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La plebe, parte IV

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Secondo quanto aveva detto la fante, il gallo aveva appena fatto risuonare per la prima volta il suo canto mattiniero, che Maurilio udì, da un lieve e riguardoso muoversi per la casa, che il parroco era già alzato. Si levò sollecito ancor egli, e sceso a tentoni nel tinello, chè l'oscurità era compiuta ancora, trovò Don Venanzio che, un candelotto in mano, stava per passare nella chiesa a dire la sua messa. Dopo i reciproci saluti uscirono ambidue, ma il parroco per l'andito che metteva nella sacristia, Maurilio per la porta che aprivasi sulla piazzetta.

Era notte chiusa a dispetto del canto del gallo; non una riga d'albore nel cielo nuvoloso; la campanella della chiesa dava i rintocchi della messa che stava per essere detta, in mezzo ad un alto silenzio degli uomini e della natura. Solamente qualche raro lumicino vedevasi spuntare dietro alcune invetrate di finestre: alcuni passi s'udivano venir per la piazzetta, ammortiti dalla neve che copriva il suolo, alcune voci che bisbigliavano sommesse, come paurose di rompere quel silenzio; e la brezza fredda del mattino, di quando in quando metteva un leggier sibilo alle cantonate delle case ed un fruscìo secco nei rami nudi dell'olmo che stava in metà della piazza.

I passi e le voci che s'udivano erano di donnicciuole che accorrevano alla messa del parroco; avvolte il capo, il collo e le spalle di fazzòli e vestimenta messe a bardosso, per difendersi dall'aria ghiaccia di quell'ora, le mani nascoste sotto a' panni, alcune col veggio in mano dove avevan messe le poche ceneri calde rimaste dal fuoco della sera, trottinavano a piccoli passi affrettati, ad una ad una, a due, a piccoli gruppi, poi scorgendosi nell'ombra, s'aspettavano l'una l'altra alla porta della chiesa ed entravano insieme bisbigliando. La schiera fu presto compiuta; e non era che di dieci o dodici. Una delle prime era passata, e Maurilio l'aveva tosto riconosciuta, la povera Margherita. Di certo la buona donna non aveva dormito neppur essa quella notte, e veniva a quell'ora mattutina a ringraziare il Signore di quella gioia che le aveva mandata, di quella maggiore che le aveva promessa.

– Oh sublime cosa è la preghiera: disse Maurilio, quando ebbe visto entrate in chiesa quelle donne. Ancor io ho bisogno di pregare. Andrò a pregare in faccia alla natura, nel vero tempio del Dio vivente.

E s'avviò verso quel luogo solitario, dove fanciullo soleva condurre al pascolo le vaccherelle di Menico.

Tutta la campagna era coperta di neve, e questo strato bianco, uniforme, che faceva scomparire allo sguardo le lievi protuberanze e depressioni del terreno, aiutato dalle ombre ancora fitte della notte, toglieva ai varii luoghi che si succedevano il loro particolare carattere ordinario, tutti confondendoli in una monotona rassomiglianza. Appena se facevano varietà alcuna fra questa e quella parte, fra questo e quel campo, fra l'una e l'altra landa i gruppi o le file degli alberi che piegavano sotto il peso della neve i loro rami assecchiti e parevano contorcere sotto quella gravezza i loro tronchi bassi e bernoccoluti.

