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La plebe, parte IV

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– Mia figlia! Mia figlia! esclamò egli tendendo le braccia traverso le sbarre, come se la volesse afferrare, e prendersela e seco portarsela: è mia figlia.

Ogni traccia di quell'odio che ultimamente aveva improvviso concepito per la colpevole, ogni sdegno contro di lei, sparì di botto nel misero padre, per lasciar rivivere in tutta la sua forza quel primitivo amore ch'egli sentiva per essa, quasi uguale a quello che aveva pel suo tesoro. Ricordò ancor egli di colpo, e tutto ad un tratto, il passato di quella infelice: quando era bambina, quando accoglieva con un sì bel sorriso il padre al suo ritorno in casa, quando gli dava il bacio della sera ed il saluto del mattino; quando vivevano sì lietamente in quell'oscuro quartieretto che la bellezza di lei illuminava. E tutto ciò era cambiato poichè un infame era venuto a cacciarsi in mezzo a loro. Ricordò la mestizia sopraggiunta in Ester; poi tutte le scene tremende che erano succedute; per ultimo la tremenda maledizione con cui egli aveva flagellata la figliuola, quando il caso glie l'aveva fatta ritrovare fuggitiva nell'oscurità vespertina della strada. Si percotè coi pugni chiusi la fronte; si strappò i capelli grigiastri che gli pendevano alle tempia.

– Eterno Iddio! esclamò: perchè hai tu dato ascolto alla maledizione d'un padre?.. Disgraziato! Disgraziato!.. Sono io che l'ho uccisa… Io, ed un altro!.. Un altro! soggiunse con accento d'odio infinito levando al cielo i pugni stretti e gli sguardi infiammati.

Un istinto parve avvertirlo in quella che l'altro di cui parlava era lì, al suo fianco, sì da toccarsi, e che Dio li aveva voluti appunto raccogliere insieme innanzi al cadavere della loro vittima. Si volse di scatto e i suoi occhi che brillavano ferocemente in fondo alle sue occhiaie infossate, s'incontrarono nelle pupille fieramente corrusche di Gian-Luigi.

Macobaro mandò un'esclamazione gutturale che pareva un grido belluino, e sulla sua faccia cinerina e macilenta corse un lampo come di gioia feroce. Afferrò con una delle sue mani fatte ad artigli, dalle dita lunghe, scarne, nere, unghiate, il braccio di Quercia e disse:

– Ah sei qui tu?.. Vedi, vedi che hai fatto di mia figlia… Rendimi la mia figliuola, scellerato!

Una subita e viva emozione corse il cerchio degli spettatori. Gian-Luigi non si scompose: con un moto ratto e violento del suo braccio robusto rigettò da sè il vecchio ebreo, e prese una mossa come di difesa. Intorno a lui si fece un po' di largo e tutti gli occhi erano conversi su questi due personaggi che accennavano rappresentare una scena interessante di dramma innanzi a quel cadavere di donna.

Quercia girò intorno i suoi occhi che facevano chinare innanzi a sè tutti gli altri.

– Quest'uomo, disse pacatamente, od è pazzo, tratto fuor di senno dal dolore, od è illuso da una strana rassomiglianza… Io non lo conosco.

Macobaro diede un balzo, come se volesse lanciarsi addosso al giovane elegante: ma questi lo prevenne, gli pose una mano sulla spalla, e guardandolo in certo modo speciale, come il domatore di fiere guarda il tigre che vuol ribellarglisi, soggiunse lentamente:

– Io non vi conosco brav'uomo. Guardatemi bene, e vedrete che siete vittima d'un errore.

Mai gli occhi neri del medichino non avevano avuta tanta efficacia, tanta imponenza, tanta autorità. Il vecchio avrebbe voluto resistere a quell'influsso, ma non potè: la forza di quella individualità più potente, l'abitudine di cedere ad essa, la soggezione di quell'autorità che il medichino aveva saputo acquistarsi e sapeva difendere e mantenere, ebbero ancora la loro efficacia in Macobaro; curvò il capo innanzi al suo superiore e sottrasse le sue pupille dallo sguardo di quelle di lui.

