidezza: mi potete fors'anco essere utile. Venite.

Si fece come Barnaba aveva detto, e un quarto d'ora non era passato che il Commissario e Barnaba entravano nella camera dove giaceva Nariccia e dove non tardava a raggiungerli il giudice istruttore.

L'usuraio era sempre immobile stecchito e pareva un cadavere mummificato, in cui per miracolo fossero rimasti vivi gli occhi: questi in quella faccia gialla di morto, al fondo di quelle occhiaie incavate e d'un brutto lividore, nella loro irrequietezza avevano una pena, uno spasimo, uno spavento che ti stringeva l'animo, che era una cosa orribile a vedersi. Quegli occhi agitati che vivevano soli in quel corpo morto parevano suppliziati che cercassero fuga, scampo, pietà dalla loro tortura: pareva che le più tremende visioni passassero innanzi a quelle pupille in cui ardeva la febbre; come certo innanzi alla mente passavano tremendi i ricordi di un colpevole passato, le azioni d'una vita scellerata. Le labbra erano livide, e l'inferiore contorto da una parte penzolava dando a quel viso di pergamena una smorfia immobilitata come quella d'una maschera, che faceva paura e ribrezzo a mirarsi. Fra quelle labbra la lingua impacciata, grossa, pendente riusciva a balbettare a stento alcune parole.

Barnaba, a cui la fatica d'esser venuto fin lì, benchè portato per le scale da Meo e per la strada dalla carrozza, aveva tolta ogni forza, si lasciò cader seduto sopra una seggiola al fondo del letto in cui giaceva Nariccia, e quelle due faccie cadaveriche e quei quattro occhi febbrilmente vividi in mezzo il gialliccio pallore da morto si guardarono fisamente, curiosamente, con avida reciproca investigazione. Erano due vittime del medesimo individuo che dovevano assembrare le volontà in un intento comune: quello della vendetta.

Nariccia, sviato lo sguardo dal volto macilento di Barnaba, lo fece scorrere con istupore interrogativo sopra le persone che in gruppo vide accostarglisi e stargli dintorno; le sue labbra contorte si mossero penosamente, la lingua penzolante si agitò e una voce gutturale, stentata, che pareva quella d'un ventriloquo, pronunziò stentatamente alcune parole, che non furono comprese.

– Che cosa avete detto? domandò il medico, il quale, dietro espressa volontà del giudice istruttore, doveva assistere all'interrogatorio. Abbiate la compiacenza di ripetere.

– Confessarmi, confessarmi: balbettò il paralitico colla medesima voce stentata e sommessa, ma con terribile espressione d'angoscia nell'accento: voglio confessarmi prima di morire.

Il medico, il giudice ed il Commissario s'erano curvati sopra il letto a cogliere il debole suono della voce di quel meschino.

– Che cosa disse? domandò Barnaba il quale dal posto ov'egli si trovava non aveva potuto udire.

– Domanda di confessarsi: rispose il medico.

– E' non fa altro dacchè ha riacquistato l'uso della parola: disse l'infermiere che era stato posto a vegliare sul giacente: di queste poche ore l'avrà già domandato un migliaio di volte.

– Sì, vi confesserete e potrete adempiere ai vostri doveri di cristiano: ma prima è necessario che voi adempiate a quelli che avete verso la giustizia umana, che noi qui rappresentiamo. Fate dunque coraggio, raccoglietevi e preparatevi a rispondere alle nostre interrogazioni.

– Mi resterà ancora tempo abbastanza da confessarmi poi? domandò la voce soffocata e penosa del moribondo.

– Sì, disse il medico; stia di buon animo che vi è di meglio ancora per lei: la speranza della guarigione.

Gli occhi di Nariccia espressero un dubbio desolante in risposta a queste confortevoli parole del medico.

Il giudice cominciò senz'altro l'interrogatorio. L'infermiere era stato mandato nelle altre stanze; un segretario s'era seduto ad un tavolino stato posto più presso al letto che fosse possibile, e teneva innanzi a sè la carta su cui era preparato a scrivere le risposte; non altra luce rischiarava l'oscurità di quella stanza, fuor quella della lampada sormontata da una ventola opaca che stava sul tavolino dove s'accingeva a scrivere il segretario; così alto silenzio regnava che si udiva il rumore della respirazione affannosa del giacente, e che le parole da lui pronunziate in risposta alle fattegli domande, quantunque dette a voce più che sommessa, erano intese da tutti.

– Voi siete nel pieno possesso della vostra ragione? cominciò il giudice, parlando piano ancor egli, e curvo sopra il letto.

– Sì.

– Da quando siete rientrato nella vostra cognizione?

– Da parecchi giorni… non so bene… quando mi vidi attorno tanta gente…

– Vi ricordate (questa domanda fu fatta dietro suggerimento di Tofi) che vi furono rivolte già altra fiata varie interrogazioni circa il delitto di cui foste vittima?

– Mi ricordo.

– Eravate allora in voi come ora?

– Sì.

– E non potevate parlare?

– No.

– Dacchè siete rinvenuto, avete sempre avuto la cognizione, tuttochè immobile e senza parola?

– Sì.