Ma il nostro giovane pur tuttavia riconosceva ad uno ad uno que' luoghi, quelle variazioni di terreno, tanto gli era impressa ogni cosa nella memoria, e più ancora, direi, nel cuore. Avrebbe potuto riconoscere un per uno ogni albero se tanta luce vi fosse stata, da discernere pienamente gli oggetti; avrebbe potuto dire: qui ne manca uno che vi sorgeva negli antichi tempi, questo crebbe dacchè io non son più venuto qua. Salì lentamente il lene declivio della collina, su cui si stendevano le aride brughiere che erano i pascoli comunali. Sedici e più anni prima egli faceva due volte al giorno quel cammino i piedi scalzi, una verga tra mano, cacciandosi innanzi le magre vaccherelle di Menico, macilento egli più ancora delle bestie che aveva in custodia, obbligato a star colà in ozio delle ore, sicuro di trovare, al suo ritorno all'abituro, poco e povero cibo, molti rimbrotti e spietate percosse. Colà, ancora affatto fanciullo, la sua mente era stata assalita dal misterioso quesito degli umani destini, colà aveva sentito parlargli all'anima la gran voce della natura, aveva sentito parlargli allo spirito la voce dei morti. Aveva provato una specie di maravigliosa iniziazione, per cui la sua vita aveva scorto il nesso che la congiungeva alla vita dell'Universo, s'era cacciato, e non s'era smarrito, nel vortice dell'esistenza universale, aveva avvertiti i vincoli divini che uniscono le manifestazioni della vita su per tutta la scala degli esseri in tutto il creato, e formatosene entro la mente un primo concetto: aveva meditato, imparato, cominciato ad aver coscienza del dolore, dell'intelletto e insieme della volontà. Quella brulla costiera gli era cara oltre modo. La rivide alla poca, incerta luce del crepuscolo che cominciava appena, con una commozione di tenerezza da non dirsi; ebbe nel cuore i palpiti che desta il prossimo, aspettato rivedere, dopo lungo tempo, d'una persona che si ama.

Giunse a quel punto preciso in cui soleva sostare da fanciullo, quando l'alba appena disegnava al lembo estremo dell'orizzonte, fra la cresta delle montagne e le nubi del cielo, una riga bianchiccia. Le sue gambe affondavano nella neve fin sopra il nodello; un vento freddo gli faceva svolazzare le falde degli abiti; non un grido d'augello, non una voce umana, non un rumore d'esser vivo; regnava un silenzio di morte. Gli ontani, spogli di frondi, inchinavano i loro rami carichi di neve sopra il rigagnolo muto ancor esso, perchè rapprese dal ghiaccio erano le sue onde. La brezzolina gelata che soffiava ad intervalli, ora era un sibilo, ora era un gemito. Quel cantuccio della terra, pur così vicino ad abitazioni umane, pareva in quel momento ignorare la esistenza dell'uomo.

Maurilio si fermò là dove soleva sdraiarsi, là dove ragazzo settenne aveva sentito la prima volta passar ne' suoi capelli l'alito del fantasma, scorrer nelle vene il fremito solenne che desta l'apparizione de' morti. Aveva in petto un gran desiderio, una viva aspirazione e insieme una potente e quasi direi commossa fiducia. Era venuto per pregare; ma l'intimo anelito gli diceva che la preghiera poteva essere mezzo valevole di evocazione a quello spirito che da tanto tempo non era più venuto ad aleggiargli innanzi apprensibile da' suoi sensi umani. Il dramma della sua vita era giunto ad una fase suprema; e quest'essere oltreterreno che lo aveva scorto nell'aspro cammino fin'allora percorso, confortandolo, ispirandolo, ammonendolo, poteva esso mancare di venirgli a dire la sua parola? Non aveva egli anche ora e forse più di prima, bisogno d'aiuto, di conforto, di consolazione? Là dove primamente eragli apparito ed avevagli favellato, doveva la sovrumana creatura apparirgli ora e favellargli. La voce vaga e inafferrabile dell'immensa natura doveva condensarsi e farsi concreta nello spiro, che gli parlava all'anima, di quel benigno fantasima. Egli lo credeva, egli lo voleva: egli venne colà a bella posta e stette aspettando.

Volse la faccia verso quel punto del cielo in cui la riga sottile della luce crepuscolare fra la terra e la vôlta nubilosa dell'orizzonte cominciava da bianca a farsi rancia, e pregò.

– Ente supremo ed infinito, Intelligenza assoluta ed eterna, Causa ultima e prima, Anima dell'Universo, a te s'innalza questa creatura finita, a te si volge questa misera intelligenza in sì angusti limiti ristretta, verso te aspira quest'essere contingente, ma che ha pure nel suo intimo una particella dell'eterno, te anela comprendere quest'anima schiava d'una bassa materia, ma che pure è membro di quella grande schiera fraterna d'intelligenze che dal primo manifestarsi della vita sale per tutti i mondi sino all'inconcepibile altezza dell'assoluto, ove tu siedi.