– Mi conoscete voi dunque? domandò Quercia.

– No, no, balbettò il padre di Ester, guardando sempre per terra. Perdoni ad un povero vecchio che non sa più quel che si faccia.

Gian-Luigi fece un gesto da eroe che mostra la sua clemenza, e s'allontanò lentamente. Jacob non rivolse più verso di lui nemmeno uno sguardo; si voltò verso il cadavere della figlia, e tendendo le due braccia traverso le sbarre, le disse piano piano che niuno potesse udire:

– Sta, sta tranquilla che ti vendicherò… Ci vendicherò tuttedue.

Poscia si levò di là ed allontanossi con passo barcollante. Pochi minuti dopo egli era in istretto colloquio con Barnaba, la cui ferita era in via di guarigione così bene che già poteva egli sedersi sul letto.

Gian-Luigi s'allontanava, pieno l'animo d'una malavoglia, d'un malessere, d'un'irritazione da non dirsi. Sentiva, per così dire, sfuggirgli sempre più di pugno il filo guidatore della sua sorte; sentiva accrescersi quella stanchezza dell'iniqua lotta, quel fastidio de' casi suoi che ho già accennato venire assalendo a volta a volta l'animo suo. Ebbe egli appena attraversata la piazza municipale e fatto pochi passi per la via che mena a piazza Castello, quando gli si fece innanzi domandando l'elemosina un pezzente tutto rattrappito delle membra. Il primo atto del giovane, assorto ne' suoi poco piacevoli pensieri, fu un atto d'impazienza; ma il mendicante fece rapidamente un certo gesto che destò l'attenzione del medichino. Questi si fermò, lo guardò bene, rispose ratto con un certo ammicco degli occhi, e tratta fuor di tasca la borsa ne prese una moneta e la fece scivolare nella mano del povero. In questo medesimo atto il mendico fece passare nella mano che gli porgeva il denaro un piccolo fogliolino di carta finissima, ripiegato e compresso da tenere il meno spazio possibile.

Quercia serrò in pugno quella carta, senza fare il menomo cenno, come se nulla fosse, e continuò la sua strada; ma dopo un poco affrettò maggiormente il passo per giungere a casa sua e leggere il bigliettino portogli in quella guisa, che ben poteva presumere trattare di cose di molta premura ed interesse e cui non voleva neppur guardare nella pubblica strada.

Quando fu chiuso nella sua camera, Gian-Luigi aprì con sollecitudine che quasi era inquieta il finissimo fogliolino. V'erano scritte poche parole e con carattere contraffatto: ma un certo segno convenzionale avvertì subito Gian-Luigi da chi fosse scritto e mandato. La cocca aveva affigliati, più o meno addentro ne' suoi segreti, in ogni parte; e chi scriveva era impiegato, e non degli ultimi, negli uffici medesimi della Polizia. Il biglietto diceva:

«Guardatevi! Si comincia aver sospetti. Prendete ogni precauzione. Si parla di certi diamanti. Nel bavero trovato in mano a N. v'è una cifra. Voi sapete che cosa ciò voglia dire, e che importanza darci.»

Gian-Luigi lesse due e tre volte queste incoerenti parole e se le stampò nella memoria; poi stracciò a minutissimi pezzi quel foglietto, e come se non bastasse, lo gettò nel fuoco: stette a guardarlo mentre in un attimo la fiamma lo distruggeva, e quindi incrociate le braccia al petto, si mise ad andare su e giù per la stanza.

– Una cifra nel bavero?.. Qual contrarietà!.. Chi avrebbe mai pensato a codesto?.. Quel mantello era di Benda: il mantello è sparito e non lo troveranno mai… Ma si può appurare che quella cifra è la sua, che quello squarcio appartiene ad un suo mantello, e che questo fu imprestato a me, il quale non l'ho più restituito… Bisogna rimediare a ciò.

Stette un poco meditabondo; poi sollevò il capo con risoluzione.