– Vi ricordate delle risposte che avete espresso allora con segni fatti degli occhi alle domande mossevi?

– Sì.

– Quelle vostre risposte erano la verità?

– Sì.

– Sareste pronto a riconfermarle?

– Sì.

Le domande che sappiamo essergli state fatte in quell'occasione gli furono nuovamente dirette una per una, ed egli colla voce diede la medesima risposta che aveva dato cogli occhi.

– Avete conosciuto i vostri assassini?

– Sì.

– Di due avete annuito al nome che se ne disse: vorreste ripetere questi nomi?

– Sono Graffigna e Stracciaferro.

– E il terzo? Sapete il nome del terzo?

– Sì.

La respirazione del giacente si fece più affannosa e gli occhi si turbarono.

Il medico diede il consiglio di lasciarlo un poco riposare.

Dopo cinque minuti il giudice istruttore riprese:

– Questo nome siete disposto a dircelo?

– Sì.

– Voi capite tutta l'importanza delle parole che state per pronunziare!

– Sì.

– E siete sicuro della verità di esse?

– Sicurissimo.

– Allora diteci questo nome.

– Quercia.

Barnaba che pure si aspettava quel nome, che era sicuro non altro sarebbe uscito da quella bocca convulsa, tuttavia diede in una leggiera scossa e mandò una soffocata esclamazione: gli altri si guardarono in faccia e per un minuto secondo nessuno parlò; non s'udì che il rifiato grave del giacente e lo scricchiolar della penna del segretario che scriveva nel processo verbale incancellabilmente quel nome.

– Ma qual Quercia? susurrò poscia la voce fiacca di Barnaba; ve ne possono essere parecchi, conviene farglielo specificare.

E Nariccia, interrogato in proposito dal giudice, diede tutte le più precise informazioni che si desideravano.

– Signore, disse il giudice al Commissario, quando l'interrogatorio fu finito, della giornata di domani sarà spiccato un ordine di arresto contro quel tale, e sarà sua cura farlo eseguire.

 

Tofi chinò bruscamente il capo in segno affermativo.

– Sarà eseguito: diss'egli; e frattanto lo farò codiare dai miei agenti. So che col pretesto d'un viaggio di nozze e' si è già procurato un passaporto per l'estero; se appena un timore che si sospetti di lui gli entra nell'animo, può partirne improvviso. Al menomo cenno ch'egli faccia di abbandonar Torino, ordine o non ordine, lo agguantiamo.

– Signor Commissario, disse una voce tremante, quasi supplichevole, all'orecchia di Tofi, mi conceda il favore di affidare a me l'impresa di questa cattura… sotto la sua direzione s'intende.

Il Commissario guardò la faccia patita di Barnaba entro la quale gli occhi ardevano più febbrilmente che mai.

– Ve ne sentirete già capace?

– Oh sì! esclamò il poliziotto. La vedrà! E sarà questa una grazia che mi darà mezzo di rientrare nel favore dei superiori e nell'impiego.

– Va bene… Di quello che avrete fatto e di quello che farete informerò chi si deve.

Frattanto il giacente, stanco e spossato dallo sforzo mentale che aveva dovuto fare per raccogliere le sue idee, da quello fisico stesso per ispiccar la parola colla sua lingua inretita, dalla passione che glie ne dava necessariamente all'animo il ricordare quei brutti, orribili momenti in cui aveva visto la morte incombere sul suo capo, l'aveva sentita piombare su di lui; Nariccia, dico, aveva chiuso gli occhi e sarebbe sembrato affatto un cadavere se non avesse rivelato in lui un resto di vita la respirazione tronca, affannosa e sibilante.

Quando dal silenzio fattosi intorno a lui, il misero capì che tutte quelle persone eransi partite, egli riaprì nuovamente gli occhi e guardò di qua e di là con una specie di terrore; dalla sua gola uscì una voce che pareva un rantolo e le labbra gli si agitarono con penoso sforzo.

L'infermiere, che era tornato presso di lui, si curvò sul letto con quella indifferente tranquillità che hanno per cotali spettacoli questa gente avvezza a veder soffrire e morire.

– Eh? che cosa la dice? domandò.

– Confessarmi, confessarmi: balbettò Nariccia.

– Ah! gli è vero; ma ora non posso lasciarla sola per andare in cerca d'un confessore: dimani mattina, appena mi si venga a sostituire, glie ne andrò a chiamar uno; Padre Bonaventura del Carmine, che è già venuto tante volte a prendere di sue notizie.

Il moribondo avrebbe voluto esclamare: – No, non quello; – ma le forze glie ne mancarono affatto. Richiuse gli occhi e parve fuor dei sensi od assopito.

L'infermiere, guardatolo un poco, disse fra sè:

– Domattina! Chi sa se avrà ancora bisogno del confessore domattina, e non sia già precipitato a casa del diavolo. Sarebbe poco male un pelacristiani di questa fatta.

E s'adagiò tranquillamente sopra un sofà per passare con più agio possibile la notte. Se Nariccia fosse morto in quella notte senza confessione, avrebbe portato seco un gran segreto.

Ora è tempo che ritorniamo nel palazzo Baldissero dove Maurilio viene ufficialmente presentato alla nobile famiglia.