«O natura! Nudrice comune; culla e tomba indefinita della vita terrena; fieramente avversa all'uomo, e colle tue crudeltà fatalmente benigna al suo sviluppo; problema immenso alla mente umana che sempre sei sciolto e sempre rimani; mistero cui la scienza persegue e svela, e sempre ti sottraggi dietro nuovi veli, ritraendoti man mano nel campo dell'infinito; natura che mi afferri e mi tieni, ma non mi possiedi; tu, benchè immensa, non sei l'ambito in cui deve rimaner rinserrato il pensiero, lo spirito, il destino dell'uomo. Tu non sei la madre, tu non sei che l'alimentatrice temporanea di questo spirito che passa traverso a te. Tu non sei causa, nè un complesso di cause; tu sei effetto e complesso di effetti; tu sei un intermediario; per chi ti sa cogliere e dominare tu sei uno sgabello per salire a Dio.

«Iside splendida e superba, le tue braccia potenti m'accolgano, ma non mi soffochino; è la tua vita che si agita in me, circoscritta in questo corpo morituro; ma questo non è tutto l'io che in me pensa e vuole; quando tu decreterai la distruzione di questo corpo che tu mi hai dato, non assorbirai eziandio nel serbatoio eterno della materia questa parte immortale che può sola concepire l'eternità a cui appartiene. Non velarmi tu coll'ebbrezza della tua beltà lo spirito che oltre te siede e te stessa governa, non offuscarmi collo spettacolo della fatalità delle tue leggi il concetto della libertà del volere, della giustizia, della verità della potenza creativa. Io non posso tutta abbracciarti e comprenderti, o natura, colla forza del mio pensiero; ma pur sento che questo mio pensiero si spinge oltre te, che oltrepassa i limiti del tuo regno, tuttochè immenso; sento che il mio pensiero è chiamato ineffabilmente da altezze ineffabili, sento che si sprofonda negli abissi dell'infinito.

«Dio! Dio! Dio! Noi aneliamo ardentemente verso Te, perchè l'uomo ha bisogno della verità, e Tu sei la verità! A Te per una innumera sequela di secoli, per tratto di tempo incalcolabile, là dove cessa il tempo, traverso innumere esistenze, noi verremo accostandosi, senza raggiungerti mai, ma conquistando a volta a volta, mano a mano una parte maggiore di vero. Oh! l'anima mia ha fretta di gettarmi in questo pelago dove splende la tua luce. È un ardore di desiderio che non ha riscontro in nulla di terreno. Dio, chiamami sollecito al mio destino ulteriore: Natura, affrettati a riprender possesso di questi elementi che mi costituiscono un corpo. Ho io ancora una ragione di vivere qui entro questa creta sciagurata? Non ho pagato a sufficienza il mio tributo di prove e di dolori? Fammi passare, Eterno Iddio, per le ombre del sepolcro, onde gli occhi dello spirito si possano riaprire alla maggior luce della vita avvenire.»

 

Si scoperse la fronte e la espose al soffio del vento gelato che gemeva sommessamente fra i rami degli alberi. Sentiva il sangue salito al capo tintinnargli nelle orecchie e produrgli suoni inapprensibili, che parevano parole d'un misterioso linguaggio.

– Morire, morire, mormorava egli, voglio morire per vivere!

Ad un tratto si riscosse; aveva sentito sulla fronte un soffio diverso da quello del vento: provò per tutte le fibre un fremito soave, come quello che vi desta il giungere improvviso della più diletta persona. L'alito che era passato sulle sue chiome pareva lo sfiorar leggiero d'un bacio. Il cuore gli si mise a palpitare, come in attesa d'un grave avvenimento. Tutte queste cose aveva egli già provate altre volte, e da lungo tempo ora non aveva sentite più: le gli annunziavano il presentarsi dell'apparizione; era come il tocco dello spirito oltreterreno che gli significava: «Son qua.» Quest'apparizione era egli venuto colà con immenso desiderio e con viva speranza avvenisse. Ora ne fu certo. Levò la testa e gli occhi, e guardò.