– Non c'è che un modo di aggiustarla. Quel mantello è stato derubato a me stesso quella notte medesima sul viale… E il rapitore, che io descriverò a meraviglia, sarà Stracciaferro… a lui poi il non lasciarsi pigliare. Ciò quanto al mantello. Ma e i diamanti? Che cosa vuol significare il cenno intorno ai diamanti? «Si parla di certi diamanti.» Quali? Quelli che ho trovati nello scrigno sono così bene riposti che l'occhio della giustizia non li potrà veder mai; quelli di Candida sono a lei restituiti, e nissuno de' sapere che essi furono un momento nelle mani di quell'usuraio…

S'interruppe, assalito dal ricordo di un fatto che eragli sfuggito compiutamente dalla memoria: Nariccia quando si trattò dell'imprestito su pegno di quei gioielli, aveva questi recati un momento di là per farneli forse esaminare, come Gian-Luigi medesimo aveva supposto, da alcun intelligente della materia che ci avesse. Che questo tale avesse conosciuto quali e di chi erano quei diamanti? La cosa prima di tutto pareva a lui assai improbabile, e poi ancorchè fosse, quali conseguenze a suo danno se ne potrebbero tirare? Come provare che egli fosse stato a recare dall'usuraio quei diamanti? e se dati in pegno, non si erano potuti riscattar poi pagando il debito? Ad ogni modo sarebbe forse stato meglio parlarne subito colla contessa, combinare con lei, farle credere ciò che occorreva, e consigliarle in ogni caso le risposte che convenivano. Egli era sul punto di uscire per recarsi subito da lei, quando i suoi occhi caddero sopra un bigliettino che stava sulla tavola di marmo del cassettone, e cui gli aveva impedito di vedere a tutta prima il turbamento col quale era entrato nella stanza. Lo prese sollecitamente, e conobbe di botto dalla scrittura, dalla carta, dal suggello, dal profumo speciale, da qual mano venisse. Era appunto di Candida; e Gian-Luigi lo lesse in tutta fretta.

«Ho bisogno urgente di parlarvi» gli scriveva essa secondo il solito, in francese; «all'una aspettatemi nella vostra casetta sul viale.»

Siccome non mancava di molto all'ora posta dalla contessa, Gian-Luigi s'avviò tosto verso quel suo misterioso ridotto, in cui siamo già penetrati con lui altra volta.

La contessa non si fece lungamente aspettare. Levando il fitto velo che gli copriva la faccia mostrò al suo amante un aspetto turbato in cui apparivano insieme contrarietà, collera, amarezza.

– Che è ciò? signore? cominciò ella senz'altro con voce vibrante. A chi andate voi confidando le cose più arcane che debbono rimanere tra di noi?

 

– Contessa! interruppe il giovane coll'accento risentito di persona fieramente calunniata da tale cui non vuole rispondere oltraggio per oltraggio. Voi mi fate un'iniqua accusa che non avreste mai dovuto pure accennare.

– Voi non avreste dovuto meritarvela.

– Non perdiamo il tempo in garriti di parole. A che proposito mi rivolgete voi quest'accusa? quali prove credete di averne?

– Mio marito seppe – sa – che i miei diamanti furono in pegno presso l'usuraio che venne l'altro dì assassinato e sa che a portarglieli siete stato voi.

Quercia non potè reprimere un contrarsi dei lineamenti che esprimeva quanto questa novella gli dispiacesse.

– Ne siete voi certa?

– Certissima. Me lo disse egli stesso testè… Ah! vedete anche voi che non potete negare…

Gian-Luigi prese le due mani della contessa, e stringendole con dolce pressione, quasi supplichevole, soggiunse:

– No, Candida, io non ci ho colpa: è una maledetta fatalità che mi perseguita, che ci perseguita tuttedue, e che può avere le più tristi conseguenze, se non ci andiamo tosto al riparo… Ti spiegherò tutto di poi, caro amor mio; ma essenzialmente gli è per la tua tranquillità, per te, che mi preoccupo… Contami tutto quello che avvenne fra te e tuo marito a questo proposito.

La contessa raccontò quel che erale capitato a tal riguardo, ma noi prendendo da più alto le mosse esporremo assai più di quanto ella sapesse e potesse apprendere al suo amante.

Ed ecco di che modo s'eran passate le cose.

Il signor X, gioielliere, uno dei principali, per non dire il principale, di Torino in quel tempo, aveva recato, se ben vi ricorda, a Nariccia, pochi giorni prima che succedesse l'assassinio di costui, una certa quantità di preziosi oggetti del suo commercio, ed ottenutone ancor egli una somma in prestito lasciandoli in pegno all'usuraio. Figuratevi dunque come egli rimanesse allorquando quella mattina che si sparse per la città la novella dell'orrendo delitto, ebbe udito che tutta era stata svaligiata d'ogni cosa di valore la casa dell'assassinato! Corse immantinente dal Commissario di Polizia a far la sua denunzia e la sua deposizione, dando la lista distinta e divisata un per uno di tutti gli oggetti ch'egli aveva consegnati a Nariccia e che erano caduti nel furto. Il valore complessivo di quei gioielli saliva a qualche diecina di mille lire: e il signor Tofi, quando ebbe udito l'orafo specificare siffatto valore, esclamò con quella sua ruvidezza che pareva sempre un accento collerico:

– I mariuoli hanno fatto un bel colpo!.. L'altro dì hanno arraffato i capitali del banchiere Bancone, ieri il tesoro dell'usuraio Nariccia: c'è da farsi ricchi in più a queste due sole imprese… Sarebbe un bel mestiere… se non ci fossimo noi a coglierli… E li coglieremo, glie lo prometto io!.. Nel furto Nariccia gli scellerati avranno portato via più di cento mila lire.

– Che la dice? esclamò il signor X, a cui le parole sfuggirono senza pensarci, e che, pur pensandoci, le avrebbe fors'anche dette lo stesso. Ma se Nariccia aveva tuttavia in suo potere i diamanti di casa Langosco, e tutto mi induce a credere di sì, questi solamente furono pei ladri un bottino di centinaia di mila lire.

Il signor Tofi volse tutto d'un pezzo la sua faccia aggrottata sul cravattone duro verso il gioielliere:

– Come! I diamanti di casa Langosco erano in potere di quell'usuraio?

– Sì, signor Commissario; ce li vidi io stesso ch'egli me li diede ad esaminare, consultandomi sul valore. E ciò accadeva solamente tre giorni fa.

– Oh, oh! Questo sarebbe elemento da tenerne calcolo. Gli assassini avrebbero saputo che quei diamanti erano colà… Ma come colà?.. In pegno forse?.. Eh, eh! non è impossibile… Bisognerà vedere… Ad ogni modo finora la Casa di Staffarda non fece richiamo nessuno, non porse denunzia di sorta; e trattandosi di somma di tanto valore, non mi pare che si vorrebbe star zitti.

Il Commissario congedò il gioielliere, ed occupato com'era in quel dì da un subbisso di faccende, per la rivolta sopratutto degli operai avvenuta la sera innanzi, dimenticò, o per dir meglio, trascurò di dare l'importanza che avrebbe data altre volte a quelle parole dell'orafo riguardo i diamanti della nobil famiglia Langosco. Tutta la giornata passò senza che denuncia alcuna venisse; dalle informazioni che fece prendere, il Commissario seppe che nel palazzo di Staffarda nulla era avvenuto onde si potesse supporre che tal danno era capitato a quella casa; la sera inoltre gli fu presto notificato che la contessa Candida al ballo di Corte, sfolgorava il capo, il seno, le braccia di tutti i suoi diamanti. Tofi non ci pensò più. Se il gioielliere non si era sbagliato, e uno sbaglio di questa fatta in lui era difficilissimo, i signori Langosco avevano per loro fortuna ritirato a tempo il pegno preziosissimo dalle mani dell'usuraio.

Il signor X, a cui il ricupero della sua roba premeva infinitamente, era già tornato parecchie volte nei due giorni che erano seguìti dal Commissario a domandargliene novelle, finchè questi, che non aveva nulla da apprendergli, che era occupatissimo e di peggio umore che mai, perdè la pazienza, e con quelle sue maniere da burbero e parole da prepotente gli ebbe fatto capire non venisse più a seccarlo, e quando si avesse qualche cosa da dirgli, o da farsene dire, lo si sarebbe mandato a chiamare. Il gioielliere se ne partì mortificato, e domandando a se stesso che razza di giustizia la fosse questa che il derubato colà dove si doveva prendere tutto l'impegno per fargli riavere la sua roba, veniva accolto e trattato peggio che al ladro non si farebbe.