La cappa nuvolosa del cielo s'era abbassata ancor più sulle montagne e toglieva ogni adito al libero passaggio del chiarore crepuscolare: traverso a quelle nubi di un grigio plumbeo si stacciava, per così dire, un po' di luce che riusciva livida e sfumava i contorni degli oggetti in una strana incertezza di disegno: a pochi passi lontano tutto si confondeva in un buio che pareva quello del vuoto.

Maurilio vide, palpitando, una nebbia, un vapore comparire, coagularsi, direi, in mezzo ai tronchi degli ontani, prender forma e sembianza di donna avvolta in bianco paludamento, ma una forma aerea e diafana, e da questa forma, da quest'ombra, raggiare il benigno sguardo, il mesto sorriso che già conosceva. Il diletto fantasima evocato gli stava pur finalmente dinanzi. Il giovane fece un passo verso lo spirito, come per afferrarlo, per giungerlo colle sue mani tremanti, ma si fermò tosto, non osando più, mancandogliene le forze; cadde in ginocchio sulla neve e tese verso quell'essere non umano le braccia.

– Sei tu, sei pur tu ancora una volta, alla fine! mormorò egli. Che tu sii benedetta! Io ho tanto, tanto bisogno di te.

Tacque ansioso, aspettando. La benignità di quel sembiante lampeggiò più viva; e Maurilio udì nella sua anima, nel suo cervello, nell'intimo dell'esser suo la voce melodiosa, d'una melodia inesprimibile, di cui nulla in terra può dar paragone, che gli parlava soave.

– Tu vuoi morire! Credi tu che l'anima tua sia già di tanto matura nella crisalide terrena, da potere spiegar l'ali, farfalla, nel regno degli spiriti? Non sai che ogni giorno di terreno dolore che passa, la prepara a più eletta sorte, la fa degna di maggior grado nell'avvenire? No, infelice, no, le tue prove non sono finite. Apparecchiati a sostenere le nuove che ti aspettano, con quella forza che ti servì per le passate. Macerato dalla sventura, tu giungerai alla soglia della vita umana, più disposto alla vita superiore che t'attende.

«Non maledire il dolor che ti percuote! Nulla è senza ragione nel creato; e la volontà divina non è il capriccio dell'arbitrio. «Il vaso – ricordalo – non ha diritto di dire al vasellaio: perchè mi hai tu fatto e perchè in questa piuttosto che in quella forma, a questo meglio che a quell'uso2?» Ma la ragione il vasellaio ce l'ebbe. Un giorno verrà forse – per gli spiriti che hanno vissuto quaggiù dove tu vivi – in cui potranno alcun poco penetrare dei misteri di Dio. Ciò potrà avvenire anche di te, e capirai la tua sorte e benedirai il flagello onde fosti colpito. Abbi intanto fin d'ora l'istintiva coscienza che non inutili sono le tue pene, e soffri longanime.

«Soffri ed ama: soffri e perdona: soffri e confida nel dì futuro!»

La voce che pareva parlare non all'orecchio, ma direttamente nell'animo, si tacque, e tutto l'essere di Maurilio vibrò ancora per un poco di quel suono, come le corde dell'arpa vibrano tuttavia quando la mano ha cessato appena di scuoterle. E il concetto e le parole che lo vestivano erano appunto nel cervello di lui come l'armonia suscitata sulle corde da una mano estranea: il suono è dello stromento, ma la melode è ad esso estrinseca. A Maurilio quelle cose non erano state dette con voce di suono: parevagli, per così esprimermi, che un altro le avesse pensate nel suo pensiero.

– Soffrire! soffrire! gemette il giovane, inginocchiato sempre nella neve. Ma non ho io sofferto abbastanza? Non ho io il diritto di esclamare che s'allontani da me pur finalmente il calice delle amarezze? Oh! mi si strappi almeno dal petto questo amore fatale che ancora mi strugge e che la crudeltà del destino vuole empiamente mostruoso. Ah! tu non sai, spirito benedetto, quanto questo amore mi tormenti e mi affatichi col suo tormento! Quella immagine io non posso scacciare dal mio pensiero, e col mite affetto d'un fratello non posso pensarla! Mi squarcerei a brani a brani il cuore per tormi questa indomita passione. Debbo io fuggire la mia famiglia ora che la Provvidenza mi ha ad essa ricondotto? Mi fu ella mostrata la tenerezza dei domestici affetti e concessami la possibilità di goderne, solo perchè una maledizione venisse a piantarsi fra loro e me e rigettarmene lontano? Dovrò io esecrare il momento in cui ripresi il possesso del nome e delle condizioni che mi spettano?