Ma il domani gli venne dalla Polizia un messaggio che gli fece nascere in cuore qualche buona speranza. Il signor Commissario con un ordine laconicamente espresso lo chiamava subito innanzi a sè, per comunicazioni urgenti. Il gioielliere volò al Palazzo Madama colla dolce speranza d'udirsi a dire per prima cosa che i ladri erano stati presi e i suoi gioielli ricuperati. Fu una delusione. Introdotto in quel certo gabinetto del Commissario che già conosciamo, e chiusane alle spalle di lui la porta, il signor X rimase solo con quel terribile rappresentante della pubblica autorità, il quale pareva assai sopra pensiero e più burbero che mai.

Il signor X fu minutissimamente interrogato su quella circostanza ch'egli aveva incidentalmente allegata nel primo colloquio da lui avuto col Commissario, la presenza cioè in casa di Nariccia dei diamanti Langosco. Il gioielliere dovette dir tutto: e come egli si trovasse quella tal mattina in casa dell'usuraio, e come fossero sopravvenuti a disturbarlo nel colloquio ch'egli aveva con Nariccia prima un frate gesuita, poscia un cotale, di cui egli non aveva vista la persona, ma uditane la voce e creduto di riconoscerla per quella del dottor Quercia; come poco dopo Nariccia era tornato da lui portandogli ad esaminare, perchè glie ne dicesse il valore, certe buste di diamanti ch'egli aveva tosto riconosciuti per quelli della contessa di Staffarda, cui egli aveva l'onore di contare fra le sue pratiche; come più tardi fossero andati nel suo fondaco il conte Langosco e il dottor Quercia, il primo a chiedergli della ripulitura di quei diamanti che a lui non erano stati consegnati, il secondo a pregarlo in nome della contessa a far sì che il conte credesse che i diamanti fossero presso di lui.

Il Commissario ascoltò attentissimamente, fece ripetere parecchie cose, domandò varie minute spiegazioni: non iscrisse le parole pronunziate dal signor X, ma prese diversi appunti di date, di ore, di motti sopra una cartolina che chiuse poi accuratamente in un suo portafogli che teneva allato; e finì per congedare l'orafo, più burbero che mai, intimandogli che di quanto aveva narrato allor'allora non si lasciasse intanto sfuggire parola con anima viva. Poscia diede subito ordine a varii segreti agenti (e fu così che alcuna cosa venne a subodorare anche di ciò quello affigliato alla cocca) si scrutasse se i diamanti portati dalla contessa di Staffarda al ballo di Corte erano veri, se il dottor Quercia di que' giorni fosse stato visto in alcun modo in possesso di oggetti di valore od avesse speso eccezionalmente delle vistose somme.

Come mai il signor Tofi s'era posto a dare ora tanta importanza a questo fatto che da principio aveva destato mediocremente soltanto la sua attenzione? Gli è che nel frattempo egli aveva ritrovato Barnaba.

Sul modo di agire però, il signor Tofi si trovava molto perplesso. La faccenda era assai delicata. La famiglia Langosco era troppo autorevole e potente per non riguardarsi bene dal comprometterla leggermente. D'altronde quello pareva pure un filo da non doversi trascurare per guidarsi in quel labirinto finora indistricabile. Pensatovi su ben bene il Commissario decise di parlarne francamente al conte medesimo; scrisse una letterina, la più garbata ed umile ch'egli sapesse, al marito di Candida, pregandolo a volergli assegnare un'ora in cui si potesse presentare al suo palazzo, avendo egli urgente bisogno di parlargli.

Il conte di Staffarda, quando vide chi fosse che gli scriveva, tenne quel foglio colla punta delle dita, in quel modo schifiltoso con cui il marchese de la Seiglière nella bella commedia di Sandeau tiene la carta bollata.

– Il Commissario di Polizia parlare a me? Oh che può avermi a dire un simile personaggio?.. Entrare qui nel mio palazzo questa razza di gente!.. Mai più!.. Andiamo dal mio amico il generale Barranchi.

Ci si recò sul momento.

– Guardate, mio caro, diss'egli al generale, porgendogli il biglietto ricevuto, che cosa mi scrive il vostro Commissario; mandatelo un po' a chiamare quel maroufle, ch'e' venga qui a spiegarsi in presenza vostra, se non vi disaggrada.

Il comandante dei carabinieri tirò su le sopracciglia sulla sua fronte piccola e stretta, lesse e rilesse, tossì con aria d'importanza, s'impettì nella montura, specchiò il suo naso nei bottoni lucentissimi del suo petto e mandò ordine al Commissario venisse immantinente.

Quindici minuti dopo il signor Tofi si presentava, secondo il solito, duro, impalato, le braccia lungo il corpo, in mano il suo cappello a larga tesa, il suo lungo soprabitone cascante sulle gambe nervose, i suoi piedi larghi e piatti ben piantati, il mento appoggiato alle stecche del cravattone, lo sguardo dritto levato innanzi a sè, nella impostatura del soldato senz'armi.

Il conte di Staffarda stava indolentemente sdraiato in una poltrona, giocherellando con uno de' guanti che s'era levato dalla bella, fine ed aristocratica destra, e pareva che quello non fosse punto fatto suo. Però, guardando la faccia burbera e severa del Commissario di Polizia, piantatosi a pochi passi di distanza, alla qual faccia l'aria di sommissione che aveva assunta in quel momento, pareva accrescere ancora la scontrosità, il marito di Candida provò uno strano e nuovo effetto, come se gli fosse apparso in quell'alto e grosso corpo un messo del destino ad annunziargli sventura. Il generale Barranchi fece un cenno al Commissario perchè s'avvicinasse, e quando questi ebbe obbedito, gli disse in tono di comando militare, porgendo verso di lui, a mostrarglielo, il biglietto ricevuto da Langosco.

– Voi avete scritto questo biglietto?

Tofi diede un'occhiata al foglio, un'altra a chi lo interrogava, e rispose:

– Sì, Eccellenza.

– Or bene, che cos'è che avete a dire al mio amico il conte di Staffarda? Egli è qui pronto ad ascoltarvi; parlate.

Il Commissario fece scorrere lo sguardo di quelle sue pupille feline sul volto di Langosco, poi lo ricondusse sulla faccia scioccamente superba del generale.

– Mi perdonerà S. E., mi perdonerà anche il signor conte di Staffarda; ma quello che devo dire, non lo posso dire che al solo conte medesimo.

Langosco staccò le spalle dalla poltrona con moto piuttosto vivace.

– Parlate, parlate pure in presenza del generale: è mio amico e non ci ho nulla, ch'io sappia, che possa volere a' miei amici nascosto.

Tofi s'inchinò leggermente ed insistette.

– Non mi è assolutamente permesso di accondiscendere al desiderio di vostra signoria. Credo mio debito parlare a Lei sola; e quando la mi avrà ascoltato sono persuaso che mi darà ragione.

Il conte fece un atto d'impazienza.

Barranchi entrò in mezzo.

– Mio caro, disse, conosco questo bravo Tofi; è il più ostinato degli uomini, e se non vuole non ci sarà verso di farlo parlare. Cedo io il campo. Parlatevi qui stesso quanto fa bisogno; e voglio sperare che il signor Tofi non avrà disturbato voi, nè vorrà disturbar me per bazzecole che non abbiano importanza.

Gettò queste parole accompagnate da uno sguardo imponente e da una mossa autorevole contro il Commissario come un'intimata. Tofi non si scompose.

 

– Ebbene, disse Langosco quando il generale fu uscito, parlate ora liberamente e fate presto.

Aveva egli appoggiato un gomito alla tavola che gli era vicina, s'era così appressato un poco della persona al suo interlocutore, ed aveva parlato con accento di sollecita benchè dissimulata curiosità.