Maurilio guardava il fantasima, e gli occhi non umani del fantasima guardavano lui. Da questi occhi partì una fiamma, un raggio, una scintilla, un qualche cosa d'inesprimibile che penetrò e si confisse nel cervello del giovane, e gli suscitò di colpo un'idea che mai non gli si era nemmeno adombrata. Era un dubbio strano che prese forma in una domanda.

– Poichè, continuò egli, quello è bene il mio nome, quella è ben la mia famiglia? Non è egli vero?

Stette aspettando ansiosamente la risposta. Il fantasima non la diede: ma una indicibile espressione di mestizia insieme e di pietà apparve sulle sue sembianze. Maurilio con infinita supplicazione protese le mani verso lo spirito.

– Qual è questo mistero che mi si annunzia? che il mio pensiero intuisce nel lampo de' sguardi tuoi?.. tu sai la verità di certo… Oh dimmi tutto il vero, qualunque sia…

Si tacque di nuovo in attesa d'una parola, di un cenno. L'aerea forma di donna lo guardava sempre più mesta e più pietosa; ma non parlò, non mosse. Il cuore a Maurilio batteva, batteva.

– Sono io figliuolo di Maurilio Valpetrosa? domandò egli con un'ansia piena d'angoscia. Sono io figliuolo della contessa Aurora?

La neve in quella si mise a cadere; il vento si ridestò più vivo e faceva turbinare le bianche falde intorno ai rami degli alberi. Il bianco fantasima si confuse col bianco della neve fioccante. Parve che quel turbinio avvolgesse, assorbisse, sciogliesse quel vapore condensato in forma di persona; il sorriso del labbro e dello sguardo si fece più lieve, si dileguò, sparì in mezzo alla danza dei fiocchi nevosi per l'aria; ma a Maurilio che guardava intento con pupille fise, parve che nel punto di dileguarsi quella apparizione scuotesse in segno negativo il capo, e quella voce non umana che gli aveva parlato nell'anima, gli susurrasse, ma fievolmente come un'eco lontana, lontana:

– No! no! no!

Il giovane sorse con impeto.

– No?.. gridò egli. Io non sono dunque il fratello di Virginia?

Il primo pensiero che gli si presentava era quello dell'amor suo e gli faceva accogliere quasi con gioia l'ispiratogli sospetto.

– Ma dunque io posso amarla? continuava con trasporto inesprimibile. Oh parlami! Dimmelo ancora e più chiaramente… Rispondi, rispondi in nome di Dio! È mia sorella Virginia?

Si avanzò d'un passo verso quel luogo dove gli era apparsa l'ombra. Tutto era svanito e non si trovò in faccia che il cader lento e turbinante della neve aggirata dalla brezza.

Sentì una gran confusione nel suo spirito. Aveva egli visto bene in quel dileguarsi del fantasima? Era davvero un segno negativo quello che gli era stato fatto ed una parola negativa quella che aveva creduto udir pronunziata. E se anche ciò fosse, doveva egli credere fosse quella la verità? E se tutto questo non fosse che illusione? Che fare? Come sincerarsi della realtà delle cose? Se lo spirito aveva dettogli veramente così, e certo non aveva mentito, vorrebb'egli usurpare un posto che non gli toccava, mentre colui che ci aveva diritto viveva chi sa dove, e chi sa come?

Discese lentamente al villaggio. Camminava assorto, il capo chino, le braccia incrociate al petto, non vedendo nessuno, non sentendo nulla, fuori affatto del mondo circostante. Ad un punto sentì una voce che lo chiamava per nome. Gli pareva di conoscer quella voce, ma il suo spirito era così lontano ancora dal mondo presente, che non seppe dirsi di chi fosse; non le badò e continuò il suo cammino; un passo affrettato gli corse dietro e lo raggiunse; una mano si posò sulla sua spalla e la voce che già lo aveva chiamato gli disse:

– Eh Maurilio! sei tu sordo?

Egli si riscosse in sussulto; si volse e si vide dinanzi Gian-Luigi.

La vista del suo compagno d'infanzia fu a Maurilio in quel momento poco piacevole, quasi molesta. Forse perchè veniva a sturbarlo da' suoi pensieri; forse perchè l'irrequietezza dell'anima e l'irritazione dello spirito confuso inasprivano ogni ricevuta impressione.

– Tu qui! esclamò egli con voce ed accento di burbera impazienza. Che vieni tu a farci?

Quercia lo guardò stupito e parve nel suo occhio nero fosse per lampeggiare il risentimento: ma di colpo si atteggiò alla più serena ilarità la mobile espressione della sua bella faccia; ed egli ruppe in una franca risata.

– Affè mia che non lo so io stesso. Avevo detto di venirci come prima avrei potuto, e promissio boni viri… con quel che segue. Mi sono detto: poichè ho da mantenerla questa promessa, il meglio è che me ne sbrighi il più presto. Siccome son io che meno gli avvenimenti della mia vita, e non gli avvenimenti che menano me, mi sono procurato un giorno di libertà e son volato… coi cavalli dell'omnibus. Sissignore son venuto prosaicamente in quell'orribile baracca rompitrice di ossa umane, per non sciupare il mio bravo cavallo; ed eccomi qua pronto a cogliere sulla mia faccia i baci e le lagrime di tenerezza della povera Margherita… E sei tu che mi facevi rimprovero del non venirci, il quale ora hai da domandarmi con quell'aria di superiore corrucciato che cosa son qui per fare?

Maurilio evidentemente non prestava attenzione alle parole del compagno e non aveva capito nulla. Gian-Luigi con atto di amichevole domestichezza volle passare il braccio in quello di lui, ma egli si riscosse a quel tocco e ritrasse in là la persona guardando l'amico con sì torbida cera che Quercia si fermò su due piedi.

– Orsù, diss'egli con accento e con isguardo superbamente risentiti; che novelle son queste? che ti frulla pel capo, e con chi pensi tu ora di aver da trattare? I fumi del tuo nuovo stato ti sono eglino già saliti così stupidamente alla testa da metterti – e verso di me! – in una stolida superbia?.. Senti tu già il gorgoglio del sangue patrizio ignorato pur ieri?

Maurilio parve allora destarsi da un sogno penoso.

– Io superbia? esclamò. Sangue patrizio, io?

Gli sembrò vedere ancora, in mezzo al bianchiccio della neve cadente, la leggera forma del fantasma scuotere il capo in segno di negazione.

– No, no… Non ho superbia, non ho sangue patrizio… Sono plebeo, tutto plebeo, non altro che plebeo.

Gian-Luigi lo guardò attentamente con occhio acuto, penetrativo, profondo; subodorò un segreto.

– Perchè parli tu così? diss'egli lentamente. È il tuo animo che senti fallire alla nuova condizione, o questa che ti fallisce?

Maurilio fu sul punto di narrar tutto; ma guardando il suo compagno gli vide nel volto e nella pupilla soprattutto una intentività quasi maligna che respinse in lui la fiduciosa espansione; crollò il capo, fece un atto colla mano per significare: gli è nulla; e si tacque.

 

Camminarono alquanto in silenzio l'uno accosto all'altro per la via deserta del villaggio; quando apparve loro dinanzi la modesta facciata della chiesa in fondo alla piazza, il medichino domandò bruscamente:

– Dove sei tu avviato?

– Rientro in casa di Don Venanzio.

– Ed io vo dalla Margherita. Annunzia la mia visita al parroco; fra dieci minuti sarò a salutarlo e domandargli un boccon d'asciolvere.

Maurilio, colla mente ancora preoccupata, disse sbadatamente:

– Se ti accompagnassi dalla Margherita…

– No: interruppe con vivacità Gian-Luigi: queste scene di riabbracciamenti non vogliono testimonii.