Tofi depose il suo largo cappello sulla seggiola che trovò più vicina, s'aggiustò sotto il mento quadrato l'alta e dura cravatta, affondò secondo sua abitudine le manaccie entro le grandi tasche del suo soprabitone, e cominciò col tono di un interrogatorio:

– Il signor conte ebbe qualche rapporto d'interesse col fu Nariccia, assassinato la settimana scorsa?

Langosco arrossì leggermente sui pomelli delle sue magre e pallide guancie; si trasse indietro della persona con mossa d'inesprimibile fierezza, e mettendo nella sua voce un disdegnoso risentimento, disse guardando corrucciato la faccia del Commissario:

– Che è ciò? Obliate voi con chi parlate? Non son tale a cui dobbiate osare volgere le vostre interrogazioni – voi!

Innanzi a questo disprezzo il Commissario si morse il labbro inferiore e fece un atto colle mascelle come se mandasse giù un grosso boccone; in fondo alle sue occhiaie, le grigie pupille ebbero un lampo fugace che pareva voler accennare ad un riscuotersi di quella natura plebea contro lo staffile di quel disprezzo aristocratico; ma la soggezione rispettosa al grado, al titolo, alla casta non venne meno in quell'uomo pagato per difendere con zelo l'ordine di cose esistente; s'inchinò a suo modo, e soggiunse con un accento d'umiltà che stornava maladettamente coll'espressione della faccia, coll'aspetto di tutta la persona, colla rauca ruvidezza della voce:

– La mi perdoni. Si tratta della giustizia di S. M., e noi abbiamo il dovere per servirla di non arrestarci innanzi a nulla. Ella sa l'orrendo delitto che fu commesso, e certe circostanze che per mezzo della S. V. si possono assicurare, son forse tali da metterci sulle traccie della verità.

– Siete matto! esclamò il conte mezzo stupito e mezzo indignato. Che cosa ci posso entrar io in codesto?

– Se Ella mi permettesse appunto di continuare a rivolgerle alcune domande e volesse degnarsi rispondere…

Langosco interruppe con superba impazienza:

– Ditemi queste vostre circostanze cui accennate, e quando io le abbia udite saprò e vedrò che cosa vi debba rispondere o no.

Il Commissario trasse di tasca il suo portafogli, prese in mezzo a molte carte quella su cui aveva notati gli appunti della narrazione fatta dal gioielliere X, e questa ripetè per intiero, con un'esattezza che poteva dirsi crudele, e che ben vendicava il Commissario della sprezzosa impertinenza con cui il conte lo trattava. Avreste detto, chi superficialmente l'osservasse, che il marito di Candida stava ascoltando le più indifferenti cose del mondo. Aveva appoggiato di nuovo il gomito sul tavolo, teneva il mento nel concavo della mano e guardava fiso, immobile il Commissario che lo fissava entro gli occhi egli pure. Ma scrutando ben bene quella fisionomia si sarebbe visto che una maggior pallidezza dell'usato s'era stesa su quel volto logoro più dalle passioni che dagli anni, che quel sorriso ironico e superbo ond'erano abitualmente mosse le sue labbra, ora copriva una nuova emozione che tremolava, per dir così, ai due sottili angoli della bocca, che dalle ciglia ravvicinate fuggiva a sprazzi una luce d'immensa ira compressa, che sulla lucida, giallognola pelle del cranio denudato spuntavano, come punte di spilla, alcune goccioline di sudore.

Quando Tofi ebbe finito di parlare, successe in quel salotto un assoluto silenzio di parecchi minuti: s'udiva solamente il soffio un po' pesante del rifiato del conte. Que' due uomini stettero alquanto così, immobili, di fronte, l'uno seduto e l'altro in piedi, guardandosi con fissità poco meno che ostile; il Commissario voleva leggere nell'interno del conte, questi avrebbe voluto strappare dalla memoria di colui che gli aveva parlato il fatto che ne aveva appreso. Pensava frattanto con indicibile sforzo di mente che cosa fosse da farsi, qual risoluzione da prendersi. Passò la mano sul suo cranio pelato ad asciugarsi quel po' di sudore; e disse poi lentamente con voce bassa e stentata:

– Non vedo ch'io sia obbligato a nulla rispondere… Potrei limitarmi a dirvi che in queste circostanze da voi narrate non c'è nulla, assolutamente nulla che possa mettervi sulle traccie di quella tal verità che cercate.