– Hai ragione. A rivederci dunque fra poco nella canonica.

– A rivederci.

Si separarono. In breve Gian-Luigi fu alla porta del tugurio, dove, ad un'estremità del villaggio, abitava la povera donna che gli aveva fatto da madre. Picchiò a quel povero uscio di assi tarlati e poco ben connessi, senza che la menoma emozione gli turbasse il regolare battito de' polsi. Un passo lento e trascinantesi si udì accostarsi nell'interno della capanna; l'imposta fu aperta e si presentò sulla soglia la persona ricurva della vecchia Margherita, il capo avvolto nel suo grossolano fazzoletto, la sua conocchia piantata al fianco nel legaccio del grembiule e il fuso tra mano. La si aspettava così poco di trovarsi innanzi il suo figliuolo adottivo in quel momento che guardò meravigliata quel signore elegantemente vestito che era venuto a picchiare il suo uscio e non riconobbe in esso colui che da tanti anni non aveva più riveduto ed aveva desiderato rivedere pur sempre.

Però, senza sapersene dire essa stessa una ragione, la sua voce fiacca e velata tremava più dell'ordinario quando gli chiese con parole confuse che parevano un balbettìo che cosa volesse, di chi cercasse.

– Ah! voi non mi riconoscete più, mamma Margherita? Disse il giovane con un piacevole e schietto sorriso.

La vecchia lasciò cadersi il fuso e strapparsi il filo, alzò le scarne mani abbronzate, all'altezza della testa, e battè palma a palma, gettando un grido cui la soverchia intensità dell'emozione soffocò a mezzo.

– Sei tu! Sei il mio Giannino! esclamò: oh Santa Vergine dei dolori!..

E quelle mani secche, inaridite, color di rame, tremanti per gli anni e pel tanto turbamento di quell'istante, allungò verso il giovane per istringerlo al collo, per afferrare quel capo diletto e tirarselo a sè a baciarlo ed abbracciarlo e stringerlo ai miserabili panni che le coprivano quel seno che lo aveva alimentato. Ma Gian-Luigi – fu egli un istintivo impulso di vergogna che lo spingesse a sottrarre la vista di quell'amplesso della pezzente agli sguardi di chi poteva passare per la strada, fu il pensiero amorevole di levar via più presto dall'aria ghiaccia che soffiava sul villaggio il debil corpo della vecchia? – Gian-Luigi afferrò quelle braccia che si stendevano con tanto amore verso di lui e per esse trasse indietro la donna finchè ambedue furono entrati nel tugurio e la porta potè richiudersi dietro di loro.

– Ed ora, diss'egli poi ripigliando quel suo leggiadro sorriso, mamma Margherita, abbracciatemi pure.

La donna lo guardava con occhi che per miracolo avevano ritrovata una parte dell'antica vivacità della loro giovinezza. Quel sorriso del suo Giannino, com'ella, per antica abitudine, lo chiamava pur sempre, le illuminava lo squallido suo abituro come un raggio di sole primaverile entratovi ad un tratto a dispetto della stagione e della neve. La voce di lui suonavale come la più gradita melodia del mondo.

– Sei tu! sei tu! sei il mio Giannino! Oh Santa Vergine dei dolori! ripetè essa come se la non sapesse trovare altre parole; e gettategli le braccia al collo lo baciò e lo ribaciò sopra una guancia e poi sull'altra, e poi sulla fronte, e poi sulle labbra, e finì per rompere in un pianto dirotto con forti singhiozzi.

L'impressione del tristo giovane non fu di tenerezza. Le malvagie passioni troppo avevangli guasto il cuore e smussata la sensibilità, perchè egli comprendesse la profonda e santa emozione di quella povera vecchia, la partecipasse e vi si compiacesse. In quell'amplesso, a contatto di quelle vesti fruste e rappezzate, di quelle membra magre e sfiacchite, sentì come un odore disgustoso di miseria e d'angustie; gli parve quasi che il bisogno e l'abbiezione e la vergognosa umiltà di quel miserabile ceto plebeo da cui egli aveva tanto fatto per uscire, incarnati nella persona di quella squallida vecchia, gli gettassero le braccia al collo per riprenderlo in loro possesso, per trarlo a precipitar di nuovo nell'oscuro abisso. Si sciolse dall'abbraccio e disse non senza qualche impazienza:

– Via, via; non piangete così. Affè che non ci vedo nulla da piangere!

Margherita si asciugò in fretta le lagrime.

– Hai ragione… Non so nemmeno io perchè piango… dovrei essere così allegra… Lo sono, sai… Vorrei farti tanta festa e non so…

Non vi starò a ripetere tutte le parole di quella povera donna, che avrebbe voluto poter cambiare in un tratto la sua capanna in una reggia con ogni abbondanza di ben di Dio per accogliere degnamente il suo diletto figliuolo. Non vi dirò i suoi ringraziamenti per l'invio delle mille lire, le proteste ch'ella fece quando udì che Gian-Luigi di quella stessa giornata sarebbe ripartito, e le preghiere per farnelo fermare almeno un giorno ancora. Il giovane che tutti questi discorsi tollerava con appena velata impazienza, li troncò per farsi egli a dire quello che più gl'importava e che era stato la vera cagione della sua venuta.

– Date retta, Margherita, cominciò egli mettendole una mano sulla spalla e guardandola ben fiso affine di richiamare alle sue parole tutta l'attenzione di lei: se un gran pericolo mi pendesse sul capo e voi poteste stornarlo, non è vero che lo fareste?

La vecchia strinse le mani in atto di quasi offesa meraviglia.

– Dio buono! Santa Vergine dei dolori! E me lo puoi domandare?.. Farei ogni possibil cosa… darei questa grama di vita… e più ancora… per venirti in aiuto… Ma pur troppo, che potrò io mai fare per te, io, povera vecchia?..

– Voi potrete assai. Un pericolo può minacciarmi da un momento all'altro; e voi, non con fatti, ma con sole parole, potete concorrere a salvarmene.

– Parla, parla. Che debbo fare? che debbo dire?

– Voi potreste essere chiamata da qualche autorità a dare informazioni del mio passato, a narrare la storia della mia infanzia: così disse Gian-Luigi con voce bassa e pronunzia spiccata, parlando lentamente e tenendo sempre una mano sulla spalla a Margherita e gli occhi entro gli occhi perchè le cose ch'ei diceva le si imprimessero ben bene.

La vecchia non moveva un dito, non batteva palpebra: aveva concentrata tutta la sua vitalità negli occhi che fissavano il giovane e nelle orecchie che assorbivano avidamente le parole di lui; ad ogni motto quasi ch'egli pronunziava la faceva un leggier cenno del capo, come per dire: «ho capito, questo non mi scappa più.»

– In tal caso, continuava il medichino, voi ripeterete parola per parola ciò che ora verrò dicendovi.

Espose in quel modo lento e con quel tono spiccato la favola della sua sorte che aveva narrata al signor Giacomo Benda ed al commissario Tofi; appena la ebbe finita, la ricominciò da capo e tornò a dirla tutta perchè di subito la si fermasse con tutti i suoi particolari nella memoria di Margherita; e poi come ricapitolando soggiunse:

– Voi dunque affermerete che fu il dottore il quale vi mandò all'ospizio a prendere non un trovatello qualunque, ma uno particolarmente designato, quello cioè a cui per contrassegno, nell'esporlo era stata messa tra le fascie la metà d'una lettera lacerata per lo lungo, nella quale si leggevano le tali e tali parole, voi direte che fino dai primissimi tempi, il dottore medesimo, benchè di nascosto così che nessuno potesse accorgersene, pigliava interesse di me e veniva di quando in quando segretissimamente a visitarmi; aggiungerete ch'egli vi pagava eziandio in segreto, e che dalle sue parole avevate potuto capire che agiva dietro mandato di qualche lontana persona; e infine – e qui non avrete più che da dire la verità – che più tardi egli mi prese seco e fu lui a farmi studiare, e quando morì mi lasciò una parte della sua eredità.

2. Parole di San Paolo.