Si fermò come a prender fiato, chinò gli occhi egli innanzi a quelli del Commissario, ma li rialzò tosto di nuovo e continuò:

– Ma voi siete come i confessori, e vi si può confidare un segreto di famiglia… È vero che mia moglie, per certi suoi bisogni, mandò, a mia insaputa, ad impegnare i diamanti, e per nascondermelo volle farmi credere fossero presso il gioielliere. Ma io non fui lungamente sa dupe. La indussi a dirmene la verità; e quando la seppi non volli che i gioielli di mia moglie stessero più a lungo nelle mani di un usuraio – e li riscattai.

Nulla era più penoso a quell'uomo che mentire; sul suo cranio si raddoppiavano le goccie di sudore.

Il Commissario si chinò un poco verso il conte e disse con accento che non era interrogativo, ma che poco mancava ad esserlo:

– L'assassinio di Nariccia ebbe luogo nella notte dalla domenica al lunedì. Ella ha certamente riscattati quei diamanti nella giornata stessa di domenica, forse anche in quella di sabato.

Langosco trasalì.

– Sì, sì, diss'egli, sabato, sabato stesso.

S'alzò per indicare che l'udienza, secondo suo volere, doveva essere finita; andò alla porta del gabinetto vicino in cui s'era ritirato il generale e l'aprì.

– Venite pure, Barranchi.

Il generale si presentò con un'aria scioccamente curiosa sulla sua stupida faccia superba.

Langosco non aspettò interrogazione veruna.

– Potete fare con giustizia i complimenti al vostro Commissario di Polizia: disse. Egli sa anche ciò che non importerebbe sapere, e che le famiglie vorrebbero molto bene nascosto a tutti. Ma ditegli anche voi che un uomo suo pari dev'essere una tomba dei segreti.

Il generale tirò avanti colla sua solita mossa il petto lucente di bottoni e di decorazioni e disse, come se comandasse il maneggio d'armi ad un pelottone di carabinieri:

– Voi sarete una tomba dei segreti.

Tofi, congedato di questa guisa, si partì.

– Caro generale: disse Langosco rimasto solo con Barranchi: a voi non voglio tener nulla nascosto. Mia moglie aveva impegnato i suoi diamanti presso quell'usuraio che fu assassinato. Tofi lo seppe e voleva conoscere il modo col quale la contessa li aveva riavuti. Sono io che appena ho appreso tal cosa, mi affrettai a riscattarli. Non fareste male d'inculcare a quel Commissario troppo zelante, che quando trattasi di certa gente come noi, di certe famiglie come la mia, come le nostre, non gli conviene avere tanta curiosità.

Barranchi prese la sua aria d'importanza e disse dall'alto del suo colletto ricamato in argento:

– Glie l'inculcherò.

Il conte di Staffarda si recò sollecitamente dal gioielliere X. Ripetè a lui quello che aveva narrato al Commissario ed a Barranchi, e con preghiera che aveva tutto il tono d'un comando, lo invitò a non parlar più con nessuno e in nessuna guisa di questa faccenda. Quindi si recò nel suo palazzo.

– La contessa è nelle sue stanze? domandò ai domestici.

E come gli fu risposto di sì, s'avviò d'un passo lento e pesante verso l'appartamento della moglie, dove entrò senza voler essere annunziato.

La contessa, che da qualche tempo veniva ricevendo alcune di cotali improvvise visite del marito, a cui egli dapprima non l'aveva avvezza mai; la contessa si volse a guardare il conte con aria meravigliata, curiosa e risentita nello stesso tempo. L'espressione del suo bel volto significava apertamente, senza che avesse bisogno delle parole per dirlo: «Che altra novità c'è ella ora? Non vi ricordate i patti e la mia volontà? Non volete più lasciarmi tranquilla?»